Sentenza 15 dicembre 2005, n.622
Tribunale di L’Aquila. Sentenza n. 15 dicembre 2005, n. 622: “L’astensione dalle udienze per la presenza in aula del crocifisso integra il reato di omissione di atti di ufficio”.
TRIBUNALE DI L’AQUILA
Innanzi al Tribunale di l’Aquila, Sezione Unica composto da:
dott. C.Tatozzi – Presidente
Dott. E. Bozzelli – Giudice
Dott. G. Romano Gagarella – Giudice
Alla pubblica udienza del 18 novembre 2005 ha pronunciato e pubblicato mediante lettura del dispositivo la seguente
SENTENZA
Nei confronti di:
T.L., nato a […], il […], residente ed elettivamente domiciliato in […]; Libero presente
Imputato
Proc. n. 638/05
Del reato p. e p. degli artt. 81, 328 c.p. perché, nella sua qualità di giudice presso il Tribunale di Camerino si asteneva dal tenere udienze nei giorni 24, 25 maggio 2005, 6, 8, 10, 13, 20, 21 giugno e 4 luglio 2055 che doveva trattare senza ritardo per ragioni di giustizia indebitamente motivandola espressamente per la presenza in aula del “crocifisso”.
Acc. in Camerino il 24 e 25 maggio 2005, il 6, 8, 10 13, 20, 21 giugno 2005 e 4 luglio 2005.
Proc. N. 637/05
Del reato p. e p. degli artt. 328 c.p. poiché, nella sua qualità di Giudice presso il Tribunale di Camerini di asteneva dal tenere udienze nei giorni 9, 10, 11, 13, 16 e 27 maggio 2055 che doveva trattare senza ritardo per ragioni di giustizia indebitamente motivandola espressamente per la presenza in aula del “crocifisso”.
Acc. in Camerino il 9, 10, 11, 13, 16 e 27 maggio 2005-12-22
Con l’intervento del P.M. Dr. Pinelli;
e di Avv. Visconti in sostituzione dell’Avv. Brodini e Avv. Fabio Pierdominicis del Foro di Camerino.
Le parti hanno concluso come segue:
il P.M. conclude e chiede la condanna alla pena di anni 1 di reclusione.
La difesa Avv. Pierdominicis conclude e chiede l’assoluzione perché il fatto non sussiste.
L’Avv. Visconti conclude e chiede l’assoluzione perché il fatto non sussiste.
MOTIVAZIONI
T.L. è stato tratto al giudizio immediato di questo Tribunale nei distinti procedimenti nn. 673/05 e 638/05 R.G. Trib. Secondo i criteri e le modalità di cui agli artt. 453 e segg. c.p.p. per rispondere di diversi fatti-reato di rifiuto di atti d’ufficio – artt. 81 cpv e 328 c.p. – compiuti nel periodo tra il 9 maggio ed il 4 luglio del 2005.
L’odierno pubblico dibattimento è stato celebrato, inizialmente, alla presenza dell’imputato: quest’ultimo, poi, ha ritenuto di allontanarsi, con il che il dibattimento è proseguito in sua “assenza”, non avendo considerato soddisfatte le proprie esigenze, ampiamente esposte dallo stesso T. con dichiarazioni spontanee e sostenute pure dai suoi difensori, di vedere proseguire il processo in un’udienza “regolarizzata”, secondo le direttive della circolare del “Ministro Rocco” del 29.05.1926, dalla presenza del crocifisso od, almeno, caratterizzata dalla possibilità di esporre nell’aula stessa i simboli del proprio credo religioso. Dopo la decisione sulle questioni preliminari e sulle altre richieste avanzate dalla difesa, il processo, in esito all’ammissione delle prove richieste dalle parti ed alla loro assunzione, veniva definito con la pronuncia di cui in dispositivo.
E’ stato fatto carico al T. di essersi rifiutato indebitamente, quale giudice presso il Tribunale di Camerino, di tenere senza ritardo le udienze per i procedimenti ad esso assegnati per ragione di giustizia nei giorni 9, 10, 11, 13, 16 e 27 maggio 2005 ed, ancora, nei giorni 24, 25 maggio, 6, 8, 10, 13, 20, 21 giugno e 4 luglio 2005, indicando, come motivo della decisione di astenersi, la presenza del crocifisso nei locali destinati alla trattazione delle cause.
E’ stato prospettato dall’accusa che il comportamento reiteratamente assunto dal giudicabile per un lungo periodo e che ha condotto alla sostanziale paralisi dell’attività professionale del T. – arbitrariamente rifiutata finanche dopo essere stato autorizzato a tenere le udienze nel proprio ufficio ed, addirittura, in aula priva di crocifisso – valga ad integrare non solo l’elemento oggettivo dell’ipotesi del “rifiuto di atti d’ufficio”, prevista dal 1° comma dell’art. 328 c.p., ma pure l’elemento intenzionale della fattispecie in discussione – dolo generico – senza che possano considerarsi sussistenti plausibili giustificazioni, rinvenibili nella legge o negli atti e comportamenti dell’autorità amministrativa, che valgano a scriminare il carattere indebito del “rifiuto”.
Orbene è convinzione di questo Collegio che la tesi del Pubblico Ministero sia integralmente da condividere.
Non è ozioso premettere che il Tribunale ritiene non debbano essere coinvolti più del necessario, per la soluzione del caso concreto, gli aspetti di carattere ideologico che l’imputato e gli stessi difensori hanno cercato, invece, di prospettare come fondamentali ed, addirittura quelli dirimenti il thema decidendum: le “sentite” digressioni di indole ideologica rappresentate al collegio, con non comune vivacità, dal pervenuto e dai suoi difensori non possono prevalere sugli aspetti, processuali e sostanziali, che, invece, vanno qui precipuamente affrontati.
In punto di fatto è incontrovertibile, ma non è neanche contestato – proprio la posizione assunta dal T. e la sua strategia difensiva finiscono per muovere proprio da tale assunto di fatto – che costui, nel corso dello svolgimento delle proprie funzioni giurisdizionali presso il Tribunale di Camerino, in una certa epoca, inquadrata nel periodo maggio-luglio 2005, si sia, inopinatamente, determinato a rifiutare la prestazione delle sue mansioni (trattazione per ragione di giustizia di udienze) adducendo, come motivazione, la carenza di “neutralità” degli ambienti, in cui si sarebbero dovuti trattare i procedimenti assegnatigli, per la presenza in essi del simbolo religioso dei cristiani o, quantomeno, perché non era parimenti consentito esporre in detti locali i simboli (ad esempio la “menorà”) di “altre ideologie o confessioni religiose”, tra cui quella ebraica. E’, peraltro, certo che l’imputato abbia reiterato il rifiuto delle prestazioni finanche dopo essere stato autorizzato a “tenere le udienze” nella propria stanza (condotta questa solo all’inizio adottata dall’imputato) o dopo che era stata posta a sua disposizione un’aula attrezzata senza il crocifisso. Su entrambi gli aspetti hanno offerto precisazioni sia il presidente del Tribunale di Camerino, Dott. AA:, sia il cancelliere di quell’ufficio, C.E., sentiti in udienza (vedi ai fogli 26, 28, 29, 32, 43, 44, 49 del verbale in atti). Risolutiva per tal verso, poi, appare la risposta data dal T. il 26 maggio 2005 alla nota in data 25 maggio – n. 18 int. – del Presidente A. (entrambe acquisite agli atti), nella quale risposta il prevenuto aveva inteso spiegare le ragioni del suo rifiuto a tenere le udienze nella propria stanza o in stanza priva del simbolo religioso del crocifisso.
Sussiste perciò la prova in causa che astensione-rifiuto dell’attività giurisdizionale vi sia stata, che essa sia stata ripetuta e, almeno per un certo periodo, continuativa e che la tenuta da parte del T. delle udienze, per la trattazione personale di procedimenti assegnatigli o, comunque, da trattare da parte del tribunale, sia stata dallo stesso imputato volontariamente impedita (per quanto dipendente dalle sue iniziative): circostanze di fatto trasfuse nella rubrica e costituenti nucleo stesso dell’addebito delineato come illecito penalmente sanzionabile.
Resta da verificare se nel caso in esame la condotta obiettivamente antigiuridica del giudice sia stata anche “indebita” ovvero se, nelle ragioni adottate dal T. a sostegno del rifiuto da lui consapevolmente prestato, siano ravvisabili gli estremi di quella “giustificazione” costituita dall’inevitabile necessità, in costanza di un conflitto d’interessi tra il compimento dell’atto o dell’attivita richiesta al p.u. e l’esercizio da parte sua di diritti o facoltà costituzionalmente garantiti, di far prevalere questi ultimi; con l’evidente pari esigenza che tra la posizione personale del p.u., meritevole di tutela, ed il rifiuto del compimento dell’atto o dell’attività sussista un vincolo di causalità immediata.
In funzione di tale verifica riemergono gli aspetti di carattere preponderantemente ideologico cui prima si è fatto riferimento. Il T. adduce che il “rifiuto” della funzione giurisdizionale da lui pure dovuta è giustificato dall’insopprimibile esigenza del rispetto della propria libertà di coscienza – che è inscindibilmente connessa a quello di “laicità” dello Stato e agli altri della libertà religiosa del cittadino di manifestare il proprio pensiero e di professare la propria fede religiosa – che si concreta, nello specifico, nella “neutralità delle aule, in sintesi raggiungibile solo attraversi la rimozione del simbolo religioso cristiano neppure prescritto dal legislatore ma previsto da un mero vecchissimo provvedimento ministeriale, in cui svolgere le proprie mansioni di giudice (e non già solo di quello contingentemente occupate per il disbrigo di taluni affari, ma di tutte quelle in cui si concreta la funzione giurisdizionale). L’imputato, facendo determinante riferimento, come sostegno alle proprie argomentazioni, alla pronuncia della S.C. n. 4237 del 1 marzo – 6 aprile del 2000 (ricorrente Montagnana), conclude che l’eventuale accettazione del crocifisso – che darebbe stata ineluttabile proseguendo nello svolgimento delle proprie mansioni senza pretenderne la rimozione dalle aule giudiziarie – avrebbe rappresentato, appunto, una lesione, oltre che della pari dignità delle religioni e delle convinzioni di coloro che religioni non hanno e, dunque, della laicità dello Stato, pure del diritto a manifestare liberamente il pensiero e della libertà di coscienza.
E’ convinzione del Tribunale che nel caso in esame il “rifiuto” ripetutamente manifestato dal T. all’esercizio giurisdizionale sia stato “indebito”, soprattutto nella considerazione che certamente il T. all’inizio della propria attività e poi a lungo per anni, ha concretamente accettato le condizioni in cui si svolgevano le proprie funzioni sino al 2003 epoca in cui la “coscienza” ha indotto il giudicabile ad assumere l’attuale posizione (si dice, nella meteora difensiva depositata, perché all’uopo sollecitato da due legali presenti nei locali del Tribunale di Camerino e, quindi,. Se ne deduce una posizione maturata non per proprie, piene e consolidate, convinzioni e determinazioni); vedi foglio 12 della memoria) non dimessa neppure quando le condizioni per lo svolgimento delle sue personali mansioni sono state adattate alle rappresentate esigenze di “neutralità”, di “imparzialità” e di “eguaglianza” dell’ambiente deputato alla formazione del processo decisionale (vedi foglio 9 della memoria difensiva depositata il 16.11.2005 in atti).
Prima di ogni altra considerazione, merita sgombrare il campo dall’incidenza che, nelle aspettative dell’imputato, dovrebbe rivestire in causa il precedente giurisprudenziale costituito dalla sentenza c.d. “Montagnana” alla quale il prevenuto sembra restare “vincolato”, tanto da farne ripetutamente il parametro defensionale più solido della propria attuale strategia processuale. Dovrebbero essere evidenti le differenze, non marginali, tra la materia del contendere oggetto della decisione della S.C. del 16 aprile 2000 e quella oggetto dell’odierno procedimento: mentre la situazione nella quale versava il Montagnana Marcello, chiamato a svolgere la funzione di “scrutatore” nelle elezioni politiche del 27/28 marzo 1994, era caratterizzata dal fatto che egli una volta nominato, ove avesse voluto sottrarsi al doveroso pubblico ufficio di “scrutatore” (con tutto il contenuto proprio di tale funzione, di espressione e manifestazione della potestà amministrativa”, richiamata dalla S.C.; cfr. a fol. 4 della pronuncia), avrebbe dovuto addurre e dimostrare l’esistenza di un “giustificato motivo” che si ritenne, poi, di individuare proprio nella “libertà di coscienza e religiosa” e nella “laicità dello Stato” che sarebbero state lese dalla necessità di svolgere l’ufficio “impostogli” in un seggio che, seppur non munito del simbolo religioso dei cristiani, era, comunque, parte di una “intera organizzazione elettorale” dotata obbligatoriamente di arredi comprensivi del simbolo contestato, la situazione in cui versava il T. era quella di essere obbligato a svolgere le sue ordinarie funzioni giurisdizionali (di pari, se non superiori, rango e rilievo pubblicistici), per il cui esercizio non è previsto da parte del legislatore alcun “giustificato motivo” atto a legittimarne il rifiuto. La difformità non deve apparire di poco conto in quanto nel caso delle funzioni di scrutatore il “motivo” – legislativamente previsto (cfr. l’art. 108 del d.p.r. 30.3.1957 n. 361) – può giungere, ove “giustificato”, a bilanciare ed, anzi, a prevalere sulla “prestazione richiesta od imposta da una specifica disposizione” e, in generale sull’adempimento dell’incarico e della funzione, nell’ipotesi, invece, dell’espletamento delle funzioni giurisdizionali – per il quale non sono previste, come già anticipato – situazioni particolari di “giustificato motivo” che abilitino all’astensione – non è possibile, di norma, alcun bilanciamento e men che meno, alcuna prevalenza di esso “motivo” sull’obbligo della loro prestazione. La diversità ora ricordata rende dunque la fattispecie concreta di cui qui ci si sta occupando non assimilabile, come accennato, a quella vagliata dalla citata sentenza della Corte regolatrice e, dunque, non del tutto appropriato il continuo. Pedissequo richiamo a quel precedente giurisprudenziale.
Ad avviso del Collegio per apprezzare ciò che rende “indebita” l’astensione dall’esercizio della funzione giurisdizionale realizzata dal T. deve muoversi proprio dalla ricordata differenza: il mancato espletamento della sua attività mai avrebbe potuto essere legittimata da un presunto bilanciamento delle esigenze discendenti dalla legittima tutela della libertà religiosa o di coscienza ovvero del principio di laicità dello stato – ed ancora meno dal loro prevalere – sul dovere di inadempimento delle proprie funzioni di giudice. L’obbligo di esercitare queste ultime sarebbe stato ed è per il T. (sul punto vale la pena di rammentare gli artt. 1, primo comma, e 4, secondo comma, della Costituzione) da assolvere in via “primaria”, nella considerazione, peraltro, che subito egli fu posto nelle condizioni logistiche idonee a rendere, comunque, compatibile lo svolgimento della sua attività giurisdizionale con le rappresentate, seppur “tardivamente”, irrinunciabili esigenze, discendenti dalla “libertà di coscienza e di religione”, dalla “libertà di manifestazione del pensiero” e dal “principio di laicità dello Stato”, consentendogli l’esercizio di essa in ambienti privati dei simboli religiosi cristiani, “privilegio” dei cattolici (si è detto sopra con autorizzazione a “lavorare” nella propria stanza, dapprima, ed in un’aula “neutrale” poi). L’evidenza dello squilibrio generato dalla sollecitazione di una prevalenza della tutela delle libertà e dei principi su richiamati sull’adempimento del dovere commesso alle proprie fondamentali funzioni pubbliche, cui era ed è tuttora sottoposto il T. per propria scelta, rende ancor meno condivisibili le ragioni che il giudicabile rappresenta oggi a propria “discolpa”: l’invocazione della rappresentata tutela, maturata su sollecitazione altrui anche se, si sostiene, condivisa, appare nella fattispecie, pretestuosa e non comprensibile sol che si consideri che condotta del tutto analoga a quella assunta dal T. potrebbe venire adottata da ciascuno dei novemila, circa, magistrati italiani che dovesse determinarsi, di punto in bianco a per il solo fatto della presenza dei Crocefissi in talune delle, pur numerose, sale giudiziarie del paese, a rifiutare le proprie funzioni in nome della necessaria salvaguardia degli stessi libertà e principio prima citati; situazione di possibile totale carenza di “giustizia” questa non diversamente risolvibile se non attraverso la generalizzata rimozione del simbolo cristiano realizzata con l’abrogazione dei quell’antico decreto ministeriale che ebbe ad istituirne l’apposizione, in uno con l’effige del Re, nelle aule di udienza.
Quanto all’ultimo degli argomenti trattati dalla difesa del prevenuto nella memoria difensiva, cioè al fatto che l’eventuale prosecuzione della propria attività in aule prive del simbolo dei cristiani avrebbe rappresentato una sorta di “ghettizzazione” per il permanere del simbolo in altre aule e l’essere “costretto” ad amministrare giustizia in ambienti residuali, anche volendo trascurare l’evidenza dell’iperbole terminologica cui si è voluti far ricorso, giova osservare che anch’esso non è pertinente e concludente. Infatti è stato proprio il T. a riconoscere di avere, per propria scelta, esercitato, in precedenza, le funzioni nella propria stanza od in altri ambienti privi del Crocefisso; d’altronde ina riprova evidente del fatto che “gestire le udienze” in ambienti che non si presentino corredate del simbolo cristiano sia evenienza “normale”, non è eccezionale, è data proprio dal fatto che nell’aula in cui è stato celebrato l’attuale dibattimento non sia mai stato presente e non sia stato presente durante questo procedimento il Crocefisso (l’affermazione che quest’aula potesse essere stata predisposta “ad hoc” proprio per ospitare la causa avente per protagonista il T. è destituita di ogni fondamento, come già accennato nell’ordinanza adottata in sede preliminare dal Collegio, trattandosi di aula ordinariamente riservata anche alla celebrazione dei dibattimenti oltre che alla trattazione dei procedimenti di competenza del GIP e del GUP e delle cause civili anche collegiali).
In conclusione ritiene il Tribunale che debba essere affermata la colpevolezza del giudicabile in presenza di tutti elementi, obiettivo e subiettivo, dell’illecito configurato dall’accusa.
Ai fini della concreta determinazione della pena da irrogare al T., è innegabile il riconoscimento allo stesso delle circostanze attenuanti generiche avuto soprattutto riguardo alla sua incensuratezza. Considerata la continuazione tra tutti gli episodi di rifiuto, ritenuta peraltro dallo stesso Pubblico Ministero almeno per i fatti trattati nei due distinti procedimenti, e vagliati i criteri tutti di cui all’art. 133 c.p., in specie l’entità del dolo e le ragioni della condotta, equa appare per l’imputato la pena di mesi sette di reclusione (partendo dalla pena base di mesi nove di reclusione, diminuita a mesi sei per le attenuanti generiche ed aumentata, come sopra, ai sensi dell’art. 81 c.p.). Alla condanna segue l’obbligo del pagamento delle spese processuali.
Giusta quanto disposto dall’art. 31 c.p., alla condanna per il fatto di omissione in parola deve seguire l’interdizione del T. dai pubblici uffici per un periodo che può essere determinato nella sua misura minima di anni uno.
I precedenti di vita dell’imputato e la ragionevole certezza che egli possa astenersi in futuro dal commettere ulteriori illeciti inducono a considerare fruibili da parte sua i benefici consentiti dalla legge.
P.Q.M.
Visti gli artt. 533 e segg. c.p.p. e 31 c.p.;
DICHIARA
T. L. colpevole dei reati ascrittigli nei procedimenti riuniti, ritenuta la continuazione tra i reati stessi, e, concesse le attenuanti generiche, lo condanna alla pena di mesi sette di reclusione nonché al pagamento delle spese processuali.
Lo dichiara, inoltre, interdetto dai pp. uu. per la durata di anni uno.
Ordina che la pena inflitta resti condizionalmente sospesa per i termini e sotto le comminatorie di legge e che alla condanna non sia fatta menzione sul certificato del casellario giudiziale.
Autore:
Tribunale Penale
Dossier:
Crocifisso
Nazione:
Italia
Parole chiave:
Confessioni religiose, Libertà di coscienza, Libertà fondamentali, Simboli religiosi, Crocifisso, Principio di laicità, Appartenenza confessionale, Aule giudiziarie, Omissione di atti d'ufficio, Attività giurisdizionale
Natura:
Sentenza
File PDF:
3442-sentenza-15-dicembre-2005-n-622.pdf