Osservatorio delle libertà ed istituzioni religiose

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Osservatorio delle Libertà ed Istituzioni Religiose

Documenti • 19 Settembre 2003

Sentenza 10 novembre 1997, n.329

Corte Costituzionale. Sentenza 10 novembre 1997, n. 329.

(Granata; Zagrebelsky)

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori:

– Dott. Renato GRANATA Presidente
– Prof. Giuliano VASSALLI Giudice
– Prof. Francesco GUIZZI "
– Prof. Cesare MIRABELLI "
– Prof. Fernando SANTOSUOSSO "
– Avv. Massimo VARI "
– Dott. Cesare RUPERTO "
– Dott. Riccardo CHIEPPA "
– Prof. Gustavo ZAGREBELSKY "
– Prof. Valerio ONIDA "
– Prof. Carlo MEZZANOTTE "
– Avv. Fernanda CONTRI "
– Prof. Guido NEPPI MODONA "
– Prof. Piero Alberto CAPOTOSTI "

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 404 del codice penale, promosso con ordinanza emessa il 6 dicembre 1995 dal Pretore di Trento, sezione distaccata di Borgo Valsugana, nel procedimento penale a carico di Luciani Carlo ed altro, iscritta al n. 529 del registro ordinanze 1996 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 25, prima serie speciale, dell’anno 1996.

Udito nella camera di consiglio del 12 marzo 1997 il Giudice relatore Gustavo Zagrebelsky.

(omissis)

Considerato in diritto

1. — Il Pretore di Trento solleva una questione costituzionale di uguaglianza in materia di religione, relativamente all'art. 404, primo comma, del codice penale che punisce con la reclusione da uno a tre anni "chiunque, in un luogo destinato al culto, o in un luogo pubblico o aperto al pubblico, offende la religione dello Stato, mediante vilipendio di cose che formino oggetto di culto, o siano consacrate al culto, o siano destinate necessariamente all'esercizio del culto", mentre l'art. 406 del codice penale stabilisce che "la pena è diminuita" qualora il medesimo fatto sia commesso contro un "culto ammesso nello Stato". Tale diversità di pena nella quale si incorre a seconda che l’offesa riguardi la "religione dello Stato" ovvero un "culto ammesso", viola, ad avviso del giudice rimettente, gli artt. 3, primo comma, e 8, primo comma, della Costituzione, i quali proclamano rispettivamente la pari dignità e l’uguaglianza di tutti i cittadini, senza distinzione di religione, e l'uguale libertà di tutte le confessioni davanti alla legge.

2. — La questione è fondata.

Le norme richiamate prevedono una diversa sanzione penale per il medesimo fatto di reato, qualora esso sia commesso contro quella che il codice penale, in mancanza di una riforma, denomina tuttora anacronisticamente (si veda il punto 1 del Protocollo addizionale dell'Accordo di modifica del Concordato lateranense, recepito con legge 25 marzo 1985, n. 121) la "religione dello Stato" – formula che, alla stregua della sentenza n. 925 del 1988 di questa Corte, deve riferirsi alla religione cattolica, in quanto già religione dello Stato – ovvero sia commesso contro un "culto ammesso nello Stato" – espressione anch'essa fuori tempo, dovendosi intendere nel senso di comprendere tutte le "confessioni religiose", diverse da quella cattolica, che rientrano nella protezione dell'art. 8 della Costituzione -.

Tale diversità è stata di volta in volta giustificata con argomenti non più idonei a consentirne il mantenimento nell’attuale ordinamento alla stregua degli invocati princìpi costituzionali.

Secondo la visione nella quale si mosse il legislatore del 1930, alla Chiesa e alla religione cattoliche era riconosciuto un valore politico, quale fattore di unità morale della nazione. Tale visione, oltre a trovare riscontro nell'espressione "religione dello Stato", stava alla base delle numerose norme che, anche al di là dei contenuti e degli obblighi concordatari, dettavano discipline di favore a tutela della religione cattolica, rispetto alla disciplina prevista per le altre confessioni religiose, ammesse nello Stato. Questa ratio differenziatrice certamente non vale più oggi, quando la Costituzione esclude che la religione possa considerarsi strumentalmente rispetto alle finalità dello Stato e viceversa (sentenze n. 334 del 1996 e n. 85 del 1963, nonché n. 203 del 1989).

La giurisprudenza di questa Corte, fin dalle sue prime decisioni, ha infatti posto a fondamento, quale oggetto di tutela penale da parte delle norme in questione, il sentimento religioso, non quale interesse dello Stato ma quale "interesse, oltre che del singolo, della collettività" (sentenza n. 125 del 1957). Nell'ambito della protezione di tale interesse collettivo, peraltro, fu riconosciuta la speciale preminenza della religione cattolica rispetto alle altre religioni e su questa base venne quindi giustificata la tutela penale della prima, rafforzata rispetto a quella offerta alle seconde, ritenendosi che da ciò non derivasse alcun limite al libero esercizio dei culti o alla condizione giuridica dei credenti (sentenza n. 125 citata). Valse allora come argomento la considerazione che la religione cattolica è, per antica e ininterrotta tradizione, quella professata dalla "quasi totalità" dei cittadini (così, ancora, la già ricordata sentenza n. 125 del 1957 e le sentenze n. 79 del 1958 e n. 14 del 1973).

Tale criterio, quale giustificazione di discipline differenziate in ordine alla protezione penale del sentimento religioso, è stato successivamente abbandonato dalla giurisprudenza di questa Corte. Nella sentenza n. 925 del 1988, in tema di reato di bestemmia, si è affermato che "il superamento della contrapposizione fra la religione cattolica, "sola religione dello Stato", e gli altri culti "ammessi", sancito dal punto 1 del Protocollo del 1984" rende "ormai inaccettabile ogni tipo di discriminazione che si" basi "soltanto sul maggiore o minore numero degli appartenenti alle varie confessioni religiose". E, da ultimo, nella sentenza n. 440 del 1995, si è precisato che "l'abbandono del criterio quantitativo significa che in materia di religione, non valendo il numero, si impone ormai la pari protezione della coscienza di ciascuna persona che si riconosce in una fede, quale che sia la confessione religiosa di appartenenza". In tal modo, la protezione del sentimento religioso è venuta ad assumere il significato di un corollario del diritto costituzionale di libertà di religione, corollario che, naturalmente, deve abbracciare allo stesso modo l'esperienza religiosa di tutti coloro che la vivono, nella sua dimensione individuale e comunitaria, indipendentemente dai diversi contenuti di fede delle diverse confessioni. Il superamento di questa soglia attraverso valutazioni e apprezzamenti legislativi differenziati e differenziatori, con conseguenze circa la diversa intensità di tutela, infatti, inciderebbe sulla pari dignità della persona e si porrebbe in contrasto col principio costituzionale della laicità o non-confessionalità dello Stato, affermato in numerose occasioni da questa Corte (sentenze n. 203 del 1989, n. 259 del 1990 e n. 195 del 1993): principio che, come si ricava dalle disposizioni che la Costituzione dedica alla materia, non significa indifferenza di fronte all'esperienza religiosa ma comporta equidistanza e imparzialità della legislazione rispetto a tutte le confessioni religiose.

L'evoluzione della giurisprudenza costituzionale rende infine improprio il riferimento, quale criterio giustificativo della differenziazione operata dalla legge, alla presumibile "maggiore ampiezza e intensità delle reazioni sociali che suscitano le offese" alla religione cattolica, criterio talora utilizzato in passato congiuntamente a quello quantitativo (sentenze n. 79 del 1958, n. 39 del 1965 e n. 14 del 1973). Il richiamo alla cosiddetta coscienza sociale, se può valere come argomento di apprezzamento delle scelte del legislatore sotto il profilo della loro ragionevolezza, è viceversa vietato là dove la Costituzione, nell'art. 3, primo comma, stabilisce espressamente il divieto di discipline differenziate in base a determinati elementi distintivi, tra i quali sta per l'appunto la religione. Tale divieto vale a dire che la protezione del sentimento religioso, quale aspetto del diritto costituzionale di libertà religiosa, non è divisibile. Ogni violazione della coscienza religiosa è sempre violazione di quel bene e di quel diritto nella loro interezza e tale dunque da riguardare tutti allo stesso modo, indipendentemente dalla confessione religiosa cui eventualmente si appartenga, cosicché non è possibile attribuire rilevanza, in vista della disciplina giuridica, all'esistenza di reazioni sociali differenziate. Diversamente ragionando, si finirebbe per rendere cedevole la garanzia costituzionale dell'uguaglianza rispetto a mutevoli e imprevedibili atteggiamenti della società. Se si considera inoltre che tanta maggior forza tali reazioni assumono quanto più grande è la loro diffusione nella società, si comprende la contraddizione insita nel subordinare a esse la garanzia dell'uguaglianza, una garanzia che, rispetto ad alcuni potenziali fattori di disuguaglianza (tra i quali la religione), concorre alla protezione delle minoranze.

E' significativo, a questo riguardo, che esplicite rivendicazioni di uguaglianza di trattamento in questa materia si trovino oggi espresse in intese stipulate dallo Stato con varie confessioni religiose minoritarie e tradotte in legge dello Stato. Vi può essere la richiesta di una generale disciplina equiparatrice (come è il caso dell'art. 1, comma 4, dell'Intesa con l'Unione delle Comunità ebraiche italiane del 27 febbraio 1989, recepito nell'art. 4 della legge 8 marzo 1989, n. 101, secondo il quale "è assicurata in sede penale la parità di tutela del sentimento religioso"), ovvero dell'eliminazione altrettanto generalizzata di ogni protezione penale speciale diretta del sentimento religioso (come è il caso, invece, dell'art. 4 dell'Intesa con la Tavola Valdese del 21 febbraio 1984; del Preambolo all'Intesa con le Assemblee di Dio in Italia del 29 dicembre 1986; del Preambolo all'Intesa con l'Unione Cristiana Evangelica Battista d'Italia del 29 marzo 1993): in ogni caso, vi è convergenza nella rivendicazione di uguaglianza nel trattamento di fronte alla legge penale.

3. — Gli argomenti portati a sostegno della differenza di disciplina posta dagli articoli 404 e 406 cod. pen. risultano pertanto tutti superati, con la conseguenza che tale differenza si rivela essere un'inammissibile discriminazione.

A questa Corte, nell'ambito dei propri poteri, compete porre rimedio a essa soltanto riconducendo a uguaglianza la quantificazione della sanzione penale, attraverso la dichiarazione di incostituzionalità dell'impugnato primo comma dell'art. 404 cod. pen. nella parte in cui prevede una pena eccedente quella diminuita, comminata per il fatto previsto dall'art. 406. Esula invece dalla giurisdizione costituzionale ogni affermazione circa la natura della previsione di cui all'art. 406, in rapporto a quella dell' art. 404 cod. pen., nonché circa le modalità di determinazione della misura della pena diminuita, prevista dallo stesso art. 406.

PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara l'illegittimità costituzionale dell'art. 404, primo comma, del codice penale, nella parte in cui prevede la pena della reclusione da uno a tre anni, anziché la pena diminuita prevista dall'art. 406 del codice penale.

(omissis)