Osservatorio delle libertà ed istituzioni religiose

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Osservatorio delle Libertà ed Istituzioni Religiose

Documenti • 14 Novembre 2008

Sentenza 13 novembre 2008, n.27145

Corte di Cassazione. Sezioni Unite Civili. Sentenza n. 13 novembre 2008, n. 27145: “Inammissibilità del ricorso contro il provvedimento autorizzazione all’interruzione del trattamento di sostegno vitale artificiale di paziente in stato vegetativo permanente”

In OLIR:
Corte costituzionale, Ordinanza 8 ottobre 2008, n. 334
Corte di Appello di Milano. Prima Sezione Civile. Decreto 9 luglio 2008
Corte di Cassazione. Sezione I civile. Sentenza 4 – 16 ottobre 2007, n. 21748
Corte di cassazione. Sezione I civile. Ordinanza 20 aprile 2005, n. 8291

(Presidente V. Carbone, Relatore M. R. Morelli)

(omissis)

Svolgimento del processo

1. Viene impugnato dal Procuratore generale presso la Corte di appello di Milano il decreto in data 9 luglio 2008, con il quale quei giudici – in dichiarata applicazione, in sede di rinvio, del principio di diritto enunciato nella sentenza 16 ottobre 2007 n. 21748 di questa Corte – hanno accolto l’istanza congiunta del tutore (il padre) e del curatore speciale di E. in stato vegetativo permanente sin dal gennaio 1992 a seguito di grave trauma cranico encefalico riportato in un incidente stradale: istanza volta ad ottenere l’«autorizzazione a disporre l’interruzione del trattamento di sostegno vitale artificiale (di quest’ultima) realizzato mediante alimentazione con sondino nasogastrico».
Resistono, con separati controricorsi, il curatore speciale ed il padre e tutore della E. La difesa del secondo ha anche depositato memoria ai sensi dell’art. 378 c.p.c..

2. Il rinvio alla Corte milanese è stato, a suo tempo, disposto in conseguenza dell’accoglimento dei ricorsi proposti dai rappresentanti legali di E. odierni resistenti, avverso il precedente decreto in data 16 dicembre 2006, della stessa Corte territoriale, con cui l’identica loro congiunta istanza di interruzione del trattamento di alimentazione artificiale della interessata era stata invece respinta.
Nel cassare quel decreto, la ricordata sentenza n. 21748 del 2007:

a) ha fatto, in premessa, riferimento al principio del “consenso informato”, che sta “alla base del rapporto medico paziente” e costituisce “norma di legittimazione del trattamento sanitario” (altrimenti il lecito), secondo il consolidato orientamento delle Sezioni civili e penali di questa Corte [Sez. III^ civile, nn. 10014/94; 364/97; 5444/06; sez. IV” penale 3/x/2001, ex plurimis], quale elaborato in sede interpretativa delle numerose leggi speciali, regolatrici della materia, a partire dalla legge istitutiva del Servizio sanitario nazionale (1. 23 dicembre 1978 n. 833, in particolare art. 33), e che trova consonanza nelle fonti sovranazionali [Convenzione di Oviedo sui diritti dell’uomo e sulla biomedicina, Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea adottata a Nizza il 7 dicembre 2000J e nel codice di deontologia medica del 2006 (art. 35),oltreché «sicuro fondamento costituzionale>>. In particolare: nell’art. 2, che tutela e promuove i diritti fondamentali della persona umana, della sua identità e dignità; nell’art. 13, che proclama l’inviolabilità della libertà personale, nella quale “è postulata la sfera di esplicazione del potere della persona di disporre del proprio corpo” (Corte costituzionale, sentenza n. 471 del 1990); e nell’art. 32, che tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo, oltre che come interesse della collettività, e per il quale i trattamenti sanitari sono obbligatori nei soli casi espressamente previsti dalla legge e sempre che il provvedimento sia volto ad impedire che la salute del singolo possa arrecare danno a quella degli altri (così Corte Costituzionale, sentenza nn. 258/94 e 118/96);

b) ha posto poi in rilievo l’innegabile correlazione del “consenso informato” con la “facoltà del paziente non solo di scegliere tra le diverse possibilità di trattamento medico, ma anche di eventualmente rifiutare la terapia e di decidere consapevolmente di interromperla, in tutte le fasi della vita, anche in quella terminale”. In coerenza al principio personalistico che anima la nostra Costituzione, “la quale vede nella persona umana un valore etico in sé, vieta ogni strumentalizzazione della medesima per alcun fine eteronomo ed assorbente, concepisce l’intervento solidaristico e sociale in funzione della persona e del suo sviluppo e non viceversa, e guarda al limite del rispetto della persona umana in riferimento al singolo individuo, in qualsiasi momento della sua vita e nell’integralità della sua persona, in considerazione del fascio di convinzioni etiche, religiose, culturali e filosofiche che orientano le sue determinazioni volitive”. Stante che “il rifiuto delle terapie medico chirurgiche, anche quando conduce alla morte, non può essere scambiato per un’ipotesi di eutanasia, ossia per un comportamento che intende abbreviare la vita, causando positivamente la morte, esprimendo piuttosto tale rifiuto un atteggiamento di scelta, da parte del malato, che la malattia segua il suo corso naturale”. Per cui, correlativamente, “in presenza di una determinazione autentica e genuina” dell’interessato nel senso del rifiuto della cura, il medico “non può che fermarsi, ancorché l’omissione dell’intervento terapeutico possa cagionare il pericolo di un aggravamento dello stato di salute dell’infermo e, persino, la sua morte” (come testualmente, già in Sezione I” penale 11 luglio 2002);

c) ha affrontato, quindi, il problema che si presenta nel caso in cui il soggetto (adulto) non sia, come nella specie, in grado di manifestare la propria volontà a causa del suo stato di totale incapacità e non abbia, prima di cadere in tale condizione, allorché era nel pieno possesso delle sue facoltà mentali, specificamente indicato, attraverso dichiarazioni di volontà anticipate, quali terapie egli avrebbe desiderato ricevere e quali invece avrebbe inteso rifiutare nel caso in cui fosse venuto a trovarsi in uno stato di in coscienza.
Ed in coerenza, anche per tal profilo, all’esigenza di tutela dei valori di libertà e dignità della persona realizzabili, in tal caso, in combinato contesto con la normativa codicistica posta a presidio dell’incapace (artt. 357 ss., 424 c.c.) e con equo bilanciamento con il valore della vita – è pervenuta (la citata sentenza n. 21748) alla conclusione che “all’individuo che, prima di cadere nello stato di totale ed assoluta incoscienza, tipica dello stato vegetativo permanente, abbia manifestato, in forma espressa o anche attraverso i propri convincimenti, il proprio stile di vita e i valori di riferimento, l’inaccettabilità per sé dell’idea di un corpo destinato, grazie a terapie mediche, a sopravvivere alla mente, l’ordinamento dà la possibilità di far sentire la propria voce in merito alla disattivazione di quel trattamento attraverso il rappresentante legale”.
Con la necessaria precisazione che “la funzionalizzazione del potere di rappresentanza, dovendo esso essere orientato alla tutela del diritto alla vita del rappresentato, consenta di giungere ad una interruzione delle cure soltanto in casi estremi”. Nel senso che, nel consentire al trattamento sulla persona dell’incapace, la rappresentanza del tutore è sottoposta a un duplice ordine di vincoli, dovendo egli “innanzitutto, agire nell’esclusivo interesse dell’incapace; e, nella ricerca del best interest, dovendo decidere non al posto dell’incapace né per l’incapace, ma con l’incapace, quindi, ricostruendo la presunta volontà del paziente incosciente, già adulto prima di cadere in tale stato, tenendo conto dei desideri da lui espressi prima della perdita della coscienza”.
Per cui, al Giudice [cui non può essere richiesto di ordinare l’interruzione di un trattamento sanitario, non costituente forma di accanimento terapeutico, come quello che si risolve nell’alimentazione artificiale tramite sondino nasogastrico] spetta propriamente ed unicamente il “controllo della legittimità della scelta (interruttiva) operata (dal tutore) nell’interesse dell’incapace”;

d) ha così conclusivamente enunciato – in risposta ai quesiti formulati dai ricorrenti – il principio di diritto per cui “Ove il malato giaccia da moltissimi anni (nella specie, oltre quindici) in stato vegetativo permanente, con conseguente radicale incapacità di rapportarsi al mondo esterno, e sia tenuto artificialmente in vita mediante un sondino nasogastrico che provvede alla sua nutrizione ed idratazione, su richiesta del tutore che lo rappresenta, e nel contraddittorio con il curatore speciale, il giudice può autorizzare la disattivazione di tale presidio sanitario (fatta salva l’applicazione delle misure suggerite dalla scienza e dalla pratica medica nell’interesse del paziente), unicamente in presenza dei seguenti presupposti: (1) quando la condizione di stato vegetativo sia, in base ad un rigoroso apprezzamento clinico, irreversibile e non vi sia alcun fondamento medico, secondo gli standards scientifici riconosciuti a livello internazionale, che lasci supporre la benchè minima possibilità di un qualche, sia pure flebile, recupero della coscienza e di ritorno ad una percezione del mondo esterno; e (2) sempre che tale istanza sia realmente espressiva, in base ad elementi di prova chiari, univoci e convincenti, della voce del paziente medesimo, tratta dalle sue precedenti dichiarazioni ovvero dalla sua personalità, dal suo stile di vita e dai suoi convincimenti, corrispondendo al suo modo di concepire, prima di cadere in stato di incoscienza, l’idea stessa di dignità della persona. Ed, ove l’uno o l’altro presupposto non sussista, il giudice deve negare l’autorizzazione, dovendo allora essere data incondizionata prevalenza al diritto alla vita, indipendentemente dal grado di salute, di autonomia e di capacità di intendere e di volere del soggetto interessato e dalla percezione, che altri possano avere, della qualità della vita stessa”.

2 bis. Con riferimento quindi alla particolare e dolorosa vicenda in esame, quella sentenza – sulla premessa in fatto che “dagli atti risulta pacificamente che nella indicata situazione [di stato vegetativo permanente] si trova, sin dal 1992, E. [che, in ragione di tale condizione, “pur essendo in grado di respirare spontaneamente, e pur conservando le funzioni cardiovascolari, gastrointestinali e renali, è radicalmente incapace di vivere esperienze cognitive ed emotive, e quindi di avere alcun contatto con l’ambiente e sterno”, non essendovi in lei “alcun segno di attività psichica e di partecipazione all’ambiente, né alcuna capacità di risposta comportamentale volontaria agli stimoli sensoriali esterni, visivi, uditivi, tattili, dolorifici”] – ha cassato, appunto, il decreto in quel la sede impugnato, ritenendo fondata la censura dei ricorrenti quanto all’avere, in tal contesto, il Collegio milanese “omesso di ricostruire la presunta volontà di E. e di dare rilievo ai desideri da lei precedentemente espressi, alla sua personalità, al suo stile di vita e ai suoi più intimi convincimenti”. Per cui ha stabilito che “tale accertamento dovrà essere effettuato dal giudice di rinvio”.

3. La Corte milanese, in diversa composizione, quale designata giudice di rinvio, in esito all’indagine così demandatale, ha, sul punto, espresso quindi il convincimento che le prove assunte, “attendibili, univoche, efficaci e conferenti”, autorizzassero la conclusione della “correttezza della determinazione volitiva del legale rappresentante dell’incapace nella sua conformità alla presumibile scelta che, nelle condizioni date, avrebbe fatto anche e proprio la rappresentata, di cui il tutore si fa e deve farsi porta-voce”.
E ciò in considerazione sia della straordinaria durata dello stato vegetativo permanente (e quindi irreversibile) di E., sia della, altrettanto straordinaria, tensione del suo carattere verso la libertà, nonché della inconciliabilità della sua concezione sulla dignità della vita con la perdita totale ed irrecuperabile delle proprie facoltà motorie e psichiche e con la sopravvivenza solo biologica del suo corpo in uno stato di assoluta soggezione all’altrui volere, tutti fattori che appaiono nella specie prevalenti su una necessità di tutela della vita biologica in sé e per sé considerata.

3 bis. Nel decreto del luglio 2008, avverso cui è ora ricorso, quei giudici – pur ritenendo estraneo al giudizio di rinvio l’accertamento della precondizione di irreversibilità dello stato vegetativo della E. (anche perché già effettuato nella precedente fase di appello e non impugnato, e comunque condiviso dallo stesso P.M. intervenuto in causa nel suo parere conclusivo) – hanno, ciò nonostante, reputato “doverosa, data la gravità, importanza e delicatezza della decisione da assumere”, una autonoma verifica, in quella sede di rinvio, delle condizioni cliniche di E.
Per cui essi hanno analiticamente e approfondita mente nuovamente vagliato tutta la documentazione al riguardo versata in atti [dagli accertamenti di dia gnostica strumentale e clinica effettuati in occasione del primo ricovero, a seguito dell’incidente stradale, nel 1992, agli ulteriori accertamenti anche di carattere prognostico, effettuati, nel 1996, nel corso di giudizio di interdizione di E. e sfocianti nella certificazione di persistenza della sua condizione vegetativa]; hanno valutato in particolare le risultanze del la relazione medica redatta dal primario di neurologia dell’Ospedale Niguarda di Milano, esibita dal tutore nella pregressa fase processuale, leggendole in correlazione anche alle indicazioni contenute nella relazione, “di sicuro valore scientifico”, redatta da una task force di esperti del Ministero della Sanità (che, a sua volta, prendeva atto degli studi che in ambito internazionale erano pervenuti a definire gli standards per la definizione di S.V.P.).
Ed – anche in considerazione del fatto che, alla stregua di quei parametri, il tempo di attesa per ritenere irreversibile uno stato vegetativo era orientativamente indicato in mesi tre per un bambino e in un anno per un adulto, mentre la condizione negativa della interessata permaneva invariata da ben sedici anni – ha ritenuto appunto quella Corte di merito sussistenti, nella specie, entrambe le condizioni legittimanti l’istanza del tutore.

4. Nell’impugnare il riferito ultimo decreto, la Procura di Milano non ha, per altro, più investito la condizione relativa alla ricostruzione della volontà presunta di E. (di cui non ha quindi conte stato la conformità all’istanza del tutore, condivisa dal curatore speciale, nel senso della contrarietà ad una sua sopravvivenza meramente biologica), ma ha unicamente addebitato ai giudici del rinvio di avere errato nel ritenere preclusa una reiterazione della indagine sulla effettiva irreversibilità dello stato vegetativo della interessata, e di non avere adeguatamente motivato la conclusione – cui, in esito alla valutazione poi comunque rinnovata, essi erano pervenuti – in ordine alla conferma di quella condizione di irreversibilità non suffragata da una, pur chiesta, nuova C.T.U..

5. Nei rispettivi controricorsi, tutore e curatore speciale di E. hanno, in ordine logico, eccepito:
a) l’inammissibilità dell’avversa impugnazione, per difetto di legittimazione del P.M. a proporla;
b) l’inammissibilità, comunque, di entrambi i suoi motivi. Quanto al primo, perché la presupposta formazione di un giudicato in ordine alla condizione clinica di SVP della E. era priva di rilievo nell’economia della decisione, avendo la Corte territoriale comunque riesaminato anche la sussistenza di quella condizione; e, quanto al secondo, perché surrettiziamente rivolto ad eludere il principio di diritto enunciato dalla sentenza di rinvio;
c) l’infondatezza, in subordine, dei motivi stessi, “perché formulati non già a partire da fatti o perlomeno indizi concreti attinenti la condizione effettiva di E. – sulla quale nessuno ha potuto purtroppo segnalare novità – bensì a partire da ipotesi teoriche astratte, come è quella per cui la irreversibilità in genere non sarebbe mai accertabile”.

6. Il P.G. presso questa Corte ha concluso come in epigrafe.

Motivi della decisione

7. L’odierna impugnazione è insuscettibile però di esame, e non può quindi sottrarsi ad una declaratoria di inammissibilità, perché – come esattamente dedotto da entrambi i resistenti, con eccezione pregiudiziale la cui fondatezza è stata, in via principale, condivisa anche dal P.G. presso questa Corte – il P.M. presso la Corte di merito effettivamente è carente della legittimazione a proporla.

8. Diversamente, infatti, che nel processo penale – in cui al P.M. è attribuita la titolarità della correlativa azione nell’interesse dello Stato – nel processo civile, che è processo privato di parti, la presenza del P.M. ha carattere eccezionale, perché derogatoria del potere dispositivo delle parti stesse, risultando normativamente prevista solo in ipotesi peculiari di controversie coinvolgenti anche un “interesse pubblico”.
Ed in correlazione appunto al rilievo che, in determinate tipologie di giudizi, è attribuito al “pubblico interesse”, le funzioni del P.M., in sede civile, dell’intervento volontario (art. 70, comma terzo, c.p.c.), dell’intervento necessario (nelle cause davanti alla Corte di cassazione e nelle cause, tra l’altro, relative allo “stato e capacità delle persone”, di cui, rispettivamente, ai commi secondo e primo, n. 3, del citato art. 70) ovvero anche del potere di azione, ove questo, ai sensi del precedente art. 69 del codice di procedura, sia espressamente previsto dalla legge [come nei casi, ad esempio, delle azioni per la nomina di un curatore speciale all’incapace, per la sostituzione dell’amministratore del patrimonio familiare, per l’apposizione di sigilli relativamente a beni ereditari, di cui agli artt. 79, 735, 754 c.p.c., ovvero alle azioni per l’annullamento di deliberazioni sociali il legittime, per la nomina di un curatore allo scomparso, per la dichiarazione di assenza e di morte presunta, per la dichiarazione di interdizione, di cui, rispettivamente, agli artt. 23, 48, 50, 58, 85 cod. civ., ecc.].
Il potere di impugnazione del P.M. è poi specifica mente disciplinato (come ancor più penetrante forma di suo coinvolgimento nel processo civile) dall’art. 72 c.p.c. che, testualmente, lo limita alle “sentenze relative a cause matrimoniali” (escluse quelle di separazione) ed alle “sentenze che dichiarino l’efficacia o l’inefficacia di sentenze straniere relative a cause matrimoniali”.
Per esegesi giurisprudenziale la facoltà di impugnazione è stata per altro riconosciuta al P.M. anche in relazione alle cause che (ex art. 69 c.p.c.) egli avrebbe potuto proporre, sul rilievo che il potere di azione trovi il suo naturale complemento in quello, appunto, di impugnazione della sentenza che abbia deciso in senso difforme alla prospettazione dell’attore (sentenze nn. 4273/91, 2437/96, 10779/97 e successive con formi).
Fermo, però, è nella stessa giurisprudenza il principio per cui, fuori di tali ipotesi, – e quindi anche nelle cause in cui il P.M. pur deve intervenire a pena di nullità – egli non è, comunque, legittimato alla impugnazione.
Principio, quest’ultimo, tra l’altro ribadito anche con particolare riferimento alle “cause sullo stato e sulla capacità delle persone” (sentenze nn. 690/70; 4201/89; 4671/96; 2515/94; 10886/04).

9. Nella specie, il P.G. di Milano si è qualificato come “interventore necessario”, con implicito riferimento appunto alle cause sullo “stato e capacità delle persone” (di cui al comma primo, n. 3, dell’art. 70 c.p.c ) .
E la difesa di E. ha contestato tale qualificazione sul rilievo (che trova, tra l’altro, riscontro in Sez. un. n. 20113/05) che le questioni di E. “stato e capacità delle persone” sono esclusivamente quelle riguardanti la “posizione soggettiva dell’individuo come cittadino o nell’ambito della comunità civile o familiare”, e non, invece, le questioni attinenti ad ulteriori diritti aventi a presupposto la “posizione soggettiva” stessa.
Ma, per tal profilo, anche la possibilità – che il Collegio pur si è prospettato – di una interpretazione estensiva del concetto di causa sullo status, tale da farvi rientrare il presente giudizio (che non riguarda ovviamente la interdizione di E. di cui a pregressa risalente procedura), non sarebbe concludente, una volta che anche in siffatta categoria di causa alla previsione dell’intervento “necessario” del P.M. non si accompagna, come detto, quella di un suo potere di impugnazione, identificandosi le sue funzioni in quelle che svolge il Procuratore generale presso il giudice ad quem eventualmente (e ritualmente) adito (in questo caso il P.G. presso la Corte di cassazione) (cfr. Sezione I^ n. 2437/96; Sez. un. 6784/00).

10. Ad ampliare l’area del potere impugnatorio del P.M. in sede civile (sempre al fine di includervi la fattispecie in esame) neppure può farsi poi utile richiamo alla c.d. impugnazione “nell’interesse della legge” di cui al novellato art. 363 c.p.c.. Atteso, in fatti, che il correlativo potere:
– spetta solo al Procuratore generale presso la Corte di cassazione;
– è esercitabile unicamente al fine della enunciazione del “principio di diritto cui il giudice di merito avrebbe dovuto attenersi” [enunciazione che, nel caso che riguarda, è però già intervenuta con la sentenza di rinvio n. 21748 cit.];
– e non può comunque avere effetto alcuno sul provvedimento del giudice di merito, che resterebbe quindi fermo anche nel caso di accoglimento di una siffatta impugnazione (ex comma quarto art. 363 cit.).

11. La dimensione così circoscritta del potere di impugnazione del P.M. presso il giudice del merito neppure può, infine, dar luogo a dubbio alcuno di legittimità costituzionale, per il profilo della mancata sua estensione alla ipotesi che qui ne riguarda, in relazione ai precetti della eguaglianza e della ragionevolezza, di cui all’art. 3, commi primo e secondo, della Costituzione, stante l’evidente ragionevolezza, invece, del non identico trattamento di fattispecie in cui viene in rilievo un diritto personalissimo del soggetto di spessore costituzionale (come, nella specie, il diritto di autodeterminazione terapeutica in tutte le fasi del la vita, anche in quella terminale) – all’esercizio del quale è coerente che il P.M. non possa contrapporsi fino al punto della impugnazione di decisione di accoglimento della domanda di tutela del titolare – e fatti specie viceversa connotate da un prevalente interesse pubblico (come quelle cui fa rinvio l’art. 69 c.p.c.), solo in ragione del quale si giustifica l’attribuzione di più incisivi poteri, anche impugnatori, al Pubblico ministero.

12. Il difetto di legittimazione del Procuratore generale presso la Corte di Milano all’impugnativa per cassazione è pertanto sotto ogni aspetto insuperabile, per cui appunto l’odierno suo ricorso va dichiarato inammissibile.

13. Nulla per le spese, stante la qualità di parte in senso solo formale del Procuratore generale.

14. Ricorrendo i presupposti di cui all’art. 52, comma 2, del d.lgs. 30 giugno 2003, n. 196 (Codice in materia di protezione dei dati personali), a tutela dei diritti e della dignità delle persone coinvolte deve essere disposta, in caso di riproduzione della presente sentenza in qualsiasi forma, per finalità di informazione su riviste giuridiche, supporti elettronici o mediante reti di comunicazione elettronica, l’omissione delle indicazioni delle generalità e degli altri dati identificativi degli interessati riportati nella sentenza.

P.Q.M.

La Corte, a Sezioni Unite, dichiara il ricorso inammissibile.
Dispone che, in caso di diffusione della presente sentenza in qualsiasi forma, per finalità di informazione su riviste giuridiche, supporti elettronici o mediante reti di comunicazione elettronica, sia omessa l’indicazione delle generalità e degli altri dati identificativi degli interessati riportati nella sentenza.

Roma, l’11 novembre 2008

Il Presidente
Vincenzo Carbone

L’estensore
Mario Rosario Morelli

Depositato in Cancelleria il 13 novembre 2008