Osservatorio delle libertà ed istituzioni religiose

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Osservatorio delle Libertà ed Istituzioni Religiose

Documenti • 23 Febbraio 2004

Sentenza 12 maggio 1993, n.5418

Cassazione Civile. Sezione Terza. Sentenza 12 maggio 1993, n. 5418.

(Meriggiola; Nicastro)

Svolgimento del processo

Con citazione notificata il 10 ed il 14 marzo 1979, D’Amen Duilio esponeva di aver acquistato dalla Mensa Arcivescovile di Fermo, per sé o per persona da nominare, tre terreni con case coloniche ubicati nel comune di Corridonia, con immediata acquisizione del possesso e del godimento, con scrittura privata del 27 dicembre 1978, nella quale era precisato che egli era a conoscenza che gli stessi erano concessi a mezzadria a Serafini Dario, Monteverde Enzo e Martinelli Erminio, cui competeva il diritto di prelazione, e che l’alienazione era condizionata all’approvazione delle autorità tutorie, ecclesiastiche e civili. Il diritto di prelazione era, in realtà, secondo l’esponente, insussistente, trattandosi di terreni compresi nel programma di fabbricazione comunale, con destinazione edificatoria per oltre la metà della loro superficie, sicché la dichiarazione di volersene avvalere, fatta successivamente dal Monteverde e dalla moglie Spreca Lina, nonché dal Martinelli, era nulla o, comunque, inefficace.

Ciò premesso, l’attore conveniva in giudizio, dinanzi al Tribunale di Fermo, la locale Mensa Arcivescovile, il Monteverde, la di lui moglie Spreca Lina ed il Martinelli, chiedendo: a) dichiararsi trasferita la proprietà degli immobili o, comunque, tenuta la Mensa a trasferirli, sotto la condizione dell’approvazione dell’autorità tutoria; b) darsi atto ch’egli era pronto a corrispondere il prezzo concordato, con i relativi interessi convenzionali, dichiarandosi che questi non sarebbero dovuti ove il possesso non fosse stato trasferito dal 1º gennaio 1979; c) dichiararsi la autenticità delle sottoscrizioni apposte dai contraenti alla citata scrittura, ordinandosi al competente Conservatore dei registri immobiliari la trascrizione della stessa e della sentenza, e le relative volture catastali; d) dichiararsi nulle o, comunque, inefficaci le dichiarazioni di esercizio dei diritti di prelazione; e) dichiararsi il suo diritto al possesso degli immobili a decorrere dal 1º gennaio 1979 e tenuta la Mensa a trasferirglielo.

Costituendosi in giudizio, la Mensa Arcivescovile non avanzava alcuna contestazione in ordine alla domanda per la parte che la riguardava, chiedendo che il Tribunale decidesse secondo giustizia, anche ai fini delle spese.

Si costituivano anche il Monteverde, la Spreca ed il Martinelli, sollevando varie eccezioni.

Con sentenza 19 giugno-10 luglio 1991, il Tribunale così provvedeva: a) dichiarava la propria competenza per territorio; b) dichiarava l’autenticità delle sottoscrizioni apposte alla scrittura privata del 27 dicembre 1978, qualificando l’atto come contratto definitivo di compravendita ed ordinandone la trascrizione; c) dichiarava il diritto del D’Amen a conseguire il possesso degli immobili; d) dichiarava inefficace, per intervenuta decadenza, l’esercizio della prelazione da parte del Monteverde, della Spreca e del Martinelli, ed i trasferimenti attuati in loro favore; e) compensava le spese tra il D’Amen e la Mensa Arcivescovile, mentre condannava gli altri convenuti al rimborso in favore dell’attore.

La sentenza veniva impugnata esclusivamente dal Monteverde, dalla Spreca e dal Martinelli.

Il D’Amen, costituitosi in giudizio, si limitava a contestare il gravame, chiedendo la concessione della clausola di provvisoria esecuzione.

Depositava comparsa di risposta anche la Mensa, dando atto che la somma di L. 70.000.000, versata dal Martinelli il 2 febbraio 1979, era stata depositata su un libretto aperto presso la Cassa di Risparmio, sostenendo, peraltro, che le questioni sollevate coinvolgevano unicamente gli aventi diritto alla prelazione e l’acquirente. La mensa aggiungeva che, comunque, l’atto del 27 dicembre 1978 non era “operante”, non essendo ancora intervenuta l’approvazione dell’autorità tutoria, chiedendo che la Corte decidesse “secondo di ragione e per legge”.

Rimessi gli atti al Collegio, la Corte di Appello di Ancona, con ordinanza del 24 settembre 1985, disponeva l’acquisizione degli eventuali provvedimenti autorizzativi.

Con atto del 28 febbraio 1986, il D’Amen, conveniva in riassunzione l’Istituto Diocesano per il Sostentamento del Clero, istituito nella diocesi di Fermo a norma dell’art. 21 della legge 20 maggio 1985, n. 222, con la conseguente estinzione della Mensa Arcivescovile, alla quale lo stesso era succeduto in tutti i rapporti attivi e passivi.

L’Istituto si costituiva formulando deduzioni sostanzialmente identiche a quelle della Mensa Arcivescovile, e concludendo ugualmente perché la Corte decidesse “come di ragione e per legge, anche ai fini delle spese”.

Con sentenza 4 ottobre 1988-24 febbraio 1989, la Corte d’Appello respingeva i gravami proposti dal Monteverde, dalla Spreca e dal Martinelli, compensando, peraltro, fra le parti le spese di entrambi i gradi di giudizio.

Avverso la sentenza ha proposto ricorso principale il D’Amen e ricorso incidentale l’Istituto Diocesano per il Sostentamento del Clero dell’Arcidiocesi di Fermo.

Entrambi hanno depositato memoria.

Motivi della decisione

1. – I ricorsi, principale (n. 12.912/89) ed incidentale (n. 561/90), debbono essere, preliminarmente, riuniti.

2. – Il ricorrente principale avanza due motivi di censura, tra loro strettamente connessi.

Col primo motivo deduce la violazione dell’art. 30 del Concordato tra lo Stato Italiano e la Santa Sede, dell’11 febbraio 1929, e delle norme sulla rilevanza nell’ordinamento italiano dei controlli canonici sugli atti degli enti ecclesiastici, nonché omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione su un punto decisivo della controversia.

La motivazione della sentenza impugnata non avrebbe chiarito se la condizione sospensiva del conseguimento dell’autorizzazione ecclesiastica apposta al contratto costituisse una condicio facti ovvero una condicio iuris, né avrebbe in alcun modo motivato sotto il primo profilo. Sottolinea che, comunque, l’autorizzazione tutoria era stata sempre considerata condizione di validità e non di efficacia degli atti di straordinaria amministrazione, di tal ché la sua mancanza determinerebbe la semplice annullabilità, che poteva essere fatta valere esclusivamente dalla stessa Mensa Arcivescovile ed entro il termine di prescrizione di cinque anni, di cui all’art. 1442 c.c. Il contratto, non impugnato in quel termine né dalla Mensa, né dall’Istituto per il Sostentamento del Clero, che le era succeduto, aveva acquistato ormai piena efficacia, essendo venuti meno, medio tempore, i controlli statuali.

Sotto tale profilo vi sarebbe una omessa pronuncia – in particolare in ordine alle conclusioni formulate all’udienza del 10 febbraio 1987 -, con violazione dell’art. 112 c.p.c.

Il problema dell’efficacia della scrittura privata 27 dicembre 1978 forma oggetto anche del ricorso incidentale. Con lo stesso l’Istituto per il Sostentamento del Clero, mentre contesta l’ammissibilità del ricorso della controparte, lamenta la violazione degli artt. 1353 e 1362 c.c., dell’art. 7 dell’accordo di revisione del Concordato Lateranense ratificato con legge 20 maggio 1985, n. 222, e del suo stesso Statuto, approvato con D.M. 20 dicembre 1985, per la parte in cui la Corte di merito aveva affermato che la mancanza dell’autorizzazione ecclesiastica non precluderebbe l’acertamento del trasferimento della proprietà in favore del D’Amen, sia pure sottoposto alla condizione sospensiva del rilascio della stessa, disattendendo la propria richiesta di accertamento in ordine alla non operatività del contratto, per essere la sua efficacia subordinata ad una condizione sospensiva non ancora verificatasi.

3. – Entrambi i ricorsi sono inammissibili.

É noto che l’art. 30 del Concordato tra la Santa Sede e l’Italia, sottoscritto l’11 febbraio 1929, ha escluso ogni intervento dello Stato italiano nella gestione ordinaria e straordinaria dei beni appartenenti a qualsiasi istituto ecclesiastico od associazione religiosa (salve le autorizzazioni per gli acquisti dei corpi morali), riconoscendo che la stessa doveva aver luogo esclusivamente “sotto la vigilanza ed il controllo delle competenti autorità della Chiesa” (comma 1).

Tali controlli si estrinsecavano e si estrinsecano, fra l’altro, a norma degli artt. 1530 ss. c.j.c. del 1917 (ed ora degli artt. 1291 ss. c.j.c. 1983), attraverso la necessità dell’autorizzazione del competente superiore per gli atti eccedenti l’ordinaria amministrazione (la Santa Sede per le alienazioni di cose “preziose” o di grande valore economico, di immagini o reliquie insigni, ecc.; l’ordinario locale per le altre alienazioni), autorizzazione – o licentia – richiesta ad valide alienanda.

Questa Corte ha avuto quindi modo di chiarire che, per effetto dell’art. 30 del Concordato, “va riconosciuta efficacia in Italia ai controlli esercitati secondo le norme canoniche, le quali acquistano forza di legge nell’ordinamento italiano, in virtú del rinvio formale (Cass. 7 novembre 1969, n. 3643, Cass. 25 novembre 1970, n. 2512), precisando, tuttavia, che la mancanza della licentia può essere dedotta soltanto dall’ente ecclesiastico, nel cui interesse il controllo avrebbe dovuto essere svolto, e non anche dall’altro contraente (Cass. 6 agosto 1983, n. 5287)”.

L’art. 30 del Concordato del 1929 manteneva, peraltro, il controllo dello Stato sui patrimoni beneficiati, limitatamente agli atti ed ai contratti eccedenti la semplice amministrazione (comma 3), tranne che per le mense vescovili delle diocesi suburbicarie e per i patrimoni dei capitoli e delle parrocchie delle stesse e di Roma (comma 4), controlli da esercitarsi secondo le disposizioni degli artt. 12 e 13 della legge 27 maggio 1929, n. 848, e 23 ss. del Regolamento approvato con R.D. 2 dicembre 1929, n. 2262.

Con le modifiche apportate al Concordato mediante l’accordo firmato a Roma il 18 febbraio 1984, e per effetto dell’art. 7.5 della legge di ratifica ed esecuzione 25 marzo 1985, n. 121, essendo venuti meno i supplementi di congrua, è stata soppressa ogni ingerenza dello Stato nell’amministrazione dei beni appartenenti agli enti ecclesiastici, soggetta ormai esclusivamente ai controlli previsti dal diritto canonico, salva l’applicazione delle leggi statali italiane relative agli acquisti delle persone giuridiche (cfr. anche art. 17 delle norme approvate dalla Commissione paritetica, ratificate con legge 20 maggio 1985, n. 206).

Le nuove norme sui controlli (rectius, sull’abolizione dei controlli statuali), quale ius superveniens, sono indubbiamente applicabili ai contratti in corso, a meno che non sia diversamente stabilito da particolari disposizioni transitorie, come, del resto, ha già riconosciuto la stessa sentenza impugnata (p. 47).

La pronuncia espressa in conseguenza dell’applicazione delle nuove norme entrate in vigore nel corso del giudizio presuppone, peraltro, che la fattispecie cui le stesse si riferiscono sia ancora sub iudice, che, cioè, sulla questione non si sia già formato il giudicato tra le parti. Sotto altro profilo, e nel giudizio di appello, occorre, cioè, che la parte legittimata abbia riproposto, secondo i casi con appello principale od incidentale, ovvero, per quella integralmente vittoriosa in primo grado, attraverso la riproposizione delle tesi non accolte o non esaminate (in quanto assorbite) dal giudice di prima istanza, le questioni in ordine alle quali è intervenuto lo ius superveniens e da risolvere attraverso la sua applicazione.

Come questa Corte ha avuto modo di chiarire ripetutamente, inoltre, l’ambito del giudicato si determina non soltanto con riferimento all’oggetto della controversia ed alle ragioni fatte valere dalle parti (giudicato esplicito), ma anche con riguardo agli accertamenti che sono necessariamente ed inscindibilmente collegati alla decisione, di cui costituiscono i presupposti (Cass. 16 febbraio 1984, n. 2329; Cass. 26 marzo 1985, n. 2165; Cass. 19 luglio 1985, n 4276; Cass. 13 febbraio 1988, n. 1564; Cass. 22 novembre 1990, n. 11.277, ecc.).

Nella specie, come si evince anche dalla esposizione in fatto, la sentenza pronunciata dal Tribunale è stata impugnata esclusivamente dal Monteverde, dalla Spreca e dal Martinelli e gli appelli hanno avuto ad oggetto esclusivamente – secondo lo specifico interesse degli appellanti – la natura del terreno, nonché la validità e l’efficacia dell’esercizio del diritto di prelazione da parte degli appellanti.

Solo con le conclusioni formulate all’udienza del 10 febbraio 1987 il D’Amen ha chiesto darsi “atto che, in forza delle nuove disposizioni in materia di beni ecclesiastici, non è più richiesta per il contratto di cui è causa l’approvazione dell’Autorità Tutoria”, mentre negli scritti successivi ha avanzato ulteriormente anche la tesi della prescrizione del diritto a far valere l’annullabilità del contratto per la mancanza della licentia dell’autorità ecclesiastica, laddove con la comparsa di risposta, e con lo stesso “atto di citazione in riassunzione”, del 25 febbraio 1986, si era limitato a richiedere la reiezione dell’appello principale e la dichiarazione di nullità ed inefficacia dell’esercizio del diritto di prelazione, per la sua inesistenza ab origine o per decadenza dei titolari.

Non è inutile rilevare, in proposito, che gli (unici) appellanti – il Monteverde, la Spreca ed il Martinelli – avevano bensì dedotto che un contratto inefficace, quale – secondo quanto sostenevano – quello intercorso tra il D’Amen e la Mensa Arcivescovile, non poteva fare scattare la prelazione (cfr. sentenza impugnata, pp. 37 ss.), ma la deduzione, anche perché proveniente da soggetto non legittimato a farne valere l’eventuale annullabilità, consentiva un accertamento incidenter tantum, cui la Corte di merito non si è sottratta, né riapriva i termini della controversia tra le parti del contratto, sia pure entro i limiti dei controlli statuali, cui si riferiscono le citate conclusioni.

Ad analoghe conclusioni devesi pervenire per il ricorso incidentale dell’Istituto per il Sostentamento del Clero.

Diversamente dalla tesi espressa, nessuna impugnazione circa l’efficacia del contratto – fosse la stessa fondata o meno, al limitato fine dell’accertamento delle sottoscrizioni e della sua trascrivibilità – ha avanzato la Mensa Vescovile (nella cui posizione è succeduto l’Istituto, formulando, nella comparsa di costituzione e risposta, analoghe conclusioni).

Tanto la Mensa che l’Istituto si sono limitate, infatti, ad esporre le proprie tesi circa l’”operatività” del contratto, senza, peraltro richiedere, sotto qualsiasi profilo, la riforma della sentenza, affermando anzi che, “siccome semplice venditrice, (la prima) avrebbe anche non potuto essere evocata nel giudizio in quanto, nella dedotta materia, ogni questione va risolta unicamente tra l’avente diritto alla prelazione o al riscatto e l’acquirente dell’immobile”, e concludendo perché la Corte decidesse “come di ragione e per legge”, così confermando il proprio sostanziale disinteresse.

Non occorre qui ricordare che l’appello, oltre ai motivi specifici, deve contenere “le indicazioni prescritte nell’art. 163” (art. 342 c.p.c.), fra cui le conclusioni conseguenti alla esposizione dei fatti e degli elementi di diritto costituenti le ragioni della domanda, mentre nessuna conclusione, in ordine alla efficacia del contratto, è stata sottoposta al vaglio dei giudici di appello.

Dovendosi dichiarare inammissibili entrambi i ricorsi, possono essere compensate tra le parti le spese del giudizio di cassazione.

(omissis)