Osservatorio delle libertà ed istituzioni religiose

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Osservatorio delle Libertà ed Istituzioni Religiose

Documenti • 23 Febbraio 2004

Sentenza 12 ottobre 1992, n.761

Corte d’Appello Civile di Brescia. Sentenza 12 ottobre 1992, n. 761.

(Falcone; Lussana)

Svolgimento del processo

Con atto di citazione del 16 aprile 1977 don Dino Pegorini, in proprio e quale vicario economo della Parrocchia di San Martino Vescovo in Canedole, premesso che rispetto a tale chiesa vigeva, a favore e a carico del latifondo di Canedole, il diritto di patronato, risalente a un atto del 29 ottobre 1487 e comportante, come da rogito Pescatori del 6 aprile 1784, il diritto di presentazione e nomina del beneficiario dell’ufficio, con l’onere di corrispondere al sacerdote in cura d’anime un assegno di congrua di lire mantovane 1.200 all’anno (o una maggiore somma, se stabilita per i parroci dalla competente autorità), di far celebrare, con il relativo compenso, 261 messe all’anno e di provvedere alla manutenzione ordinaria e straordinaria della chiesa e della canonica, esponeva che con rogito 11 maggio 1938 n. 1530 notaio Alberti gli eredi del barone Raimondo Franchetti (il quale, benché israelita, aveva, come proprietario del latifondo e successore dei Rothschild, puntualmente adempiuto agli oneri di patronato) avevano alienato una porzione del latifondo alla S.A.I.C.A. – Società Anonima Immobiliare Canedole Agricola con il seguente patto: “… Art. 19) Sulla proprietà compravenduta esiste una Chiesa affidata ad un Parroco e la relativa casa canonica per l’abitazione dello stesso Parroco. La società acquirente si obbliga di mantenere la detta Chiesa aperta al pubblico e di provvedere alla manutenzione ordinaria e straordinaria, tanto della Chiesa quanto della casa canonica. Lo stipendio al Parroco resta accollato alla acquirente per la parte proporzionale alla Tenuta Canedole in confronto della proprietà sotto giurisdizione del Parroco. Tale onere si dichiara in 495/1047 quattrocentonovantacinque millequarantasettesimi”. Esponeva, ancora, che tra il titolare del beneficio o i suoi vicari, da un lato, e i proprietari della tenuta, dall’altro, erano intervenuti accordi per la monetizzazione dell’assegno di congrua; che da ultimo la quota a carico della S.A.I.C.A. era stata fissata in lire 554.000 all’anno per l’assegno, oltre il compenso per le messe, poi richiesta, per le variazioni intervenute nelle congrue a carico dello Stato (legge n. 337 del 1974) in lire 735.000 dall’1 luglio 1973; che, deceduto Sante Pasetto, legale rappresentante della società, la S.A.I.C.A. aveva cessato dal gennaio del 1973 ogni versamento, a differenza degli altri proprietari dei terreni di Canedole. Tanto premesso ed esposto, conveniva in giudizio davanti al Tribunale di Mantova la S.A.I.C.A. per sentir accertare “… gli oneri incombenti per titolo antico o per assunzione convenzionale…” sulla società medesima nei confronti della Parrocchia di San Martino Vescovo in Canedole, per ottenerne la quantificazione monetaria e per sentir condannare la convenuta a versare per il periodo dall’1 gennaio 1973 al 31 dicembre 1976 l’importo di lire 19.087.108, oltre rivalutazione monetaria e interessi.

Con separato atto di citazione di pari data (16 aprile 1977) don Dino Pegorini, nella medesima duplice veste, conveniva in giudizio davanti al Tribunale di Mantova Ferdinando Pasetto, Favalli Enrichetta ved. Pasetto, anche quale legale rappresentante dei figli minori Giovanni Andrea Pasetto e Regina Dina Pasetto, tutti quali eredi di Sante Pasetto, e la S.A.I.C.A., premettendo analoga espositiva in ordine al diritto di patronato e deducendo di essersi rivolto nel 1967 alla anzidetta società, in persona del legale rappresentante Sante Pasetto, affinché si facesse carico delle urgenti opere di ristrutturazione conservativa della chiesa e della casa parrocchiale, in osservanza degli oneri di patronato, assunti anche espressamente con il patto n. 19 del rogito Alberti del 1938; di avere contratto un debito in c/c con la Banca Agricola Mantovana, agenzia di Castelbelforte, per finanziare tali opere, seguendo l’invito di Sante Pasetto, che si era impegnato sia ad avallare personalmente l’obbligazione, sia ad estinguerla per capitale, interessi e spese. Esponeva che, dopo la morte del Pasetto (avvenuta nel 1972) allorquando il saldo debitorio in c/c aveva raggiunto l’importo di lire 5.500.290 al 2 febbraio 1974, la S.A.I.C.A. aveva provveduto a rimborsare il solo capitale, adottando un atteggiamento di silenzio-rifiuto di fronte all’obbligo di coprire le altre passività dell’operazione bancaria, gravanti pure sugli eredi del Pasetto, avendole assunte il medesimo anche in proprio. Chiedeva pertanto la condanna dei convenuti al pagamento dell’importo di lire 2.500.290, con interessi dal 2 febbraio 1974 al saldo.

Nella prima causa (n. 629/77 R.G.) la S.A.I.C.A., mentre dava atto dell’esistenza del diritto di patronato a suo favore e dei connessi oneri, dei quali peraltro contestava la quantificazione, negava la possibilità da parte dell’altro soggetto del rapporto, da lei identificato nella Curia vescovile di Mantova, di chiedere l’esecuzione coattiva e in forma specifica delle prestazioni patrimoniali accessorie, trattandosi di oneri e prevedendo le norme canoniche (in particolare il can. 1469 § 3 C.J.C.), applicabili in virtù del rinvio formale del codice civile, soltanto la sanzione della cessazione del giuspatronato nel caso di inadempimento del patrono. Affermava conclusivamente che la domanda era non solo infondata, ma del tutto inammissibile, e ne chiedeva il rigetto.

Nella seconda causa (n. 630/77 R.G.) i convenuti contestavano la pretesa. In particolare, gli eredi Pasetto eccepivano la loro estraneità al rapporto di giuspatronato e il conseguente difetto di legittimazione passiva, escludendo altresì l’assunzione di qualsiasi obbligazione da parte del loro autore (che peraltro sarebbe stata del tutto priva di titolo) relativamente all’oggetto della causa. La S.A.I.C.A. negava di essere tenuta a rimborsare le spese di manutenzione dei beni parrocchiali, sostenendo che, nel caso di inadempimento da parte sua dell’onere di giuspatronato, il parroco non poteva dare corso alle opere, ma avrebbe dovuto far fissare un termine al patrono per la loro esecuzione, trascorso inutilmente il quale si sarebbe verificata la cessazione “ipso jure” del diritto di patronato.

Riunite le cause e precisate le conclusioni, il Tribunale, con sentenza del 30 maggio 1981 dichiarata provvisoriamente esecutiva limitatamente al capo b) del dispositivo, così provvedeva:

a) dichiarava la S.A.I.C.A. tenuta a corrispondere alla Parrocchia di San Martino Vescovo in Canedole, nella persona del vicario economo don Dino Pegorini, l’importo annuo equivalente al 47 per cento di lire mantovane 1.200 del 1748 e al titolare della medesima il 47 per cento del compenso annuo per 261 messe, nonché tenuta a provvedere nella stessa percentuale di concorso alle spese di manutenzione ordinaria e straordinaria della chiesa e della canonica.

b) condannava la S.A.I.C.A. a corrispondere al titolare della Parrocchia di San Martino Vescovo in Canedole nella persona del vicario economo don Dino Pegorini, la somma di lire 18.577.133 “… calcolata al lordo di interessi e rivalutazione monetaria…” a titolo di congrue arretrate;

c) condannava la S.A.I.C.A. a corrispondere al titolare della Parrocchia di San Martino Vescovo in Canedole, nella persona del vicario economo don Dino Pegorini, la somma di lire 12.122.240 “… calcolata al lordo di interessi e rivalutazione monetaria…”, a titolo di compensi arretrati per messe;

d) condannava la S.A.I.C.A. e i Pasetto a pagare a Don Dino Pegorini in proprio e quale vicario economo della Parrocchia di San Martino Vescovo in Canedole la somma di lire 5.000.000 “… calcolata al lordo di interessi e rivalutazione…” a titolo di interessi non rimborsati (in riferimento al debito bancario contratto per le spese di manutenzione dei beni parrocchiali);

e) poneva le spese del giudizio a carico della S.A.I.C.A. nella misura del 75 per cento e dei Pasetto in ragione del 25 per cento.

Escluso il mutamento dei fatti dedotti in causa in quanto l’attore, fin dalla citazione introduttiva, richiamato l’art. 19 del rogito Alberti del 1938, aveva chiesto di accertare gli oneri gravanti sulla S.A.I.C.A. “… per titolo antico o per assunzione convenzionale…”, nella decisione si afferma: a) che l’art. 19 del rogito Alberti del 1938 contiene un negozio di accertamento del rapporto di patronato, limitatamente alle obbligazioni a carico del patrono con il quale i contraenti hanno “… inteso conservare il giuspatronato di remota origine, pur se eventualmente modificandolo, piú o meno consapevolmente, attraverso pattuizioni peraltro giuridicamente vincolanti e tali da sovrapporsi comunque all’anteriore disciplina del rapporto…”; b) che l’identificazione della fonte (normativa o convenzionale) regolatrice di diritti e obblighi delle parti non è indispensabile, perché, anche nel caso di applicabilità delle norme canoniche e di loro natura inderogabile, i principi informatori della legge canonica non si possono considerare vulnerati dal fatto che i contraenti, senza ledere l’eguale diritto spettante all’ordinario diocesano o alla mensa vescovile, avessero riconosciuto anche alla Parrocchia (od al suo titolare) il diritto di esigere la congrua, il compenso per le messe e la manutenzione della chiesa e della canonica, in veste di creditore effettivo aggiunto; c) che il giuspatronato non si è perento, a termini del can. 1453 C.J.C., perché un rescritto pontificio della metà del 1800 aveva consentito ai proprietari del latifondo di Canedole di esserne titolari, benché israeliti; d) che il titolo di patrono può competere anche a persone giuridiche laicali, perché le norme canoniche non lo vietano, e che una diversa conclusione non si impone per le società commerciali, in quanto l’estraneità del patronato rispetto all’oggetto sociale può rilevare soltanto nell’ambito dell’ordinamento interno della società; e) che le eccezioni relative alla incoercibilità e alla estinzione degli obblighi del patrono debbono essere respinte, perché, per un verso, nel vigente ordinamento è rimasta trasfusa la legge piemontese 9 aprile 1850 n. 1913, il cui art. 2 demanda ai giudici statali le controversie in materia di patronato, attribuendo così alle parti del relativo rapporto la titolarità di diritti soggettivi perfetti azionabili davanti all’autorità giudiziaria ordinaria e, per altro verso, la S.A.I.C.A., rimborsando le spese sostenute per le opere di ristrutturazione conservativa, ha fatto cessare lo stato di quiescenza del rapporto, impedendone l’estinzione, come previsto dal diritto canonico nel caso di adempimento del patrono all’onere di manutenzione entro il termine assegnatogli dall’ordinario diocesano, conseguenza che non può essere diversa se l’adempimento abbia luogo prima della fissazione del termine; f) che la violazione di una obbligazione meramente accessoria, come quella relativa agli interessi, non può comportare sanzioni tanto gravi, quali la sospensione dall’esercizio del diritto di patronato e la decadenza da esso; g) che la S.A.I.C.A., in quanto compatrono, non può sottrarsi all’onere della manutenzione dei beni, né omettere la corresponsione dell’assegno di congrua e del compenso per le messe; h) che la promessa di pagamento delle opere, fatta da Sante Pasetto, desumibile dal comportamento processuale delle parti (l’offerta di prova orale della promessa, da un lato; la generica contestazione degli eredi Pasetto, limitatisi a sostenere soprattutto la mancanza di obbligazione della S.A.I.C.A., dall’altro lato), esime dal considerare il rapporto, che vi ha dato causa, ex art. 1988 c.c.; i) che l’equivalente attuale di lire mantovane 1.200 del 1784 è calcolabile in base all’art. 1277 comma secondo c.c., assumendo come parametro di riferimento del potere di acquisto delle monete il valore dei terreni di Canedole, pari a lire mantovane 582, 91 per biolca nel 1784 ed a lire 3.000.000 per biolca al tempo della decisione; l) che, corrispondendo lire mantovane 0,0001943 a lire italiane 1, lire mantovane 1.200 del 1784 equivalgono a lire italiane 6.175.910 del 1981; m) che il compenso per 261 messe annue, stabilito con rogito Pescatori del 1784 nel 5 per cento di lire mantovane 15.660, è determinabile secondo il medesimo criterio di calcolo in lire 1.030.000; n) che la rivalutazione monetaria è dovuta, trattandosi di importi destinati ai consumi individuali; o) che il rimborso degli interessi del debito bancario spetta nella misura richiesta, in forza della promessa di pagamento fatta da Sante Pasetto a nome proprio e della S.A.I.C.A. e che il relativo importo (lire 2.500.590) è soggetto a rivalutazione monetaria.

Questa Corte, con sentenza del 2 dicembre 1986, dichiarava nullo l’atto di appello della S.A.I.C.A. e dei Pasetto contro la decisione di primo grado, onerandoli delle spese.

Su gravame dei soccombenti, il Supremo Collegio con sentenza 22 maggio 1990 n. 4614 cassava la decisione di secondo grado e rinviava la causa ad altra sezione di questa Corte incaricata di procedere a nuovo esame della controversia.

(omissis)

Con atto di citazione del 13 maggio 1991 Aldo Pegorini, Maria Dina Pegorini, Guido Nardelli e Franco Nardelli (i due ultimi successori per rappresentazione di Celidea Pegorini), tutti eredi di Don Dino Pegorini, deceduto il 13 maggio 1987; Mons. Ettore Scarduelli, vicario generale della Diocesi di Mantova, quale ordinario diocesano; l’Istituto Diocesano per il Sostentamento del Clero di Mantova e Don Cleo Dal Borgo, quale amministratore parrocchiale della Parrocchia di San Martino Vescovo di Canedole, provvedevano a riassumere la causa in sede di rinvio, chiedendo il rigetto dell’appello proposto dalla S.A.I.C.A. e dai Pasetto contro la sentenza del 30 maggio 1981, “… con aumento degli importi liquidati dal Tribunale per i titoli accertati al 31/12/76, per rivalutazione ed interessi maturati anche dopo la decisione (26/3/81) di primo grado e comunque dovuti…”. In via subordinata istruttoria chiedevano una indagine tecnica monetaria al fine di determinare il rapporto di valore fra la lira mantovana del 1784 e la lira italiana al tempo attuale, nonché altra indagine tecnica ad indirizzo storico-archivistico sul contenuto letterale dei documenti prodotti al fine della “… illustrazione dei titoli dedotti in causa…”. Spese rifuse.

La S.A.I.C.A., Ferdinando Pasetto, Giovanni Andrea Pasetto, Regina Dina Pasetto ed Enrichetta Favalli ved. Pasetto si costituivano in giudizio con comparsa del 2 ottobre 1991, con la quale chiedevano: 1) di disporre la separazione delle cause già riunite in un solo processo; 2) di dichiarare il difetto di legittimazione attiva dell’attore, respingendo in ogni caso, in accoglimento dei motivi dell’appello principale, le domande proposte da Don Dino Pegorini, nella duplice qualità, “… contestandosi comunque la quantificazione degli oneri e ciò in riforma integrale dei capi a), b), c) della sentenza, negandosi comunque gli accessori e la rivalutazione delle somme, in denegata ipotesi riconosciute come dovute…”; 3) di riformare integralmente il capo d) della sentenza, rigettando la domanda dell’attore, riconoscendo in via subordinata gli interessi dalla domanda sulle somme eventualmente dovute e negando la rivalutazione; 4) di porre le spese del giudizio a carico della parte appellata.

Nel contrasto tra le opposte tesi, la causa è passata in decisione alla udienza del 30 settembre 1992 sulle conclusioni precisate come sopra e come in atti.

Motivi della decisione

(omissis)

3.2. – Le censure contenute nel secondo motivo di gravame investono l’interpretazione e l’inquadramento giuridico dell’art. 19 del rogito Alberti del 1938. Pur potendo essere accolte per quanto di ragione, non sono risolutive.

Il patronato de quo, come diritto accessorio al latifondo di Canedole, e i correlativi oneri di natura patrimoniale per il patrono, di contenuto non controverso, trovano conferma e riscontro nei documenti prodotti e nella stessa linea di difesa della S.A.I.C.A. (v. comparsa di risposta del 27 giugno 1977, pag. 2-3), diretta a contestare la possibilità per l’altra parte del rapporto, indicata nell’ordinario diocesano, di chiedere l’esecuzione coattiva e in forma specifica delle prestazioni. Anche le eccezioni formulate dalla S.A.I.C.A. nel corso del giudizio (estinzione del diritto per mancanza dei requisiti soggettivi in capo a una società; quiescenza del rapporto per inadempimento) ne sottintendono l’esistenza, pregressa (fino al 1938, epoca dell’acquisto di porzione del latifondo) o attuale (in riferimento all’eccepita quiescenza per inadempimento dal 1973).

Il patronato della Parrocchia di San Martino Vescovo in Canedole è relativo a una chiesa e una canonica, che sono poste da sempre su terreno compreso nel latifondo di Canedole, un tempo di proprietà del Monastero di S. Ruffino (v. atto del 20 aprile 1487) e dei Canonici Regolari di S. Sebastiano di Mantova, e che non sono mai uscite da quel compendio immobiliare, pervenuto con la denominazione di “Corte di Canedole” allo Stato, in attuazione della legge austriaca del 1782 di soppressione degli ordini religiosi contemplativi, che lo ha messo all’incanto a mezzo del Regio Subeconomato. La vendita del latifondo a un laico è stata perfezionata con il rogito Pescatori del 6 aprile 1784 (v. copia conforme, rilasciata dall’Archivio di Stato di Mantova, pag. 2), nel quale si dà atto del giuspatronato sulla Parrocchia sotto il titolo di San Martino Vescovo in Canedole (ivi, pag. 5) e della sua trasmissione con tutti gli onori e oneri nell’acquirente, così come “… era in possesso…” dell’ordine religioso al tempo della soppressione, “… tale e quale…” (ivi, pag. 11). La trasmissione del patronato quale jus onerosum, oltre che jus honorificum e jus utile, annesso, come diritto accessorio, al possesso del latifondo di Canedole, non soltanto è stata formalizzata nel rogito del 1784 mediante il ricorso ad espressioni di tipo liberatorio per la parte cedente, ma ha anche avuto una sua rilevanza nel procedimento di formazione del prezzo di vendita del compendio immobiliare da parte del Regio Subeconomato, come fanno fede i complessi calcoli contenuti nello stesso rogito Pescatori.

Il rogito Alberti del 1938 ha per oggetto la vendita di porzione del latifondo di Canedole, da parte dei proprietari del tempo, alla S.A.I.C.A. L’art. 19 dà atto che “… sulla proprietà compravenduta esiste una Chiesa affidata ad un Parroco e la relativa casa canonica per l’abitazione dello stesso Parroco…” (art. 19). L’impegno assunto dalla società acquirente “… di mantenere la detta Chiesa aperta al pubblico…” conferma che la chiesa non era eretta in ente morale e, quale fabbricato destinato esclusivamente all’esercizio del culto, sorgeva su area compresa catastalmente nella porzione di latifondo ceduta. é vero che l’enunciazione dello status dei fabbricati destinati a chiesa e canonica, contenuta nel rogito Alberti del 1938, costituisce dichiarazione ex uno latere, tra venditori (eredi Franchetti) e acquirente (S.A.I.C.A.), e, come tale, non è opponibile alla autorità ecclesiastica, ma è altrettanto vero, da un lato, che il rogito Pescatori del 1784 comprende una possessione denominata “La Chiesa” tra quelle che formano il latifondo di Canedole (v. pag. 4), sottratto autoritativamente all’ordine religioso e venduto all’incanto dall’amministrazione pubblica, investita del potere di disporre delle ragioni della soppressa Canonica di Mantova detta di S. Sebastiano de’ Canonici Regolari di S. Salvadore della Congregazione Renana, già proprietaria del latifondo (v. p. 2), e, dall’altro lato, che non risulta documentalmente che tra il 1784 e il 1938 i beni “chiesa” e “canonica” fossero usciti dal patrimonio privato venuto ad esistenza nel 1784 con la vendita del latifondo di Canedole a un laico. Non ultimo, dalla nota 5 maggio 1979 n. 430 dell’Ordinario della diocesi di Mantova si apprende che “… il Beneficio Parrocchiale di S. Martino Vescovo in Canedole di Roverbella, a) non possiede alcun bene immobile o mobile; b) non è congruato dello Stato; c) il suo unico reddito è l’assegno gravante sui Patroni…” (v. fascicolo di primo grado dell’attore, doc. 11).

Se queste premesse sono esatte, il patronato, inerendo a una chiesa di proprietà privata, non può che essere reale, come la dottrina canonistica insegna, e per sua intrinseca natura è inseparabilmente congiunto ai beni, cui è annesso, nel senso che non può essere distratto da quei beni senza un espresso consenso dell’autorità ecclesiastica e si trasferisce dall’uno all’altro possessore dei beni, senza il consenso dell’autorità ecclesiastica e purché il possessore sia capace. La scienza canonica definisce infatti il patronato personale e reale in questi termini: “Personale est quod competit personae patroni independenter a re aliqua, vel loco, ubicumque existat; reale est quod est annexum alicui certae rei vel loco, v.g. castro, proedio, pago et huiusmodi et cum eo transit ad quemlibet, etiam non haeredem, qui rem talem emptione, v.gr. vel donatione acquirit”.

Questi principi agevolano la lettura e l’inquadramento giuridico dell’art. 19 del rogito Alberti del 1938, riportato testualmente in precedenza.

La formulazione complessiva della clausola e la posizione dei contraenti (eredi Franchetti e S.A.I.C.A.) rispetto al rapporto di patronato inducono ad attribuire all’art. 19 del rogito un contenuto non negoziale. La clausola non contiene un regolamento di interessi, ma assolve alla diversa funzione di portare formalmente a conoscenza dell’acquirente, ufficializzando la relativa presa d’atto, il coacervo di obblighi, prevalentemente di natura patrimoniale, che l’esistente patronato ecclesiastico di titolo antico a favore e a carico del latifondo di Canedole comportava per il possessore del compendio immobiliare. Né avrebbe potuto essere diversamente, non potendo venire sostituita ex uno latere la fonte precettiva del rapporto di patronato, che, trasmesso con l’alienazione del fondo, continuava ad essere quello risultante dal rogito Pescatori del 1784. Anche la suddivisione per quota millesimale delle prestazioni pecuniarie e l’indicazione della misura del concorso per l’acquirente, contenute nell’art. 19, in dipendenza della vendita parziale della Tenuta di Canedole, costituiscono un mero calcolo con valenza relativa ai soggetti autori dello stesso.

Non si rinviene alcun elemento risolutivo, formale e sostanziale, nel testo in esame, che consenta di inscrivere le proposizioni dell’art. 19 del rogito Alberti del 1938 nello schema giuridico di un negozio misto di accertamento, come i primi giudici hanno ritenuto, utilizzando poi il ravvisato segmento additivo per rigettare l’eccezione di mancanza di legittimazione attiva del vicario economo, considerato dal tribunale un “creditore effettivo” aggiunto, e il segmento ricognitivo per decidere sulle domande di causa alla stregua delle norme canoniche, applicate nella parte relativa al trasferimento, alla non sospensione e alla non estinzione del giuspatronato.

L’art. 19 del rogito Alberti del 1938 non contiene dunque un negozio di accertamento a favore di terzi. Vengono pertanto meno alcune conseguenze, che il tribunale ha tratto dall’inquadramento giuridico della clausola da lui divisato (in particolare, sul punto della legittimazione attiva di Don Pegorini a pretendere il versamento dell’assegno di congrua e il compenso per le messe). Resta tuttavia ferma la ratio decidendi della sentenza impugnata, che i primi giudici hanno espresso, dicendosi “… dell’avviso che anche le parti della compravendita 11.5.38 abbiano inteso conservare il giuspatronato di remota origine…” (v. sentenza p. 14), e che hanno confermato, nonostante alcune caute prospettazioni (“… pur se eventualmente…”: v. ivi, p. 14), per un verso, escludendo la novazione del rapporto (v. ivi, pag. 12) e, quindi, la base contrattuale degli obblighi in esame e, per altro verso, applicando le norme canoniche quali regole disciplinanti le pretese fatte valere.

4) Con altro complesso motivo di gravame la S.A.I.C.A. si duole del rigetto della eccezione di mancanza di legittimazione dell’attore e denuncia la violazione dei can. da 87 a 98 del Codex juris canonici del 1917, in quanto il tribunale non avrebbe tenuto presente che le norme canoniche non riconoscono le società commerciali e indicano, tra i requisiti del patrono, la qualità di cattolico, che non può essere attribuito ad essa deducente. Sostiene che, al di là delle conseguenze sospensive o perentive derivanti dalla mancanza dei requisiti soggettivi, non si può chiedere l’adempimento di un onere a chi non possa esercitare il corrispondente diritto potestativo.

Le censure non possono essere accolte.

4.1. – Questione di legittimazione.

Nel coacervo di onera seu officia del patrono, indicati dal can. 1469, rientra il dovere di esercitare una sorveglianza sulla amministrazione dei beni beneficiali, riferendo all’ordinario nel caso di cattiva amministrazione (§ 1 punto I).

La posizione istituzionale dell’ordinario (l’infedeltà o l’incapacità dell’amministratore è denunciata all’autorità ecclesiastica gerarchicamente superiore); la regola canonica, secondo cui titolare del diritto ai frutti del patrimonio beneficiario è l’ufficiale ecclesiastico al cui mantenimento il beneficio è destinato (can. 1409); la possibilità che la dotazione del beneficio sia costituita da redditi non temporanei (can. 1410) e la natura sostanzialmente alimentare delle prestazioni di natura patrimoniale reclamate nella causa n. 629/77 R.G. (assegno di congrua e compenso per le messe); la mancanza di referenti normativi, in base ai quali ritenere che l’esazione dei frutti di spettanza del beneficiato non competa al medesimo, ma all’ordinario, con obbligo di successivo versamento al creditore, e che la potestà di amministrazione del patrimonio autonomo sia disgiunta dalla rappresentanza processuale dell’ufficio beneficiale; tutti questi elementi non si conciliano con la tesi sostenuta dall’appellante e convincono della infondatezza della eccezione di mancanza di legittimazione attiva di Don Pegorini, quale vicario economo della parrocchia sotto patronato, a far accertare davanti alla autorità giudiziaria civile, competente a conoscere e a risolvere le controversie riguardanti l’esercizio e le modalità del giuspatronato, le prestazioni di natura patrimoniale costituenti lo jus onerosum.

Il rigetto della eccezione, censurato con specifico motivo di gravame (v. atti di appello pag. 10), deve pertanto essere mantenuto fermo, anche se con diversa motivazione rispetto a quella del tribunale.

Nelle conclusioni prese nella presente sede il difetto di legittimazione attiva è riferito a una parte plurisoggettiva (“… attori…”). Le regole procedimentali stabilite dall’art. 394 c.p.c. comportano che il giudice del rinvio, sostituendosi al giudice dell’appello, provveda a decidere l’eccezione originariamente sollevata dalla S.A.I.C.A. e disattesa in prima istanza, se cioè competesse all’ordinario diocesano e non già al vicario economo promuovere l’azione di accertamento e di quantificazione de qua.

Deceduto il 13 maggio 1987, durante il giudizio di legittimità, il titolare dell’ufficio, Don Dino Pegorini, attore anche in proprio (legittimazione non controversa), la causa è stata e non poteva che essere riassunta in sede di rinvio dagli eredi della persona fisica e dai successori ex lege nei diritti controversi secondo la nuova disciplina concordataria (legge 25 marzo 1985 n. 121) e la legge 20 maggio 1985 n. 222, recante disposizioni sugli enti e beni ecclesiastici in Italia e per il sostentamento del clero cattolico in servizio nelle diocesi.

4.2. – Titolarità del patronato ecclesiastico.

Il diritto di presentazione può competere sia a persone fisiche che giuridiche e, tra le seconde, a persone giuridiche sia ecclesiastiche, che laicali. Il principio è costantemente affermato dalla dottrina e giurisprudenza canonistica, per cui la limitazione di ordine soggettivo ad essere titolari del diritto di patronato, eccepita dalla S.A.I.C.A., non è ravvisabile. La qualità di fedele riguarda la persona investita della legale rappresentanza dell’ente.

L’assunto secondo cui il C.J.C. “… non riconosce alla società commerciale dignità nel proprio ordinamento…” è, per un verso, indimostrato e costituisce, per altro verso, un argomento non pertinente.

L’esistenza giuridica di un ente deve essere affermata o esclusa secondo l’ordinamento di appartenenza dell’ente medesimo. Se per questo ordinamento costituisce un centro autonomo di imputazione di interessi e di rapporti, con riconoscimento o meno della personalità giuridica, l’ente ha soggettività sufficiente per le relazioni interpersonali con i terzi, appartengano questi allo stesso o ad altro ordinamento. Pertanto, se anche fosse vera la premessa maggiore del sillogismo della S.A.I.C.A. (le società commerciali non sono istituti previsti e regolati dal C.J.C.), non per questo sarebbe corretta la conclusione finale, dovendo l’esistenza di un ente essere valutata secondo il suo ordinamento.

La natura commerciale delle società non dipende dal tipo sociale, ma dall’attività esercitata in base all’oggetto sociale. La S.A.I.C.A. non ha dimostrato di essere stata costituita nel 1937, vigente il codice di commercio (v. procura speciale allegato A del rogito Alberti del 1938), per l’esercizio di una attività diversa da quella agricola, rivelata dalla stessa denominazione sociale e dall’acquisto di estesa porzione del latifondo (oltre 494 ettari) con subingresso nei rapporti aziendali; era una società semplice al tempo della costituzione in giudizio (v. comparsa di risposta 27 giugno 1977 pag. 1 riga 10), con le conseguenze di cui all’art. 2249 c.c.; ha mutato il tipo sociale in corso di causa, divenendo dapprima s.p.a. ed ora s.a.s. (v. comparsa di costituzione del 2 ottobre 1991), senza provare un corrispondente mutamento dell’oggetto sociale rispetto a quello proprio della società semplice.

5) La S.A.I.C.A. censura ancora la sentenza nella parte in cui ha ritenuto che il rappresentante del beneficio possa agire contro il patrono per ottenere l’adempimento dei suoi obblighi. Rileva che il tribunale, per sottrarsi alla disciplina del diritto canonico, da lui stesso ritenuta applicabile, ha addotto l’inesistenza di un inadempimento che giustifichi l’applicazione delle sanzioni disposte dal Codex juris canonici, lasciate alla disponibilità dell’ordinario diocesano.

Il motivo di gravame può essere accolto per quanto di ragione.

Il can. 1469 del C.J.C. del 1917, applicabile nella specie, venendo in esame l’inadempimento delle prestazioni di natura patrimoniale relativamente agli anni dal 1973 al 1976, stabilisce:

“…§ 2. – Si ecclesia collapsa fuerit vel necessariis indigeat reparationibus, aut si reditus defecerint ad normam § 1 n. 2, 3, ius patronatus interim quiescit.

… § 3. – Si patronus, intra tempus ab Ordinario sub poena cessationis patronatus praefiniendum, ecclesiam denuo aedificaverit vel restauraverit aut reditus auxerit, ius patronatus revigescit; secus ipso jure et sine ulla declarationis cessat”.

La sentenza della Suprema Corte del 30 giugno 1934 n. 2379 e i commentatori del canone hanno chiarito che l’obbligo, che incombe al patrono, è condizionale, non assoluto, e che, in costanza di inadempimento, il giuspatronato è quiescente. Il diritto di patronato si estingue ipso jure ed ex tunc nel caso di permanenza dell’inadempimento, trascorso inutilmente il termine perentorio entro il quale l’ordinario abbia ingiunto al patrono di provvedere.

5.1. – L’inadempimento dedotto nella causa n. 629/77 R.G. riguarda le prestazioni pecuniarie periodiche dell’assegno di congrua del compenso per le messe.

Il canone 1469 non parla testualmente al § 1 di questi oneri; considera le ipotesi specifiche del collapsus ecclesiae e del defectus reditus, dalla prima delle quali sorge a carico del patrono ex titulo aedificationis l’onere della ricostruzione o riparazione, mentre dal giorno della mancanza dei redditi incombe al patrono ex titulo dotationis l’obbligo di provvedere ad un supplemento di dote. Come insegna la dottrina canonica, il patronato trova di regola la sua origine nella dotatione o provvista di una dote sufficiente per il mantenimento dell’ufficio ecclesiastico, o nella aedificatione o costruzione della chiesa, o nella fundatione o concessione di un fondo: “Patronum faciunt dos, aedificatio, fundus”. Questa tipologia non è appunto estranea alla norma canonica nella parte in cui, indicando gli oneri del patrono, pone a carico del medesimo l’obbligo della riedificazione, riparazione o ridotazione della chiesa patronata e lo pone in condizione di provvedere all’adempimento dell’onere relativo, stabilendo che, nel caso di collapsus ecclesiae e di defectus reditus, il diritto di patronato deve considerarsi quiescente, anziché immediatamente estinto (come propriamente comporterebbe il venir meno della causa patronatus).

Il giuspatronato a favore del latifondo di Canedole è in apparenza ratione constructionis e, in forma del tutto particolare, ratione dotis, in quanto l’elemento della provvista di una dote è stato sostituito da quello della erogazione periodica di somme di denaro (assegno di congrua e compenso per le messe). La disciplina del can. 1469 § 2 e § 3 C.J.C. del 1917 sembrerebbe non attagliarsi, perché il dovere di assicurare nuovi redditi all’ufficio ecclesiastico è concettualmente diverso da quello di effettuare le erogazioni periodiche.

L’una e l’altra situazione hanno tuttavia un elemento in comune, il venire meno della causa patronatus, rispettivamente per mancanza dei redditi certi. Se così è, anche le conseguenze non possono essere diverse. Dal giorno dell’inadempimento (gennaio 1973) il diritto di patronato ha cessato di essere attuale per divenire quiescente.

Non rileva che i co-patroni (cioè gli acquirenti di altre porzioni del latifondo di Canedole) possano avere eseguito le prestazioni pecuniarie periodiche pro-quota, come si adombra, perché il dovere di provvista è unitario e in ogni caso l’adempimento dei coobbligati non fa venire meno l’inadempimento radicale della S.A.I.C.A. per la quota di spettanza (calcolata nel rogito Alberti del 1938 ex uno latere, costituisce nella relativa quantificazione un punto della decisione di primo grado non investito da motivo specifico di gravame).

Pacificamente l’intimazione dell’ordinario diocesano non è intervenuta. Non si può ritenere non necessaria la fissazione del termine sotto il profilo che la S.A.I.C.A., in riferimento all’obbligo di riedificazione, ha versato la somma di lire 3.000.000 in data 1 febbraio 1974 (v. quietanza prodotta alla udienza dell’11 luglio 1984), perché l’obbligo non adempiuto è quello diverso delle prestazioni pecuniarie periodiche e soggetto autonomamente al procedimento stabilito dall’art. 1469 § 3 C.J.C.

5.2. – La natura condizionale, non assoluta, dell’obbligo del patronato non consente di chiedere l’esecuzione coattiva e in forma specifica delle prestazioni patrimoniali accessorie reclamate da Don Dino Pegorini (assegno di congrua e compenso per le messe) durante la quiescenza del rapporto, come nella specie.

Unica sanzione è la decadenza dal diritto di patronato con la conseguente sua estinzione, secondo la sequenza procedimentale prevista dal can. 1469 § 3 C.J.C. e giusta la lettura della norma canonica operata dalla Suprema Corte, che ha enunciato con la sentenza n. 2379 del 1934 il principio, condiviso anche dalla dottrina e applicabile in concreto, della incoercibilità per via giudiziaria degli onera patronorum.

5.3. – La condanna in forma specifica non può essere pronunciata in base ad altra “causa debendi”, quale la prescrizione acquisitiva in virtú dell’art. 5 legge n. 1636 del 1864.

Tale causa costituisce un titolo non dedotto dall’attore a fondamento delle pretese (l’alternativa fatta valere è tra “titolo antico” e “assunzione convenzionale”). Il tribunale, pur accennando all’istituto della prescrizione acquisitiva (v. sentenza pag. 16), non ne ha fatto il motivo della decisione, avendo accolto le domande in base ad altra antitetica ratio decidendi (esistenza di titolo, costituito da giuspatronato di remota origine in concorso con negozio di accertamento a favore di terzi).

Le argomentazioni svolte dalla S.A.I.C.A. circa l’ambito di applicazione della legge n. 1636 del 1864 (v. atto di appello pag. 12), in critica del pensiero espresso dal tribunale sul punto, essendo ultronee, non possono avere comportato la formazione di giudicato interno sull’appartenenza alla lite anche di un terzo titolo di acquisto, non dedotto dalla parte, perché, come si è rilevato, il tribunale non ha fatto della prescrizione acquisitiva il motivo della decisione.

5.4. – In accoglimento dell’appello della S.A.I.C.A., la sentenza di primo grado deve pertanto essere riformata nella parte relativa alle statuizioni contenute nei capi b) e c) del dispositivo, dovendo l’azione e le correlative domande di condanna al pagamento di somme di denaro essere dichiarate inammissibili (in questi termini si è espressa la Suprema Corte nella sentenza del 1934).

6) I restanti motivi di impugnazione (in punto adeguamento monetario del credito e risarcimento del maggior danno) restano assorbiti. La quantificazione a valori correnti ha ragione d’essere in presenza di intimazione e di versamenti (per poter affermare o escludere l’esatto adempimento e, quindi, l’estinzione del diritto di patronato per inutile decorso del termine).

7) Con altro complesso motivo di gravame, proposto in riferimento alla decisione della causa n. 630/77 R.G. (Omissis) la S.A.I.C.A. e gli eredi Pasetto si dolgono dell’accoglimento della domanda di rimborso della somma di lire 2.500.290 in restituzione degli interessi corrisposti da Don Pegorini sul finanziamento a lui concesso da una banca per i lavori di ricostruzione della canonica. (Omissis).

Le censure sono in parte fondate.

(omissis)

L’obbligo gravante sulla S.A.I.C.A. era tuttavia condizionale, non assoluto, come concisamente eccepito (v. atto di appello, pag. 13 righe 23-24), non differendo per regime giuridico dagli altri obblighi di natura patrimoniale, che sono tipici del rapporto di patronato (v. punto 5.2). La circostanza che l’intervento di manutenzione straordinaria riguardasse la canonica e non la chiesa è del tutto irrilevante. Le spese per le riparazioni straordinarie della canonica sono poste dal can. 1477 C.J.C. a carico di coloro, a cui incombe l’obbligo della conservazione della chiesa e, questo, è un dovere primario del patrono ex costructione. Inoltre, nel caso concreto, le prestazioni del patrono comprendono espressamente la manutenzione (ordinaria e straordinaria) della canonica, secondo le indicazioni contenute nel rogito Alberti del 1938 (v. art. 19). L’obbligo è pertanto soggetto al principio secondo cui, nel vigente ordinamento e in dipendenza del can. 1469 § 2 e § 3 C.J.C., non è prevista altra sanzione, per l’inadempimento, diversa dalla intimazione a eseguire la prestazione, essendo esclusa in ogni caso la possibilità di condanna in forma specifica o per rimborso (v. Cass. 30 giugno 1934 n. 2379).

L’inadempimento del patrono non viene meno nel caso di parziale riduzione delle spese, come verificatosi in concreto (restituzione del capitale effettuata dalla S.A.I.C.A. a Don Pegorini: v. quietanza 1 febbraio 1974), perché il patrono, qualora ritenga spontaneamente di avvalersi dell’attività altrui di supplenza, se ne deve giovare per intero, per non incorrere in inadempimento, senza alcuna possibilità di distinguere tra i vari costi finanziari dell’operazione sostitutiva. La differenza ravvisata dal tribunale tra capitale e accessori, nel caso di parziale rimborso delle spese anticipate dal beneficiario, non ha alcuna giustificazione logica e giuridica sotto il profilo della ravvisabilità o meno della situazione di inadempimento.

7.3. – Poiché le espressioni usate da Sante Pasetto nel colloquio con il responsabile dell’agenzia bancaria, presente Don Pegorini, non si prestano ad essere lette come riconoscimento di debito, da parte del Pasetto, non essendo personalmente “… tenuto a eseguire i lavori di manutenzione degli edifici parrocchiali…”, oppure in termini di espromissione, cioè di assunzione, da parte del Pasetto, del debito del patrono o del debito contratto da Don Pegorini, la domanda di rimborso proposta contro gli eredi Pasetto non può essere accolta. (Omissis)

8) L’accoglimento del gravame assorbe i restanti motivi di impugnazione della decisione de qua (debenza degli interessi legali sugli accessori portati a capitale e debenza del risarcimento del maggior danno).

9) La qualità delle parti, la natura della controversia, la complessità delle questioni e, per quanto di ragione, la reciproca soccombenza (la pronuncia di accertamento, capo a- del dispositivo, resta ferma) consigliano di compensare per intero tra attori e convenuti le spese del giudizio di primo e secondo grado e quelle della presente fase di rinvio.

P.Q.M.

la Corte, definitivamente decidendo in sede di rinvio, così provvede: 1) in parziale riforma della sentenza del Tribunale di Mantova del 30 maggio 1981, dichiara inammissibili la domanda di condanna al pagamento dell’assegno di congrua e del compenso per le messe e la domanda di rimborso delle spese di manutenzione straordinaria della canonica, proposte con atti di citazione del 16 aprile 1977 nei confronti della S.A.I.C.A. – Società Anonima Immobiliare Canedole Agricola, società semplice, ora società in accomandita semplice; 2) rigetta la domanda di rimborso delle spese di manutenzione straordinaria della canonica, proposta con atto di citazione del 16 aprile 1977 nei confronti di Ferdinando Pasetto, Giovanni Andrea Pasetto, Regina Dina Pasetto ed Enrichetta Favalli ved. Pasetto, quali eredi di Sante Pasetto; 3) dichiara compensate per intero tra le parti le spese del giudizio di merito.