Osservatorio delle libertà ed istituzioni religiose

Olir

Osservatorio delle Libertà ed Istituzioni Religiose

Documenti • 27 Aprile 2005

Sentenza 13 febbraio 1993, n.1824

Cassazione. Sezioni Unite. Sentenza 13 febbraio 1993, n. 1824.

La Corte Suprema di Cassazione
Sezioni Unite

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. Ferdinando ZUCCONI GALLI
FONSECA – Primo Presente Aggiunto
Dott. Franco BILE – Presidente di Sezione
Dott. Cesare RUPERTO – Presidente di Sezione
Dott. Francesco FAVARA – Consigliere
Dott. Marcello TADDEUCCI – Consigliere
Dott. Antonio SENSALE – rel. Consigliere
Dott. Gentile RAPONE – rel. Consigliere
Dott. Vittorio VOLPE – rel. Consigliere
Dott. Vincenzo BALDASSARRE – rel. Consigliere

ha pronunciato la seguente:

Sentenza

sul ricorso iscritto al n. 807-90 del R.G. AA.CC., proposto da:

T.F., elettivamente domiciliata in ROMA, PIAZZA STEFANO JACINI n.5, presso lo studio dell’avvocato ENRICO BERNARDINI che la rappresenta e difende, giusta delega a margine del ricorso;
-ricorrente-

contro

C.P., elettivamente domiciato in ROMA CORSO DI FRANCIA n. 249, presso lo studio dell’avvocato LUIGI PALADINO, rappresentato e difeso dall’avvocato LUIGI MARIA CONDEMI, giusta delega a margine del controricorso;
-controricorrente-

Per regolamento preventivo di giurisdizione in relazione al giudiziopendente innanzi al Tribunale di Roma instaurato con atto dicitazione del 14.12.89 – notificato il 18.12.89.Udita nella Pubblica Udienza tenutasi il giorno 17.12.92 la relazione della causa svolta dal Consigliere relatore Dr. Sensale. Udito l’avvocato Bernardini. Udito il P.M., nella persona del Dr. Mario Di Renzo, Avvocato Generale presso la Corte Suprema di Cassazione che ha concluso per la giurisdizione Italiana.

In fatto

Con citazione del 18 dicembre 1989, P.C. convenne davanti al Tribunale di Roma F.T., con la quale aveva contratto matrimonio concordatario il 18 ottobre 1984, al fine di sentirne dichiarare la nullità, ai sensi dell’art. 122 c.c., per errore essenziale sulle qualità personali del coniuge. Assumeva che la ricorrente era affetta da squilibri psichici perfettamente dissimulati nei rapporti prematrimoniali, e che, se egli ne avesse avuto consapevolezza, non avrebbe prestato il consenso.
La ricorrente ha proposto ricorso per regolamento preventivo di giurisdizione, illustrato con due memorie, cui il controricorrente ha resistito con controricorso.

In diritto

I. La ricorrente chiede che sia dichiarato il difetto di giurisdizione del giudice adito e affermata l’esclusiva competenza giurisdizionale dei tribunali ecclesiastici, sostenendo che, nonostante la diversa formulazione del n. 2 dell’art. 8 dell’Accordo di revisione del Concordato rispetto al precedente art. 34, il matrimonio concordatario rimane soggetto ad una disciplina sostanziale diversa da quella propria del matrimonio civile e che l’ordinamento statale può determinare la cessazione degli effetti civili del matrimonio religioso, ma non sindacarne gli aspetti costitutivi. A sostegno di ciò, riporta il testo del n. 2 del citato art. 8, in base al quale “le sentenze di nullità di matrimonio pronunciate dai tribunali ecclesiastici… sono dichiarate efficaci nella Repubblica italiana con sentenza della corte d’appello competente per territorio, quando essa accerti”, fra l’altro, “che il giudice ecclesiastico era il giudice competente a conoscere della causa in quanto matrimonio celebrato in conformità del presente articolo”; richiama l’art. 4 del Protocollo addizionale circa la necessità di “tener conto della specificità dell’ordinamento canonico dal quale è regolato il vincolo matrimoniale”; deduce che la qualifica degli accordi del 1984 come “modificativi dei precedenti” vuol dire che essi hanno inteso solo integrare la disciplina del 1929, per tener conto della normativa italiana sul divorzio e delle numerose sentenze della Corte costituzionale in materia, e quindi non hanno fatto venir meno il principio della riserva della giurisdizione ecclesiastica.
II. 1. Il resistente non contesta l’ammissibilità del ricorso per regolamento preventivo di giurisdizione, ma è la stessa ricorrente, in memoria, a prospettare la questione (del resto rilevabile d’ufficio), sostenendo che essa va risolta affermativamente, nonostante i dubbi espressi in dottrina.
Questi nascono dalla considerazione che l’art. 41 c.p.c. ammette il regolamento nelle ipotesi contemplate dall’art. 37, e cioè in relazione al difetto di giurisdizione del giudice ordinario nei confronti della pubblica Amministrazione o dei giudici speciali (1 comma) e nei confronti dello straniero (2 comma). Poiché la questione di giurisdizione non è prospettabile con riferimento al 1 comma (in quanto il riparto della giurisdizione tra giudice ordinario e giudice speciale, o anche tra giudici speciali, postula l’appartenenza di essi allo stesso ordinamento, mentre i tribunali ecclesiastici fanno parte di un ordinamento diverso e non possono porsi sullo stesso piano dei giudici speciali), la proponibilità del regolamento dev’essere verificata con esclusivo riferimento alla ipotesi prevista dal 2 comma.
In proposito si è osservato che, in tale previsione, la Corte di cassazione non si pone come organo che regola la giurisdizione nei confronti del giudice straniero, perché, dato l’ambito nazionale del suo potere, essa non può emettere una pronunzia che stabilisca a chi spetti la giurisdizione fra due organi giurisdizionali, l’uno italiano e l’altro straniero, ma può soltanto affermare se esista la giurisdizione italiana nei confronti del cittadino straniero.
È, quindi, la qualità soggettiva della parte che costituisce il limite e la misura della giurisdizione, nel senso che la Corte di cassazione è chiamata a stabilire – soltanto – se esita la potestas judicandi del giudice italiano nei confronti di un soggetto qualificato dal fatto di non essere cittadino italiano. Se n’è tratta la conclusione, da un lato, che non rileva stabilire se i tribunali ecclesiastici siano assimilabili ai tribunali stranieri; dall’altro, che l’applicabilità dell’art. 37, 2 comma, ai fini della proponibilità del regolamento, resta esclusa quando entrambi i soggetti, parti ne giudizio di nullità del matrimonio concordatario, siano cittadini italiani.
II. 2. Questa Corte non ha mai avuto dubbi nell’ammettere il regolamento in ipotesi quale quella in esame.
Con la sentenza n. 713 del 7 agosto 1945, vigente il Concordato del 1929 (che, all’art. 34, riservava alla competenza dei tribunali e dei dicasteri ecclesiastici le cause concernenti la nullità del matrimonio e la dispensa dal matrimonio rato e non consumato), si osservò che Stato e Chiesa stanno su due piani giuridici diversi e costituiscono ordinamenti distinti, autonomi e indipendenti; e che, proprio nelle cause matrimoniali, l’ordinamento giuridico della Chiesa esclude ogni intervento degli organi dello Stato. Tale esclusione – si precisò – riguarda la giurisdizione e non la competenza, in quanto segna i limiti esterni della potestà giurisdizionale statale rispetto al potere in astratto dei tribunali ecclesiastici, che la Chiesa, come a suoi organi, ha loro conferito per esplicare la propria funzione in determinate cause per le quali i tribunali dello Stato sono carenti di quel potere come per le cause riservate alla giurisdizione straniera. Si ritenne, perciò, che il carattere matrimoniale della lite attua un limite alla giurisdizione, sì che, pur non potendosi considerare la Chiesa uno Stato straniero, è legittimo, in base al diritto costituito dalle leggi concordatarie, che della Chiesa e dello Stato disciplina i rispettivi ordinamenti giuridici nelle cause matrimoniali, applicare, in detta materia, gli artt. 37 e 41 c.p.c..
Alle stesse conclusioni pervenne la successiva sentenza n. 629 del 25 aprile 1947, ma dopo avere premesso che il codice di rito equipara, agli effetti del regolamento di cui trattasi, l’autentico difetto di giurisdizione, determinato dall’appartenenza nazionale della lite (art. 37 cpv.), al caso in cui manca, più che la giurisdizione, la competenza del giudice ordinario, per la devoluzione della materia a giudici speciali, ed a quello che configura, più esattamente, il conflitto di attribuzione tra autorità giudiziaria ed amministrazione.
Con l’ordinanza n. 207 del 12 luglio 1972, questa Corte osservò che la proposizione del regolamento si presentava proceduralmente legittima, in quanto con esso veniva invocata la riserva generale di giurisdizione a favore dei tribunali ecclesiastici sulle cause attinenti ai matrimoni concordatari, contenuta nell’art. 34 del Concordato, e si deduceva che tale riserva importasse, in via generale ed astratta, la improponibilità assoluta, secondo l’ordinamento giuridico italiano, della domanda di declaratoria di cessazione degli effetti civili del matrimonio concordatario, e con ciò stesso e quale necessaria conseguenza, il difetto di giurisdizione dei giudici italiani in relazione a quella domanda.
La proponibilità del regolamento fu, poi, implicitamente affermata dalla sentenza 20 aprile 1974 n. 1097; ed è postulata in altre recenti pronunzie: nella sentenza 13 giugno 1989 n. 2853, che – con riguardo all’azione risarcitoria, proposta da un sacerdote nei confronti del suo superiore (sul presupposto che il mancato accoglimento di una sua supplica al Sommo Pontefice per la rimozione di provvedimenti disciplinari fosse dipeso dal parere negativo espresso dal convenuto nell’ambito di un’apposita commissione ecclesiastica) – ha affermato il difetto di giurisdizione del giudice italiano, essendo, l’atto del superiore, espressione del potere giurisdizionale e di grazia della Santa Sede, che non tollera interferenze da parte del giudice italiano; nelle sentenze nn. 4909, 4910 e 4911 del 17 novembre 1989, nelle quali la giurisdizione del giudice italiano è stata invece affermata in relazione alla domanda d’integrazione del trattamento retributivo, con il versamento dei corrispondenti contributi previdenziali, o di risarcimento dei danni per omessa contribuzione, proposta da alcuni dipendenti del Capitolato della Patriarcale Arcibasilica di S. Giovanni in Laterano, essendosi considerato che l’immunità giurisdizionale di cui gode la Santa Sede, con i suoi organi o enti centrali, in quanto titolare di personalità giuridica di diritto internazionale equiparabile a quella degli Stati sovrani, non riguarda le controversie relative a rapporti di lavoro subordinato; nella sentenza 28 agosto 1990 n. 8870, che, in relazione alla domanda proposta da alcuni sacerdoti al giudice del lavoro per far valere l’illegittimità della remuneratio loro attribuita dall’Istituto diocesano per il sostentamento del clero, ha affermato la concorrente giurisdizione delle autorità ecclesiastiche e dei giudici italiani.
II. 3. La necessità di ricercare la soluzione del problema nell’ambito dell’art. 37 cpv. consente di escludere che possa astrattamente ravvisarsi, nel caso in esame, un’ipotesi d’improponibilità assoluta della domanda riflettentesi sulla giurisdizione (secondo l’accenno in tal senso contenuto nell’ordinanza n. 207 del 1972). Invero, l’indirizzo ormai costante di questa Corte (v., per tutte, la sentenza n. 5256 del 15 giugno 1987) è nel senso che l’improponibilità assoluta della domanda, anche nelle controversie fra privati, si traduce nella mancanza di fondamento della domanda, in quanto non esiste nell’ordinamento una norma che tuteli la posizione soggettiva dedotta, e conduce al rigetto nel merito della domanda medesima.
Nel caso previsto dal cpv. dell’art. 37, invece, si verte in ipotesi di (eventuale) difetto di giurisdizione del giudice italiano, nel senso che si tratta di accertare se la tutela, non esclusa astrattamente dall’ordinamento, possa essere invocata davanti al giudice italiano nei confronti di un soggetto qualificato dall’appartenere ad un ordinamento straniero; sì che occorre stabilire soltanto se la fattispecie sia riconducibile nell’ambito della norma citata, in modo che la questione di giurisdizione possa proporsi mediante istanza di regolamento, oppure se, esclusa tale possibilità, essa debba farsi valere in via d’impugnazione ordinaria ai sensi dell’art. 360 n. 1 c.p.c..
In questo ambito è certamente esatto che la Corte di cassazione non si pone come organo che regola la giurisdizione nei confronti del giudice straniero, ma può soltanto affermare se esista la giurisdizione nei confronti del cittadino straniero; tuttavia ciò non conduce alla improponibilità del regolamento.
La reale portata della disposizione contenuta nel cpv. dell’art. 37 fu colta sin dalla sentenza n. 629 del 1947, allorché si precisò, con riferimento a tale disposizione, che si verte in ipotesi di difetto di giurisdizione, determinato dall’appartenenza nazionale della lite.
L’accenno all’appartenenza nazionale della lite, come causa di difetto di giurisdizione, lascia intendere non solo che la questione va posta nell’ambito del cpv. dell’art. 37, non ricorrendo le ipotesi indicate nel 1 comma (sì che la Corte di cassazione non si pone come organo che regola la giurisdizione nei confronti de giudice straniero); ma che, in tale ambito, il giudice italiano è privo di giurisdizione, perché la lite non gli appartiene, se dinanzi ad esso sia convenuto uno straniero e non si versi nei casi indicati nell’art. 4 c.p.c.. La citata sentenza vuol dire, quindi, che la nazionalità straniera del convenuto è assunta, nella norma, come indice della non appartenenza della lite al giudice italiano, ossia di estraneità della lite; e che questo è il nucleo essenziale della norma, non limitato o esaurito nel riferimento, come indice di tale mancanza, alla nazionalità straniera del convenuto, che ne rappresenta non l’unica ipotesi, ma quella più frequente e più rilevante che la norma emblematicamente richiama.
Invero, essa considerò quello che, al tempo della sua emanazione (in cui vigeva l’art. 34 del Concordato del 1929, che attribuiva alla giurisdizione esclusiva dei tribunali ecclesiastici la cognizione delle cause di nullità del matrimonio concordatario, e non esisteva la Convenzione di Bruxelles sulla competenza giurisdizionale, resa esecutiva con legge 21 giugno 1971 n. 804), appariva come ipotesi che potesse dar luogo a un difetto di giurisdizione del giudice italiano nei confronti del convenuto e indicò la cittadinanza come elemento di riferimento all’ordinamento straniero e per ciò al giudice straniero. Ma, se il nucleo essenziale della norma rimase la non appartenenza della lite al giudice italiano e la cittadinanza straniera del convenuto fu assunta soltanto come indice rivelatore della non appartenenza, deve ragionevolmente affermarsi, senza nulla togliere alla tassatività della disposizione, che in essa fossero già potenzialmente incluse tutte le ipotesi in cui il convenuto, anche solo per uno o più rapporti determinati, si presentasse estraneo all’ordinamento italiano e collegato ad un ordinamento diverso, pur essendo cittadino italiano.
Che l’elemento di estraneità, atto a dar luogo al difetto di giurisdizione del giudice italiano, non si limiti alla cittadinanza, risulta dalla citata Convenzione nelle parti in cui, esclusa l’applicabilità degli artt. 2 e 4 nn. 1 e 2 c.p.c. (art. 3), ai fini del collegamento delle parti a un determinato ordinamento, prescinde dal criterio della nazionalità, per privilegiare quello del domicilio (v. artt. 2, 5, 8, 11 e 14): e non si è mai dubitato che il difetto di giurisdizione del giudice italiano, derivante dall’applicazione della Convenzione, potesse farsi valere mediante il regolamento preventivo di giurisdizione, come non si è mai dubitato della proponibilità del regolamento nelle controversie tra cittadino italiano e Stato estero (o altro organismo internazionale o straniero portatore di sovranità), sia che s’invocasse l’immunità della giurisdizione italiana (come, con riguardo alla S. Sede, nella controversia tra un cittadino italiano ed il Capitolato della Patriarcale Arciconfraternita di S. Giovanni in Laterano, cui si è poc’anzi accennato, sia che si sostenesse, comunque, l’appartenenza della lite ad un ordinamento straniero.
Allo stesso modo, a prescindere dalla cittadinanza, l’elemento di estraneità nelle cause di nullità del matrimonio contratto secondo il rito canonico sussiste, sul piano soggettivo, per il fatto che quale matrimonio attinge la sua disciplina sostanziale ad un ordinamento diverso ed estraneo all’ordinamento statale e che le parti, assoggettandosi a quella disciplina ed accettandone anche le regole processuali, si collocano, per quel rapporto, nell’ambito dell’ordinamento che lo regola.
Proprio questo connotato di estraneità all’ordinamento nazionale è stato tenuto presente dalle sentenze nn. 2853-89, 4909-89n e 8870-90: connotato costituito, nel primo caso, dalla soggezione del sacerdote (che attribuiva il mancato accoglimento di una sua supplica al Pontefice al parere negativo del suo superiore) alla potestà giurisdizionale esercitata da quest’ultimo, strumentalmente all’esercizio di un potere attribuito dall’ordinamento canonico al Pontefice; nel secondo caso, dalla instaurazione di un rapporto di lavoro con un organo della Santa Sede, persona giuridica di diritto internazionale riritenuta equiparabile a quella degli Stati sovrani; nel terzo caso, dall’appartenenza dei sacerdoti all’ordinamento canonico, sotto il profilo considerato, nei rapporti con l’Istituto diocesano per il sostentamento del clero.
Deve, dunque, concludersi che l’istanza di regolamento di giurisdizione, nella ipotesi in esame, è ammissibile secondo la previsione degli artt. 41 e 37 cpv. c.p.c..
III. 1. La questione di giurisdizione prospettata dalla ricorrente si sostanzia nello stabilire se, nell’Accordo di revisione del Concordato lateranense stipulato il 18 febbraio 1984 (e ratificato e reso esecutivo con legge 25 marzo 1985 n. 121), sia stata conservata la riserva di giurisdizione esclusiva dei tribunali ecclesiastici nelle cause di nullità del matrimonio contratto da cittadini italiani secondo il rito canonico.
L’art. 34 del Concordato del 1929 sanciva, al 4 comma, che le cause concernenti la nullità del matrimonio erano riservate alla competenza dei tribunali ecclesiastici. Quanto alle cause di separazione personale, la Santa Sede “consentiva” che fossero giudicate dall’autorità giudiziaria civile (ult. comma). Lo stesso articolo stabiliva che le sentenze definitive dei tribunali ecclesiastici, con i relativi decreti del Supremo Tribunale della Segnatura (preposto al controllo della competenza del giudice, della citazione e della legittima rappresentanza o contumacia delle parti) sarebbero stati trasmessi (d’ufficio) alla corte d’appello competente per territorio, la quale li avrebbe resi esecutivi agli effetti civili (5 e 6 comma).
La “riserva” apparve necessaria, come riferì il Capo del Governo alla Camera, “data la dignità di sacramento riconosciuta al matrimonio e l’unificazione nella celebrazione religiosa anche del rito civile”; e risultò coerente con il solenne riconoscimento, da parte dello Stato italiano (nell’art. 1 del Trattato), della religione cattolica come “la sola religione dello Stato”, tanto che il Trattato e il Concordato furono stipulati “in nome della Santissima Trinità”, e con il 1 comma dell’art. 34, con il quale lo Stato, “volendo ridonare all’istituto del matrimonio, che è alla base della famiglia, dignità conforme alle tradizioni cattoliche dal suo popolo”, recepì come sacramento il matrimonio disciplinato dal diritto canonico ed al matrimonio-sacramento riconobbe gli effetti civili. Lo Stato si rimise, cioè, all’ordinamento canonico per quanto riguarda sia la natura del vincolo matrimoniale, sia la celebrazione, sia il rapporto che ne derivava, con una totale rinuncia, in materia, alla sua sovranità e, quindi, all’esercizio della giurisdizione, che della sovranità rappresenta una delle componenti essenziali.
Complementari alla giurisdizione esclusiva dei tribunali ecclesiastici, e con essa coerenti, erano la previsione della delibazione delle sentenze ecclesiastiche in termini di assoluto automatismo e l’attribuzione, esclusivamente ad un organo ecclesiastico, del controllo della competenza del giudice e del rispetto del contraddittorio, che costituiscono aspetti essenziali del processo.
III. 2. Questo sistema, pur messo in crisi dal nuovo assetto costituzionale dello Stato, rimase tuttavia in vigore.
L’art. 7 della Costituzione, dopo avere affermato che lo Stato e la Chiesa cattolica sono, ciascuno nel proprio ordine, indipendenti e sovrani, e dopo aver recepito i Patti lateranensi come disciplina dei loro rapporti, stabili che questi potessero essere consensualmente modificati, senza che ciò richiedesse procedimenti di revisione costituzionale, com’è ribadito nella premessa dell’Accordo di revisione (sì che a modifica in esso contenuta, eventualmente nel senso di sostituire alla giurisdizione esclusiva dei tribunali ecclesiastici il concorso, con essa, della giurisdizione statale, non violerebbe la regola costituzionale). Ma il successivo art. 8, garantendo a tutte le confessioni religiose uguale libertà davanti alla legge, fece venir meno uno dei capisaldi del Trattato del 1929, costituito dalla considerazione della religione cattolica come l’unica religione dello Stato.
Il sistema delineato nel Concordato del 1929 risultò ulteriormente in crisi per effetto sia della introduzione in Italia del divorzio, mediante una normativa ritenuta conforme ai precetti costituzionali (Corte cost. 11 dicembre 1973 n. 176) e che ha fatto venir meno l’uniformità fra lo status coniugale canonico e quello civile; sia della evoluzione giurisprudenziale volta ad arginare l’automatismo della delibazione, nel senso di consentire alla corte d’appello di verificare il rispetto del diritto di difesa nel processo canonico e la non contrarietà della sentenza ecclesiastica all’ordine pubblico italiano, fino alla dichiarazione l’illegittimità costituzionale delle norme che davano rilievo in Italia alla dispensa canonica del matrimonio rato e non consumato.
Va ricordata, al riguardo, la sentenza 2 febbraio 1982 n. 18 della Corte costituzionale, alla quale era stata anche rimessa, in riferimento agli artt. 2, 3, 7, 24 e 25 Cost., la questione di legittimità degli artt. 1 della legge 27 maggio 1929 n. 810 (nella parte in cui dava piena ed intera esecuzione ai commi 4, 5 e 6 dell’art. 34 del Concordato del 1929) e 17 della legge 27 maggio 1929 n. 847, sostenendosi che la riserva alla giurisdizione dei tribunali ecclesiastici delle controversie in materia di nullità dei matrimoni canonici trascritti fosse in contrasto con il “principio supremo dell’ordinamento costituzionale dello Stato” posto a garanzia del diritto alla tutela giurisdizionale, in considerazione dei peculiari aspetti che, con riguardo alla posizione dei giudici, ai diritti ed alle facoltà delle parti, al regime delle testimonianze, allo svolgimento del procedimento, alla suscettibilità di passare in giudicato delle sentenze pronunciate in materia, caratterizzano il sistema del processo matrimoniale canonico.
Nel dichiarare non fondata la questione, la Corte costituzionale – premesso che le norme del Concordato incluse nell’ordinamento, pur fruendo della copertura costituzionale fornita dall’art. 7, non si sottraggono al suo sindacato per quanto attiene alla loro conformità ai principi supremi dell’ordinamento costituzionale dello Stato; e ricordate le proprie decisioni n. 30-71 e 175 e 176-73, che avevano già escluso il contrasto della “riserva” con l’impegno assunto di considerare l’atto di matrimonio, validamente sorto nell’ordinamento canonico, quale presupposto per l’attribuzione degli effetti civili – ha osservato come il diritto alla tutela giurisdizionale (che si assumeva violato dalla “riserva” in relazione alle peculiari caratteristiche che diversificano il sistema processuale canonico), già annoverato fra quelli inviolabili dell’uomo con la precedente sentenza n. 98 del 1965, vada sicuramente incluso tra i principi supremi del nostro ordinamento, il quale postula che siano assicurati a tutti e sempre, per qualsiasi controversia, un giudice e un giudizio; e, dopo avere in tal modo individuato, a livello di principio supremo, il nucleo più ristretto ed essenziale del diritto alla tutela giurisdizionale, ha rilevato che nel processo canonico sono pur sempre garantiti un giudice e un giudizio ed ha concluso che, anche sotto il profilo della tutela giurisdizionale ecclesiastica delle cause di nullità dei matrimoni canonici trascritti non è incompatibile con l’ordinamento costituzionale italiano, quale coerente corollario dell’attribuzione della competenza giurisdizionale sulla validità del matrimonio canonico a quello stesso ordinamento cui spetta la disciplina sostanziale dei requisiti di validità, in ciò dovendosi ravvisare la giustificazione razionale e politica della deroga alla giurisdizione statale, costituente uno dei cardini del sistema matrimoniale concordatario (all’epoca) vigente.
A questa sentenza, riferita al regime facente capo al Concordato del 1929, non può attribuirsi alcun decisivo significato in relazione alla questione in esame, che va decisa alla stregua dell’Accordi di revisione del 1984. Che la “riserva” non fosse, come tale, in contrasto con la Costituzione era stato già affermato dalla Corte, come essa stessa ricorda, e nulla di significativo, sotto questo aspetto, si aggiunge con la pronunzia del 1982, la quale esamina la questione di costituzionalità sotto un profilo più specifico, ossia che la “riserva” non violi i “supremi principi” in considerazione dei peculari connotati che caratterizzano il processo matrimoniale canonico; e che, nel regime concordatario risalente al 1929, la “riserva” fosse un corollario coerente all’attribuzione della disciplina sostanziale dei requisiti di validità del matrimonio all’ordinamento canonico, è argomento idoneo a giustificare la riserva prevista dall’art. 34, 4 comma, del Concordato del 1929 (che considerava sacramento il matrimonio, come tale recepito dallo Stato italiano) e potrebbe essere utilizzato per giustificare la riserva se fosse prevista nell’Accordo del 1984 (che peraltro non ribadisce il carattere sacramentale del matrimonio), ma non potrebbe essere invocato per desumerne una riserva che nell’Accordo non fosse stata mantenuta.
Invero, se l’attribuzione ad uno stesso ordinamento della disciplina sostanziale e della competenza processuale, prevista dal Concordato del 1929, appare coerente e, per ciò, non in contrasto con la Costituzione, secondo gl’impegni assunti dallo Stato italiano in quella sede (il che la Corte costituzionale si prefiggeva di dimostrare), ciò non vuol dire che la “riserva” fosse un corollario, oltre che coerente, anche necessario e che non potesse concordarsi un mutamento degl’impegni dello Stato, con la previsione di un concorso della competenza statale con quella dei tribunali ecclesiastici, in modo da non implicare una totale abdicazione dello Stato dall’esercizio della giurisdizione, coerentemente alla sua non rinunciata sovranità. Nè l’attribuzione all’ordinamento canonico della disciplina sostanziale del matrimonio implica necessariamente che la competenza processuale debba del pari attribuirsi esclusivamente ai tribunali ecclesiastici e non anche, concorrentemente, ai giudici dello Stato (in quanto – si dice – questi ultimi sarebbero comunque chiamati ad applicare le norme del diritto canonico); perché, anche se ciò fosse vero – e non è questa la fase del processo in cui il dubbio debba essere sciolto – il giudice italiano si troverebbe nella stessa situazione in cui, in virtù degli artt. 17-27 delle disposizioni preliminari al c.c. o in applicazione di norme di diritto internazionale privato convenzionale, debba applicare la legge straniera regolatrice del rapporto sostanziale, pur rimanendo disciplinate la competenza e la forma del processo dalla legge italiana, e perché, allo stesso modo, il riconoscimento degli effetti civili ai matrimoni celebrati secondo le norme di altri ordinamenti confessionali (v. art. 11 dell’Intesa con la Tavola valdese del 21 febbraio 1984) non comporta necessariamente la riserva di giurisdizione a favore di quegli ordinamenti.
III. 3. Quanto si è osservato spiega come le Parti siano pervenute all’Accordo di revisione di una posizione del tutto diversa da quella che aveva caratterizzato il Concordato del 1929.
Nel nuovo testo si è espressamente tenuto conto “del processo di trasformazione politica e sociale verificatosi in Italia negli ultimi decenni e degli sviluppi promossi nella Chiesa del Concilio Vaticano II”, “avendo presenti, da parte della Repubblica italiana, i principi sanciti dalla sua Costituzione, e, da parte della Santa Sede, le dichiarazioni del Concilio ecumenico Vaticano II circa la libertà religiosa e i rapporti fra la Chiesa e la comunità politica, nonché la nuova codificazione del diritto canonico”; e si è affermato, in armonia con l’art. 7 della Costituzione, che Stato e Chiesa sono, ciascuno nel proprio ordine, indipendenti e sovrani (art. 1).
È vero che lo Stato riconosce alla Chiesa l’esercizio della giurisdizione in materia ecclesiastica (art. 2 n. 1) e attribuisce effetti civili ai matrimoni contratti secondo le norme del diritto canonico (art. 8 n. 2). Ma nell’Accordo del 1984 non si rinviene una disposizione che sancisca il carattere esclusivo della giurisdizione ecclesiastica in materia matrimoniale, qual era contenuta nell’art. 34 del Concordato del 1929; e, quanto agli effetti civili dei matrimoni canonici, si precisa che la trascrizione, da eseguirsi previa pubblicazione nella casa comunale, non potrà avere luogo quando gli sposi non rispondano ai requisiti della legge civile circa l’età richiesta per la celebrazione e quando sussista un impedimento che detta legge considera inderogabile (artt. 8 n. 1 dell’Accordo e 4, lettera a), del Protocollo addizionale), sì che, ai fini della rilevanza nell’ordinamento italiano, la disciplina del matrimonio attinge anche in esso la sua fonte, per i requisiti di età e l’assenza di taluni impedimenti. È anche vero che l’art. 4, lettera b), del Protocollo addizionale stabilisce – peraltro solo con riferimento al n. 2 dell’art. 8, concernente la delibazione, ed ai fini dell’applicazione degli artt. 796 e 787 c.p.c. – che “si dovrà tener conto della specificità dell’ordinamento canonico”, e, in particolare, che “i richiami della legge italiana alla legge del luogo in cui si è svolto il giudizio s’intendono fatti al diritto canonico”; che “si considera sentenza passata in giudicato quella che sia divenuta esecutiva secondo il diritto canonico”; e che “in ogni caso non si procederà al riesame del merito”. Tuttavia ciò rappresenta il massimo in quanto lo Stato ha ritenuto di poter sacrificare della sua sovranità, che per ogni altro verso viene, invece, riaffermata.
Sul piano di assoluta parità delle rispettive sfere di sovranità assunto dalle Parti, l’Accordo di revisione non contiene alcuna disposizione dalla quale la giurisdizione in materia matrimoniale appaia come una prerogativa dell’ordinamento canonico (sì che la Chiesa debba consentire la giurisdizione statale in tema di separazione personale) e non come espressione di sovranità riconosciuta concorrentemente a entrambi gli ordinamenti. Nè in esso è alcun accenno alla sacramentalità del matrimonio ed alla volontà dello Stato di uniformarsi alla tradizione cattolica, sì che il matrimonio canonico non viene più recepito come tale, nella sua sacramentalità, e quello civile assume dignità non inferiore a quello disciplinato dal diritto canonico.
In questa nuova logica risulta chiaro il significato da attribuire all’art. 13 dell’Accordo, nella parte in cui stabilisce che le disposizioni del Concordato (del 1929), non riprodotte nel nuovo testo, sono abrogate, facendosi salvo soltanto quanto previsto dall’art. 7 n. 6 non riguardante la materia matrimoniale. La norma vuol dire che il massimo del sacrificio dalle proprie prerogative, consentito da ciascuna Parte, è quello che risulta espressamente dall’Accordo, oltre al quale non è possibile ammetterne altri. Vuol dire, quindi, che dalla mancata riproduzione nel nuovo testo (ossia dalla mancata riproduzione testuale) discende l’abrogazione delle disposizioni precedenti. Non può, per ciò, condividersi la tesi della ricorrente, secondo la quale l’art. 13 non avrebbe abrogato la “riserva”, in quanto comporterebbe l’abrogazione di norme specifiche e non di “istituzioni” (cioè di un istituto o di un principio generale, quale la “riserva”), perché questa era contenuta proprio in una norma specifica (art. 34, 4 comma, del Concordato del 1929) ed era configurabile solo in quanto prevista in quella norma, che nel nuovo testo non c’è più: nè può ammettersi che la norma, non testualmente riprodotta, ossia non riportata (ripetuta), sia pure con modificazioni, possa essere desunta in via logica, essendo semplicistica (ed elusiva della questione in esame) l’affermazione, fatta in dottrina, che il testo dell’Accordo si concreti in una pura modifica di carattere redazionale ed implicando, la precisa formulazione dell’art. 13, il divieto di operazioni ricostruttive di disposizioni non riprodotte.
Pertanto, poiché l’art. 8 n. 2 dell’Accordo di revisione riproduce, sia pure con rilevanti modificazioni, le disposizioni dell’art. 34 relative alla delibazione, ma non anche quella contenente la riserva di giurisdizione ai tribunali ecclesiastici delle cause concernenti la nullità del matrimonio, quest’ultima disposizione è rimasta abrogata ai sensi dell’art. 13 (senza che, di fronte all’obiettivo significato dell’Accordo del 1984, assumano rilievo decisivo gli atteggiamenti unilateralmente assunti dalle Parti e cioè, da un lato, le comunicazioni alle Camere del Presidente del Consiglio circa il superamento della “riserva” e, dall’altro, la nota di protesta del Consiglio per gli Affari pubblici della Chiesa in data 31 maggio 1985), tanto che non è stato più necessario che la S. Sede consentisse ai tribunali civili il giudizio delle cause di separazione personale. Tale disposizione, infatti, si sarebbe giustificata solo se fosse stata mantenuta la “riserva”, che invece è venuta meno, con la conseguenza del concorso tra giurisdizione italiana e giurisdizione ecclesiastica, da risolvere mediante il criterio della prevenzione, come queste Sezioni unite hanno già ritenuto (a seguito dell’Accordo intervenuto con la S.
Sede il 15 novembre 1984, con il quale è stato istituito un nuovo sistema di sostentamento del clero cattolico in Italia) nell’ipotesi, avente diverso oggetto, di controversia sulla qualificazione della remunerazione spettante ai sacerdoti che svolgono servizio nelle diocesi (sent. n. 8870-90).
Questa sentenza suffraga le conclusioni, cui si è pervenuti, allorché argomenta che la collocazione e lo svolgimento del sistema di remunerazione del clero nell’ambito dell’ordinamento canonico non sono, in sè e per sè, determinanti, giacché è del tutto ovvio che la remunerazione per il ministero sacerdotale dei presbiteri sia disciplinata dal diritto canonico, ma che, messa a fuoco la rilevanza di tale disciplina anche nel nostro ordinamento, la giurisdizione italiana non è esclusa dal fatto che lo Stato riconosca, in linea di massima, adeguata la giurisdizione ecclesiastica e non incompatibile con i principi supremi del nostro ordinamento, non comportando, la disciplina canonica, un’abdicazione dello Stato dall’esercizio della sua giurisdizione, nè dal punto di vista formale, mancando nella legge alcuna espressa rinunzia, nè implicitamente, attraverso un procedimento esegetico, che dovrebbe essere ineccepibilmente rigoroso, essendo in via di principio da escludere che la rinunzia all’esercizio della giurisdizione in un settore così importante possa non risultare espressamente.
III. 4. Non è mancato chi, pur prendendo atto che l’Accordo di revisione ammette il concorso delle giurisdizioni, civile ed ecclesiastica, sulla validità del matrimonio e che, per ciò, i coniugi interessati possono proporre il giudizio sulla validità del negozio matrimoniale davanti al giudice civile, è dell’avviso che il giudice italiano non possa mai giudicare sulla nullità del matrimonio canonico, ma solo sulla nullità della trascrizione.
La tesi, di cui occorre dar conto in questa sede per l’incidenza che può avere sulla misura e sul contenuto della giurisdizione che le Sezioni unite sono chiamate a regolare, non può essere condivisa.
Nel Concordato del 1929, oggetto della “riserva” erano soltanto le cause concernenti la nullità del matrimonio e non anche quelle sulla nullità della trascrizione, da sempre devolute alla cognizione del giudice italiano. Se a quest’ultimo fosse ancora inibito giudicare sulla nullità del matrimonio, il venir meno della “riserva” non avrebbe alcun significato, derivando la giurisdizione italiana, una volta abolita la “riserva”, non tanto dalle norme dell’Accordo, che pongono le sentenze ecclesiastiche su un piano analogo a quello delle sentenze straniere da delibare, e dal richiamo dei nn. 5 e 6 dell’art. 797 c.p.c. (che è soltanto confermativo della giurisdizione italiana), quanto dalle norme – costituzionali e processuali – che ne costituiscano il fondamento. Nè rileva che la sentenza di nullità pronunciata dal giudice italiano (come quelle di separazione e di divorzio) non possa essere riconosciuta nell’ordinamento della Chiesa, perché lo Stato non appare interessato alla reciprocità della delibazione e non la pretende.
III. 5. A sostegno della tesi della sopravvivenza della “riserva”, già negata da questa Corte (solo incidentalmente, perché la controversia esaminata verteva in tema di delibazione) nella motivazione delle sentenze nn. 1212 e 2164 del 5 febbraio e del 1 marzo 1988, non possono addursi gli argomenti prospettati al riguardo dalla dottrina.
Che l’art. 8 n. 2 dell’Accordo disciplini la delibazione delle sentenze dei tribunali ecclesiastici è argomento irrilevante, perché si concilia tanto con la riserva quanto con il concorso delle giurisdizioni e dimostra soltanto che, come non v’è una riserva a favore dei tribunali ecclesiastici, così non ve n’è una a favore della giurisdizione civile.
Nè rileva che il venir meno della riserva a favore dei tribunali ecclesiastici non sia stato positivamente enunciato, perché, essendo già abrogata la riserva per effetto dell’art. 13, un’apposita disposizione di abrogazione sarebbe stata manifestamente pleonistica, essendo, se mai, necessaria una disposizione che limitasse la giurisdizione dello Stato.
L’impegno dell’Italia a tener conto della specificità dell’ordinamento canonico, da cui il vincolo matrimoniale contratto secondo tale ordinamento attinge la sua disciplina sostanziale, è stato assunto con riferimento al n. 2 dell’art. 8, e cioè alla delibazione, ed ai fini dell’applicazione degli artt. 796 e 797 c.p.c. (operando, in particolare, in ordine ai richiami fatti alla legge del luogo in cui si svolge il giudizio; alla equiparazione della sentenza divenuta esecutiva secondo il diritto canonico a quella passata in giudicato; e al divieto in ogni caso del riesame del merito), ed ha il solo scopo di attenuare la equiparazione, ai fini della delibazione, della sentenza ecclesiastica alla sentenza straniera, senza con ciò impedire la giurisdizione diretta dello Stato e lasciando aperto il problema (che non si profila in sede di regolamento) se anche nell’ambito di tale giurisdizione di debba tener conto della specificità dell’ordinamento canonico e, correlativamente, delle ragioni ostative alla delibazione previste dell’art. 8 n. 2.
All’argomento, secondo cui al giudice sarebbe consentito l’esame del merito vietato, invece, alla corte d’appello in sede di delibazione, si è esattamente obiettato che il riesame del merito rappresenta una garanzia posta a disposizione del convenuto in delibazione e non uno strumento esercitabile d’ufficio dal giudice a tutela della giurisdizione italiana, sì che può essere escluso senza compromettere tale giurisdizione sulla domanda diretta.
Infatti, quanto l’esame del merito sia escluso in sede di delibazione, come lo era prima che fosse introdotto con il r.d.l. 20 luglio 1919 n. 1272, ugualmente non può configurarsi il difetto di giurisdizione del giudice italiano su una domanda suscettibile di essere decisa (o che sia stata già decisa) all’estero.
Nè, in mancanza di una norma espressa, la riserva potrebbe ravvisarsi nell’affermazione che lo Stato e la Chiesa sono indipendenti e sovrani ciascuno nel proprio ordine, perché la sovranità della Chiesa nel suo ordine, che del resto è sempre stata fuori discussione, non comporta una rinuncia dello Stato alla propria giurisdizione (che costituirebbe una menomazione della sua sovranità); e l’affermazione assume, se mai, il significato, opposto, di recupero, da parte dello Stato, di quella parte della sua sovranità sacrificata nel Concordato dal 1929.
Disatteso va anche l’argomento fondato sul richiamo dell’art. 8 n. 2 lett. a) – nella parte in cui impone alla corte d’appello di accertare, in sede di delibazione, che il giudice ecclesiastico era il giudice competente – nonché sulla considerazione che la corte d’appello non è chiamata a verificare la distribuzione interna della competenza fra più tribunali ecclesiastici (al che provvede già l’organo ecclesiastico preposto a tale controllo) e che “il giudice competente è uno solo”. Infatti, può esser vero che oggetto di controllo da parte del giudice italiano è la competenza giurisdizionale dell’autorità diversa da quella statale, che abbia pronunciato la sentenza, e non anche la ripartizione di competenza interna tra i vari organi della giurisdizione canonica in tal senso, sotto il vigore del Concordato del 1929, la sentenza 15 maggio 1982 n. 3024). Tuttavia, la disposizione va interpretata nel senso che, dato il concorso dei due ordinamenti a disciplinare il processo ed essendo il giudice ecclesiastico fornito di competenza giurisdizionale, anche se non esclusiva, solo se si tratti di matrimonio celebrato secondo le norme dell’ordinamento canonico, la corte d’appello deve accertare che oggetto del giudicato sia, appunto, quel tipo di matrimonio. D’altra parte, la norma invocata è diretta a disciplinare i poteri del giudice della delibazione nei confronti di una sentenza già emanata dal tribunale ecclesiastico, il quale, per ciò, in base al criterio della prevenzione mediante il quale il concorso delle giurisdizioni va risolto, rimane, una volta preventivamente adito, il giudice esclusivamente competente, con la conseguenza che la locuzione “il giudice competente” non vuol dire che la competenza spetti sin dall’inizio ad un solo giudice e non esclude che si possa versare in un’ipotesi di fori concorrenti. Essa, inoltre, va letta in simmetria con l’art. 797 n. 1 c.p.c. (“la corte d’appello… accerta che il giudice dello Stato nel quale la sentenza è stata pronunciata poteva conoscere della causa secondo i principi sulla competenza giurisdizionale vigenti nell’ordinamento italiano”), il quale non esclude la concorrente giurisdizione del giudice italiano sulla domanda diretta ed è da intendere in rapporto al superamento della riserva esclusiva a favore della giurisdizione ecclesiastica (v. sent. 1212 e 2164 del 1988).
Infine, l’esigenza, sentita dalla S. Sede, “di riaffermare il valore immutato della dottrina cattolica sul matrimonio e la sollecitudine della Chiesa per la dignità dei valori della famiglia, fondamento della società” (art. 8 n. 3 dell’Accordo di revisione) rappresenta un’affermazione (unilaterale) di principio, riferita alla disciplina sostanziale del matrimonio, di cui la Chiesa si considera tuttora gelosa custode, e giustificata proprio del ripristino dei poteri processuali dello Stato, sia in fase di delibazione sia in sede di cognizione diretta, attraverso l’abolizione della giurisdizione esclusiva della Chiesa in relazione alle cause di nullità del matrimonio.
III. 6. Con il venir meno della riserva, anche i poteri del giudice italiano in sede di delibazione sono pronfondamente mutati, nel senso che, seppure non si voglia equiparare la S. Sede ad uno Stato estero, non solo è caduto l’automatismo previsto dall’art. 34 del Concordato del 1929, ma il giudizio di delibazione si svolge (non più d’ufficio) attraverso un procedimento pressoché identico a quello di cui agli artt. 786 e ss. c.p.c., salvo l’obbligo del giudice italiano di tener conto della specificità dell’ordinamento canonico nel senso già visto e nei limiti indicati dall’art. 4, lett. b), del Protocollo addizionale.
Se ne deduce che, come l’automatismo sancito dal Concordato del 1929, pur se man mano attenuato nella giurisprudenza degli ultimi anni, si raccordava al carattere esclusivo della giurisdizione ecclesiastica, così la nuova disciplina della delibazione, com’è ora impostata quale cerniera tra le due giurisdizioni e raccordo tra due concorrenti competenze, depone nel senso della negazione del carattere esclusivo della giurisdizione ecclesiastica nelle cause di nullità del matrimonio.
È significativo, al riguardo, che l’art. 8 n. 2 dell’Accordo condiziona la dichiarazione di efficacia della sentenza ecclesiastica nella Repubblica italiana all’accertamento delle “altre condizioni richieste dalla legislazione italiana per la dichiarazione di efficacia delle sentenze straniere”, in tal modo rinviando all’art. 797 c.p.c., il quale subordina la delibazione anche alla non contrarietà della sentenza straniera ad altra sentenza pronunciata da un giudice italiano e all’inesistenza di un processo per il medesimo oggetto davanti ad un giudice italiano. Ciò conferma come sia ben possibile che davanti ai giudici dello Stato penda un processo sulla nullità del matrimonio canonico trascritto e che per conseguenza si possa avere una sentenza italiana su tale nullità.
IV. Alla stregua di quanto precede, deve, dunque, affermarsi la giurisdizione del giudice italiano, in quanto giudice preventivamente adito, sulla domanda proposta da P.C.nei confronti di F.T. davanti al Tribunale di Roma.
Ricorrono giusti motivi per compensare le spese del giudizio di cassazione.

P.Q.M

La Corte, a sezioni unite, dichiara la giurisdizione del giudice italiano e compensa le spese del giudizio di cassazione.
Così deciso in Roma il 17 dicembre 1992.