Osservatorio delle libertà ed istituzioni religiose

Olir

Osservatorio delle Libertà ed Istituzioni Religiose

Documenti • 6 Luglio 2005

Sentenza 14 marzo 2003, n.12634

Corte di Cassazione. Sezione lavoro. Sentenza 14 marzo 2003, n. 12634: “Configurazione di un’organizzazione di tendenza e assenza di struttura imprenditoriale”.

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

Sezione Lavoro

composta dai seguenti Magistrati:

1. Dott. Vincenzo Trezza -Presidente –
2. ” Mario Putaturo Viscido Donati -Consigliere –
3. ” Donato Figurelli -Consigliere rel. –
4. ” Francesco Antonio Maiorano -Consigliere –
5. ” Alessandro De Renzis -Consigliere –

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

sul ricorso (n. 83-2002) proposto da:
Di Biasio Felice, residente a Latina Scalo, rappresentato e difeso, giusta procura speciale con firma autenticata per dr. Daniela Arseni, notaio in Latina, in data 12.2.2003, rep. N. 1866, dall’avv. Antonio Briguglio, ed elettivamente domiciliato presso il medesimo in Roma alla via MICHELE MERCATI N 51; -ricorrente-

CONTRO

Associazione Nazionale Bieticoltori, con sede sociale in Roma e sede amministrativa in Bologna, in persona del Presidente dr. Paolo Alberto Fioroni, rappresentato e difeso dagli avv. Claudio Bevilacqua e Alberto Leone, giusta procura speciale in calce al controricorso e ricorso incidentale, ed elettivamente domiciliata in Roma alla via
Circonvallazione Clodia n. 29 presso lo studio dell’avv. Claudio Bevilacqua;
-controricorrente-

NONCHÈ

sul ricorso (n. 3713-2002) proposto da:
Associazione Nazionale Bieticoltori, in persona, rappresentato e difeso ed elettivamente domiciliato come sopra; -ricorrente incidentale-

CONTRO

Di Biasio Felice, rappresentato e difeso ed elettivamente domiciliato come sopra;
-intimato e ricorrente principale-

per l’annullamento della sentenza della Corte di Appello di Roma in data 3 maggio – 4 settembre 2001, n. 1490-2001, n. 1999-2000 R.G.C.;
udita la relazione della causa svolta dal consigliere Donato Figurelli nella pubblica udienza del 14 marzo 2003;
udito l’avv. Antonio Briguglio per il Di Biasio;
udito l’avv. Claudio Bevilacqua per l’Associazione Nazionale Bieticoltori;
udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale dr. Antonio Gialanella, che ha concluso per il rigetto del ricorso principale e di quello incidentale.

Fatto

Con ricorso depositato in data 21 aprile 2000 l’Associazione Nazionale Bieticoltori proponeva appello avverso la sentenza del giudice del lavoro di Latina in data 24 gennaio 2000, con la quale era stata dichiarata l’illegittimità del licenziamento intimato il 15 maggio 1998 al dipendente Di Biasio Felice ed ordinata la reintegrazione dello stesso nel posto di lavoro, nonché condannata l’Associazione convenuta al pagamento di tutte le retribuzioni maturate dal licenziamento all’effettiva reintegrazione, oltre ai contributi previdenziali ed assistenziali ed interessi legali, nonché al pagamento delle spese di lite.
Preliminarmente l’appellante riproponeva l’eccezione di incompetenza per territorio, già sollevata nel giudizio di primo grado. Si doleva, altresì, della decisione impugnata nella parte in cui ritenuta dal primo giudice una evidente sproporzione tra l’addebito contestato e la sanzione irrogata, era stata dichiarata l’illegittimità del licenziamento. Al riguardo, ribadiva che il comportamento del Di Biasio era stato certamente tale da creare danni potenzialmente irreversibili ed aveva denotato una leggerezza e trascuratezza tali da far venire irrimediabilmente meno la fiducia posta a base del rapporto di lavoro e da giustificare quindi la risoluzione del rapporto stesso. In via subordinata, inoltre, riproponeva la difesa avanzata in primo grado relativa all’inammissibilità dell’avversa domanda di reintegrazione nel posto di lavoro, stante l’inapplicabilità dell’art. 18 della legge 20.5.1970 n. 300 ai rapporti di lavoro tra l’Associazione stessa ed i propri dipendenti, in ragione della speciale normativa di cui all’art. 4 della legge 11.5.1990 n. 108. Infine chiedeva, in via estremamente subordinata, la detrazione dalle somme già corrisposte all’appellato di quelle percepite da quest’ultimo in virtù del rapporto di collaborazione instaurato, alla cessazione del rapporto, con l’Associazione Bieticoltori Italiani.
Si costituiva l’appellato, contestando le avverse deduzioni e concludendo per il rigetto dell’appello.
Con sentenza in data 3 maggio – 4 settembre 2001, la Corte di appello di Roma, in parziale riforma della sentenza gravata, condannava l’Associazione appellante solo alla riassunzione del Di Biasio entro tre giorni o, in mancanza, al risarcimento del danno con il pagamento di un’indennità ragguagliata a sei mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto, oltre interessi legali e rivalutazione monetaria dal giorno del licenziamento, i primi fino al saldo, la seconda alla data della sentenza, in favore del Di Biasio.
Osservava la Corte che l’eccezione di incompetenza territoriale era infondata, essendo competente, come ritenuto dal primo giudice, anche il foro di Latina, andando intesa la nozione di dipendenza aziendale in senso lato, in armonia con la mens legis, mirante a favorire il radicamento del foro speciale del lavoro nel luogo della prestazione lavorativa; che l’appellante, nell’indicare quale giudice competente per territorio anche il giudice del lavoro di Roma, aveva implicitamente riconosciuto la competenza di quella Corte a decidere anche nel merito in ordine alla controversia, atteso che giudice naturale di appello avverso le sentenze del giudice di primo grado di Roma sarebbe stata comunque la Corte del merito investita; in tali casi è principio consolidato che, se il giudice di appello è egli stesso competente a conoscere della domanda di primo grado, invece di rimettere la causa al giudice competente per territorio, deve pronunciare nel merito; e ciò anche nel caso di incompetenza del giudice di primo grado, che invece abbia affermato la propria competenza, ben potendo ritenersi il giudice di appello quale primo giudice nel merito, in presenza di richiesta avanzata, espressamente o implicitamente, da una delle parti, di decisione nel merito, come nella specie. Quanto agli altri motivi di appello, la Corte rilevava che correttamente il primo giudice aveva riconosciuto l’illegittimità del licenziamento intimato.
In relazione al comportamento addebitato al Di Biasio, quale segretario del seggio elettorale per l’elezione dei Consiglieri del bacino del centro (organo dell’Associazione appellante), relativo alle operazioni stesse ed alla redazione dei verbali, la Corte, contrariamente all’assunto dell’appellante, condivideva il convincimento del giudice di primo grado relativo all’illegittimità del licenziamento intimato, tenuto conto che “la mancanza addebitata non è strettamente inerente al rapporto di lavoro e che, soprattutto, non è risultata dipendere da dolo o colpa grave”.
Il motivo di appello, concernente l’applicabilità dell’art. 18 dello Statuto dei lavoratori, era fondato e meritava accoglimento.
Gli scopi dell’Associazione, invero, si sostanziavano in quello della tutela degli interessi collettivi professionali della categoria dei coltivatori di bietole, onde l’attività dell’Associazione poteva definirsi evidentemente di natura “politica” (nel senso etimologico del termine) e sindacale, attività espressamente prevista dall’art. 4 della legge 11.5.1990 n. 108, che, introducendo un regime speciale in deroga al criterio generale, prevede che restano esclusi dall’ambito dell’applicazione della tutela reale contro i licenziamenti illegittimi i datori di lavoro che, non essendo imprenditori, svolgano senza fini di lucro un’attività in senso lato di tendenza, per tali intendendo quelle di “natura politica, sindacale, culturale, di istruzione, ovvero di religione o di culto”.
In ordine all’esclusione della natura imprenditoriale dell’attività dell’Associazione – ritenuta invece sussistente dal giudice di primo grado, che aveva affermato che l’Associazione provvedeva alla vendita dei prodotti conferiti nonché ad incassare le quote associative annuali -, la Corte rilevava, invece, che l’Associazione appellante non svolgeva attività imprenditoriale, non gestendo, con una propria organizzazione di impresa, alcuna attività economica (provvedendo i soci a conferire i propri prodotti direttamente agli zuccherifici), ma sostanzialmente espletando attività ideologica, politico – sindacale, onde non poteva essere definita imprenditore.
Conseguentemente la società appellante, in riforma parziale della gravata sentenza, andava condannata alla riassunzione del Di Biasio entro tre giorni o, in mancanza, al risarcimento del danno con il pagamento di un’indennità ragguagliata a sei mensilità della ultima retribuzione globale di fatto, oltre interessi legali e rivalutazione monetaria dal giorno del licenziamento, i primi fino al saldo e la seconda alla data della sentenza.
Avverso detta sentenza, con atto notificato il 20 dicembre 2001, il Di Biasio ha proposto ricorso per cassazione, affidato ad un unico complesso motivo.
Con atto notificato il 25 gennaio 2002 l’Associazione intimata ha resistito con controricorso ed ha proposto altresì ricorso incidentale. Entrambe le parti hanno depositato memorie ex art. 378 cp.c..

Diritto

Con l’unico motivo del ricorso principale, denunziando violazione e falsa applicazione di norme di diritto ex art. 360 n. 3 c.p.c. per violazione dell’art. 4 l. 108-90, e dell’art. 2697 c.c.; dell’art. 18 St. lav.; insufficiente motivazione su punto decisivo della controversia ex art. 360 n. 5 c.p.c., il ricorrente Di Biasio deduce che erroneamente la sentenza impugnata ha riformato la sentenza di primo grado nella parte in cui, dichiarata l’illegittimità del licenziamento, aveva riconosciuto tutela reale ex art. 18 St. lav. al rapporto di lavoro intercorso tra esso Di Biasio e l’Associazione Nazionale Bieticoltori, disponendo invece la sola riassunzione nel posto di lavoro o, in mancanza, l’erogazione di sei mensilità, ai sensi dell’art. 4 l. 108-90.
Il giudice di appello attribuisce al datore di lavoro natura di “organizzazione di tendenza”, in quanto l’Associazione Bieticoltori, in base alle disposizioni statutarie, svolge attività “politica” e sindacale, non già imprenditoriale, stante l’assenza di una “struttura idonea all’organizzazione di mezzi ed uomini, al fine di creare ricchezza”. Ma l’applicazione del dato normativo – secondo il ricorrente – non è corretta. In base all’art. 4 cit., deve trattarsi non solo di datori di lavoro “non imprenditori”, ma che “svolgono senza fini di lucro attività” tassativamente elencate dal legislatore (di “natura politica, sindacale, culturale, di istruzione ovvero di religione o di culto”). L’aver ribadito la necessarietà dell’assenza della “finalità di lucro” ha un significato inequivocabilmente rafforzativo, nel senso che non è di per sè bastevole lo svolgimento delle attività elencate (intrinsecamente prive del carattere di imprenditorialità, nella concezione tradizionale di produttività di ricchezza individuale) per l’ammissione al beneficio di legge.
Ed è per questo che la giurisprudenza più avveduta riconosce natura imprenditoriale all’attività (in quanto volta alla produzione di “beni e servizi” ex art. 2195 c.c.), in base al solo criterio della mera economicità di gestione, ricavabile dall’equilibrio tra costi e ricavi, senza necessità del fine di lucro.
Ed è tale indirizzo interpretativo da applicare correttamente alla fattispecie, alla luce del quale l’argomentare della Corte del merito è assolutamente inadeguato. A non voler trascurare che già dalle finalità statutarie – dettagliatamente elencate in sentenza – traspare sì la tutela di categoria, epperò mirante ad assicurare agli aderenti vantaggi economici e commerciali, va in ogni caso ribadito – secondo il ricorrente – che l’indicazione statutaria non può essere sufficiente, proprio in quanto si impone una indagine in concreto sulla sussistenza di un’organizzazione di mezzi e persone, che, prescindendo dal carattere “ideologico”, fornisca – in via mediata o immediata – delle utilità, operando con criteri di economicità. In questa logica assume pregnanza la situazione patrimoniale dell’Associazione desumibile dai dati di bilancio, che il ricorrente aveva prodotto in sede di merito, dai quali risulta un attivo sostanzioso. La sussistenza di una florida situazione patrimoniale e di gestione non è stata mai del resto contestata dalla controparte, la quale riscuote le quote associative annuali, in modo da partecipare in senso sostanziale agli affari degli associati percependo una percentuale fissa (del 2,50%) su quanto da loro venduto o conferito agli stabilimenti di trasformazione, conseguendo perciò utilità patrimoniali. Il suddetto fondamentale elemento è stato, invece, del tutto trascurato dalla Corte del merito, che si è limitata, nell’applicare l’art. 4 cit. alla fattispecie de qua, ad adottare apoditticamente la nozione legale di imprenditore ex art. 2082 c.c. (professionalità, organizzazione, natura economica dell’attività consistente nella produzione di beni e servizi), pervenendo alla conclusione erronea, nella corretta interpretazione ed applicazione del dato normativo di cui alla disciplinata di settore, che “non può riconoscersi natura imprenditoriale all’Associazione appellante” “verificata, in definitiva, la mancanza di una struttura idonea all’organizzazione di mezzi e di uomini, al fine di creare ricchezza”. È, al contrario, rinvenibile – secondo il ricorrente – nel caso dell’A.N.B. la sussistenza di una “organizzazione produttiva di beni o servizi, gestita con continuità” che sia tendenzialmente “idonea a perseguire il pareggio di bilancio” e tale da informarsi ad un canone di “obiettiva economicità” ed a garantire la copertura dei costi, secondo il precitato indirizzo interpretativo pratico e teorico.
Sicché, in dipendenza dell’inapplicabilità dell’art. 4 l. 108-90, andava riconosciuta ad ogni effetto l’operatività dell’art. 18 St. lav., per come disposto in primo grado.
Con il ricorso incidentale, denunziando violazione e falsa applicazione dell’art. 360 c.p.c., in relazione all’art. 2119 c.c., e violazione dell’art. 360 n. 5 c.p.c., per omessa ed insufficiente motivazione su punti decisivi della controversia, l’Associazione resistente deduce che nella sentenza impugnata non è stato posto in dubbio che i fatti, che hanno dato luogo al licenziamento del Di Biasio, si siano svolti nel senso che, circa un’ora prima del termine ufficiale per la chiusura delle operazioni di voto, il seggio è stato abbandonato da tutti i componenti dello stesso, che hanno addirittura redatto un verbale di elezione (sottoscritto dal Presidente e dal Segretario Di Biasio), che è stato possibile fotocopiare da parte di persona estranea al seggio, la quale ha rinvenuto il detto verbale su di un tavolo nel seggio elettorale, con la possibilità (che si è in concreto verificata) per chiunque di accedervi e prendere visione di tutti gli atti e documenti (ancora in concreto verificatasi) ed anche di poter alterare e manipolare le schede elettorali.
La Corte del merito non ha tuttavia ritenuto che nel comportamento del Di Biasio potessero configurarsi gli estremi per un licenziamento per giuda causa, considerato che la mancanza addebitatagli non era stata compiuta nell’esercizio delle sue mansioni e che, nella valutazione degli elementi che devono concorrere perché possa configurarsi una grave negazione degli elementi essenziali del rapporto di lavoro, deve tenersi conto della posizione delle parti del grado di affidamento delle mansioni del dipendente, della circostanza del verificarsi del fatto che ha dato luogo al provvedimento.
La Corte romana ha tuttavia affermato tali principi, senza offrire alcuna motivazione o comunque motivando in modo approssimativo, in ordine alle ragioni che l’hanno portata a detto convincimento, laddove invece il fatto addebitato al Di Biasio, nella sua qualità di segretario del seggio elettorale per l’elezione dei Consiglieri di Bacino Bieticolo, costituiva un momento fondamentale ed imprescindibile nella vita dell’Associazione di carattere politico – sindacale, circostanza completamente trascurata dai giudici del merito. Questi, sempre senza considerare detta circostanza, nonché le modalità specifiche del fatto e le sue conseguenze, non hanno, anche in questo caso senza alcuna motivazione, precisato in che cosa consistessero le circostanze che, a loro avviso, portavano ad escludere nel caso concreto il carattere di grave negazione degli elementi essenziali del rapporto di lavoro, giustificante il licenziamento, essendo solo sinteticamente indicati, ma non meglio precisati e motivati – quanto alla loro incidenza sul comportamento del Di Biasio – la “posizione delle parti”, il “grado di affidamento richiesto dalle specifiche mansioni del dipendente”, le “portate soggettive del fatto stesso”, i “motivi e l’intensità dell’elemento intenzionale e di quello colposo”. Era pertanto pienamente legittimo il licenziamento comminato al Di Biasio.
Sempre in via di ricorso incidentale, nella denegata ipotesi di accoglimento del ricorso principale, veniva rinnovata la richiesta – da parte del ricorrente incidentale – che da quanto liquidato nella sentenza del Tribunale di Latina a favore del Di Biasio, a titolo di retribuzioni dalla data del recesso a quella della effettiva reintegra, venisse dedotto quanto da egli percepito a titolo di compensi per attività di lavoro subordinato od autonomo e-o comunque per attività professionali o similari, al cui proposito si era chiesto in via istruttoria che gli venisse ordinato di esibire copia delle dichiarazioni dei redditi presentate con riferimento agli anni 1998, 1999 e 2000, avendo l’ANB motivo di ritenere che il Di Biasio, dopo la risoluzione del rapporto con essa, avesse concluso un rapporto di collaborazione con altra organizzazione concorrente, l’ABI.
Osserva questa Corte che devono essere previamente riuniti i ricorsi, trattandosi di impugnazioni avverso la medesima sentenza (art. 335 c.p.c.).
È logicamente antecedente l’esame del ricorso incidentale, con il quale l’Associazione assume la legittimità del licenziamento del lavoratore, negata dal giudice di primo grado, nonché dal giudice di appello.
È noto che, per stabilire in concreto l’esistenza di una giusta causa di licenziamento, che deve rivestire il carattere di grave negazione degli elementi essenziali del rapporto di lavoro ed in particolare di quello fiduciario, occorre valutare, da un lato, la gravità dei fatti addebitati al lavoratore, in relazione alla portata oggettiva e soggettiva dei medesimi, alle circostanze nelle quali sono stati commessi ed all’intensità dell’elemento intenzionale, dall’altro, la proporzionalità tra tali fatti e la sanzione inflitta, stabilendo se la lesione dell’elemento fiduciario, su cui si basa la collaborazione del prestatore di lavoro, sia in concreto tale da giustificare o meno la massima sanzione disciplinare; la valutazione della gravità dell’infrazione e della sua idoneità ad integrare giusta causa di licenziamento si risolve in un apprezzamento di fatto riservato al giudice di merito ed incensurabile in sede di legittimità, se congruamente motivato (cfr. tra le altre Cass. 4 giugno 2002 n. 8107).
La Corte del merito ha motivatamente condiviso il convincimento del giudice di primo grado, relativo all’illegittimità del licenziamento intimato, tenuto conto che “la mancanza addebitata non è strettamente inerente al rapporto di lavoro e che, soprattutto, non è risultata dipendere da dolo o colpa grave”.
La Corte medesima ha, invero, rilevato che il Di Biasio svolgeva mansioni impiegative alle dipendenze dell’Associazione, mentre il fatto addebitato si è verificato al di fuori dell’ambito di dette specifiche mansioni, allorché il Di Biasio svolgeva funzioni di segretario del seggio per l’elezione dei Consiglieri del Bacino del centro (organo dell’Associazione), insieme agli altri componenti il seggio, con i quali, nel corso delle operazioni di voto, si era allontanato dal locale adibito alle votazioni, lasciandolo incustodito e dopo aver redatto un verbale inerente le operazioni di scrutinio dei voti nonostante la chiusura delle votazioni fosse prevista per le ore 18. Nonostante la diversità di tale c.d. “verbale di prova” (non sottoscritto da tutti i membri) da quello ufficiale (sottoscritto da tutti i componenti del seggio) – dal quale risultava un numero di voti e preferenze superiore a quello indicato nel primo (numero in base al quale si erano evidentemente effettuate le operazioni di scrutinio) -, non si era verificata comunque alcuna invalidità della elezione, di tal che doveva escludersi che il comportamento del Di Biasio fosse indicativo di leggerezza e trascuratezza, da far venir meno irrimediabilmente il rapporto di fiducia posto a base del rapporto di lavoro. Dunque, secondo i giudici del merito, la mancanza non era risultata dipendere da dolo o colpa grave del Di Biasio, come ritenuto dal primo giudice, che giustamente aveva valutato l’elemento soggettivo del comportamento contestato, atteso che detta valutazione incide decisivamente sulla gravità stessa dell’addebito, che andava esclusa.
Andava pertanto esclusa, secondo la Corte del merito, la giusta causa di licenziamento, non rivestendo il comportamento del Di Biasio il carattere di grave negazione degli elementi essenziali del rapporto di lavoro, ed in particolare dell’elemento della fiducia – che deve effettivamente sussistere tra le parti -, tenuto conto non del fatto astrattamente considerato, bensì degli aspetti concreti afferenti alla natura e qualità del singolo rapporto, della posizione delle parti del grado di affidamento richiesto dalle specifiche mansioni del dipendente, nonché della portata soggettiva del fatto stesso (ossia delle circostanze del suo verificarsi, dei motivi e dell’intensità dell’elemento intenzionale o di quello colposo).
Per la congrua motivazione del giudice del merito, in ordine all’apprezzamento dei fatti predetti, la medesima è pertanto incensurabile in sede di legittimità.
Ritenuto, pertanto, illegittimo il licenziamento, come deciso dai giudici del merito, va peraltro ritenuto infondato il ricorso principale, con il quale si deduce che erroneamente la Corte romana ha ritenuto applicabile l’art. 4 della legge 11.5.1990 n. 108 – ed ha pertanto ritenuto inapplicabile, contrariamente a quanto ritenuto dal giudice di primo grado, l’art. 18 dello Statuto dei lavoratori -.
L’art. 4 cit. invero, introducendo un regime speciale in deroga al criterio generale, prevede che restano esclusi dall’ambito, di applicazione della tutela reale contro i licenziamenti illegittimi i datori di lavoro che, non essendo imprenditori svolgano senza fini di lucro un’attività in senso lato di tendenza per tale intendendo quelle di “natura politica, sindacale, culturale, di istruzione, ovvero di religione o di culto”.
Quanto al requisito relativo all’attività di “tendenza”, la Corte del merito ha rilevato che la predetta Associazione è un ente con personalità giuridica privata, la quale, senza finalità di lucro, a norma dello Statuto, ha gli scopi dettagliatamente indicati in sentenza (dalla lettera a alla lettera p): ha per scopo la valorizzazione tecnico – economica della produzione bieticola dei soci e la tutela degli interessi dei soci coltivatori di bietole, fornisce assistenza agli stessi per il migliore sviluppo della produzione bieticola italiana ed il più conveniente collocamento del prodotto sul mercato e, in particolare, stipula accordi e contratti di qualsiasi natura, necessari o comunque utili al raggiungimento degli scopi statutari, rappresenta i produttori associati nei confronti della Pubblica Amministrazione, nella CEE ed altre organizzazioni od enti nazionali o internazionali che abbiano scopi affini a quelli dell’Associazione od utili al raggiungimento di questi e rappresenta altresì gli stessi nei confronti dell’industria di trasformazione.
Al fine peraltro di configurare un’organizzazione di tendenza, che, ai sensi dell’art. 4 della legge n. 108 del 1990, è esclusa dall’ambito di operatività della tutela reale prevista – in caso di licenziamenti illegittimi – dall’art. 18 della legge n. 300 del 1970 (come modificato dall’art. 1 della legge n. 108 del 1990), è necessario che si tratti di datore di lavoro “non imprenditore”, privo dei requisiti previsti dall’art 2082 c.c. (e cioè professionalità, organizzazione, natura economica dell’attività).
In particolare, l’applicazione della disciplina prevista dalla predetta legge n. 108 del 1990 per le organizzazioni di tendenza presuppone l’accertamento in concreto da parte del giudice di merito dell’assenza nella singola organizzazione di una struttura imprenditoriale e della presenza dei requisiti tipici dell’organizzazione di tendenza, come definita dalla stessa legge all’art. 4 (cfr. Cass. 22 novembre 1999 n. 12926), per tale intendendo, come si è detto, quelle di “natura, politica, sindacale, culturale, di istruzione, ovvero di religione o di culto”.
È evidente, come affermato dalla Corte del merito, che i descritti scopi dell’Associazione si sostanziano in quello della tutela degli interessi collettivi professionali della categoria dei coltivatori di bietole, onde l’attività dell’Associazione può definirsi di natura “politica” (nel senso etimologico del termine) e sindacale, attività espressamente prevista dall’art. 4 cit. Nè, ad escludere tale natura dell’Associazione, vale il rilievo del ricorrente che dalle formalità statutarie traspare sì la tutela della categoria, epperò mirante ad assicurare agli aderenti vantaggi economici e commerciali, essendo tali vantaggi – peraltro solo genericamente enunciati – ben compatibili con la predetta natura politica e sindacale dell’Associazione.
Per quanto concerne poi l’esclusione del carattere imprenditoriale dell’Associazione, premesso che è noto che è imprenditore chi eserciti professionalmente una attività economica organizzata al fine della produzione o dello scambio di beni e servizi (art. 2082 c.c.), deve consentirsi con il giudice di appello che l’attività espletata dall’Associazione è priva dei requisiti richiesti dall’art. 2082 cit., quali la professionalità, l’organizzazione, la natura economica dell’attività consistente nella produzione di beni o servizi, cioè nella “erogazione di ricchezza”.
Contrariamente, invero, a quanto affermato dal primo giudice, che cioè l’Associazione provvedeva alla vendita dei prodotti conferiti, esercitando così “una attività intermediaria nella circolazione dei beni”, nonché ad incassare le quote associative annuali – ritenendo pertanto applicabile l’art. 18 dello Statuto dei lavoratori -, i giudici di appello hanno rilevato che l’Associazione non svolgeva attività imprenditoriale, non gestendo, con una propria organizzazione di impresa, alcuna attività economica – atteso che dalla documentazione prodotta (accordo interprofessionale bieticolo saccarifero) emergeva che i soci provvedevano a conferire i prodotti direttamente agli zuccherifici – e che l’incasso delle quote associative annuali non configurava scopo di lucro per l’Associazione, che non aveva carattere imprenditoriale, e percepiva le quote – come implicitamente indicato in sentenza – per provvedere all’attività in favore della categoria rappresentata, secondo gli scopi statutari, dovendo anche le organizzazioni di tendenza provvedere alla retribuzione dei dipendenti, al pagamento dei contributi, degli affitti delle sedi, etc., come dedotto dalla controricorrente.
Non sussistendo la natura imprenditoriale dell’Associazione, mancando lo scopo di lucro, e rientrando l’attività, a norma di statuto ed in concreto, in quella di “tendenza”, di cui all’art. 4 della legge n. 108 del 1990, l’Associazione restava esclusa dall’ambito di applicazione della tutela reale contro i licenziamenti illegittimi.
Stante il rigetto del ricorso principale, resta assorbito il ricorso incidentale condizionato, proposto in via subordinata dall’Associazione nel caso dell’accoglimento del ricorso del Di Biasio.
In definitiva, devono essere rigettati sia il ricorso principale che quello incidentale, ritenuto assorbito il ricorso incidentale condizionato dell’Associazione.
Sussistono giusti motivi per dichiarare interamente compensate tra le parti le spese del presente giudizio di legittimità.

P.Q.M.

La Corte riunisce i ricorsi e rigetta il ricorso principale e quello incidentale, dichiarando assorbito il ricorso incidentale condizionato dell’Associazione. Dichiara interamente compensate tra le parti le spese del presente giudizio di cassazione.