Sentenza 10 marzo 1995, n.2787
Cassazione. Prima Sezione Civile. Sentenza 10 marzo 1995, n. 2787.
(Pannella; Finocchiaro)
Motivi della decisione
(omissis)
2. Il ricorso è fondato, per quanto di ragione, sulla base delle considerazioni che seguono.
La ricorrente, con l’unico complesso motivo di ricorso, ha dedotto una duplicità di vizi della decisione impugnata, che si collocano su piani diversi, e precisamente:
– l’inammissibilità della domanda di delibazione per difetto di legittimazione delle odierne resistenti;
– la contrarietà all’ordine pubblico della decisione delibanda.
Il primo profilo di censura attiene ad un presupposto del giudizio di delibazione, il secondo riguarda il merito di tale giudizio.
Nell’ordine delle questioni va esaminata, in via logicamente prioritaria, la prima.
3. La questione circa la titolarità del diritto di chiedere la delibazione di una sentenza straniera è stata affrontata e risolta da una non recente sentenza di queste S.U., che, al termine di un’ampia disamina della dottrina e dei dati normativi, hanno affermato il principio secondo cui “all’azione di delibazione prevista dagli artt. 796 ss. c.p.c. sono legittimati in via primaria soltanto i soggetti che furono parti nel rapporto processuale dinanzi al giudice straniero e, nei congrui casi, i loro successori a titolo universale e particolare. I soggetti che siano, invece, portatori di alcuni configurabili interessi, rispetto all’oggetto della sentenza straniera, e che aspirino al conseguimento di effetti ad essi favorevoli (riflessi e indiretti) derivanti dalla sentenza medesima, hanno legittimazione secondaria nel giudizio di delibazione, nel senso che è loro riconosciuta la mera possibilità d’intervento in tale giudizio. Soltanto nel caso di pronunce che importino un mutamento di status (come nel caso di annullamento del matrimonio) che possa essere provocato anche da uno solo di una pluralità di specifici soggetti legittimati per legge alla relativa azione, la sentenza straniera può essere presentata alla delibazione da quelli, dei menzionati soggetti, che non intervennero al rapporto processuale presso il giudice straniero” (Cass. 9 aprile 1973 n. 996).
In applicazione di tale principio era stata, nella specie, negata la legittimazione all’azione di delibazione proposta dal secondo coniuge di un soggetto che, dopo avere ottenuto dal giudice estero una sentenza di divorzio rispetto ad un suo primo matrimonio – celebrato in Italia e che si assumeva produttivo di effetti civili nell’ordinamento italiano – aveva contratto, sempre all’estero, un nuovo matrimonio ed era, successivamente, deceduto senza avere mai chiesto ed ottenuto la delibazione di quella sentenza.
(omissis)
4. Questi principi, successivamente riaffermati (Cass. 15 novembre 1977 n. 4971) e che il Collegio condivide, non sono stati ritenuti puntualmente applicabili per la delibazione delle sentenze di nullità matrimoniali emanate dai tribunali ecclesiastici, sulla base della disciplina dettata dall’art. 17 legge n. 847 del 1929.
Si è infatti in proposito deciso che la declaratoria di esecutorietà nell’ordinamento italiano della sentenza del tribunale ecclesiastico che ha dichiarato la nullità di un matrimonio concordatario non trova ostacolo nella morte di una delle parti, avvenuta dopo quella sentenza, ma prima dell’ordinanza della Corte d’appello (Cass. 5 febbraio 1985 n. 773; Cass. 19 ottobre 1978 n. 4708).
A tali conclusioni si è giunti:
a) per il carattere officioso del procedimento innanzi alla Corte d’appello che consente di ritenere il procedimento iniziato fin dal momento in cui è adito il giudice ecclesiastico;
b) per gli effetti retroattivi della sentenza ecclesiastica, la quale dichiara la nullità del matrimonio fin dalla data della sua celebrazione;
c) per l’identica efficacia dell’exequatur della Corte d’appello, che, pur avendo natura costitutiva, elimina gli effetti della trascrizione sin dalla data di celebrazione del matrimonio.
5. A seguito dell’Accordo del 18 febbraio 1984 di modifica del Concordato del 1929, ratificato e reso esecutivo con legge n. 121 del 1985, il carattere officioso della domanda di delibazione è venuto meno essendosi espressamente stabilito che “le sentenze di nullità di matrimonio pronunciate dai tribunali ecclesiastici, che siano munite del decreto di esecutività del superiore organo ecclesiastico di controllo, sono, su domanda delle parti o di una di esse, dichiarate efficaci nella Repubblica italiana con sentenza della Corte d’appello competente” (art. 8, 2 dell’Accordo).
Il problema che questa Corte deve esaminare e risolvere è quindi quello di stabilire:
– in linea generale, se tale modifica della disciplina del provvedimento di delibazione – ormai strettamente correlato agli artt. 796 e ss. c.p.c. – sia idonea a superare la precedente giurisprudenza e, quindi, a ritenere applicabili i principi in precedenza enunciati in tema di delibazione delle sentenze straniere, o se invece gli altri argomenti che sorreggevano la giurisprudenza da ultimo citata siano sufficienti a giustificare il suo mantenimento anche adesso;
– in linea particolare se – una volta risolto nel primo senso la precedente questione – la circostanza che, nella specie, la morte del coniuge è sopravvenuta prima della pronuncia di nullità del matrimonio e la relativa controversia è stata riassunta dagli eredi del defunto, sulla base delle norme di diritto canonico, sia sufficiente ad attribuire agli stessi la legittimazione (rectius: la titolarità) a proporre la domanda di delibazione innanzi al giudice italiano.
6. La prima delle questioni prospettate deve essere risolta nel senso che la nuova disciplina del procedimento di delibazione – introdotta a seguito dell’Accordo del 1984 – avendo fatto venire meno il carattere ufficioso dello stesso ed imponendo la necessità della domanda delle parti o di una di esse per ottenere l’esecutività della sentenza ecclesiastica di nullità matrimoniale esclude che si possa ancora ritenere che il procedimento per dichiarare tale nullità possa dirsi iniziato fin dal momento in cui era stato adito il giudice ecclesiastico.
A prescindere dalla fondatezza, sotto il vigore del Concordato del 1929, di questa tesi, contestata, peraltro, da autorevole dottrina, la censura introdotta nel 1984 fra i due procedimenti – quello innanzi al giudice ecclesiastico e quello di delibazione innanzi al giudice italiano – con la conseguente inammissibilità di un giudizio di esecutività proposto d’ufficio (Cass. 5 febbraio 1988 n. 1212) e con l’attribuzione alle sole parti del potere di fare conseguire efficacia nell’ordinamento giuridico italiano alla sentenza di nullità del matrimonio pronunciata in altro ordinamento, comporta che la sussistenza della titolarità del potere di chiedere la delibazione va accertata con riferimento al momento di proposizione della relativa domanda – così come del resto avviene per la delibazione delle sentenze straniere – senza alcuna possibilità di fare riferimento alla situazione esistente al momento della proposizione della domanda innanzi al giudice ecclesiastico.
Né al fine di superare queste conclusioni si possono invocare gli argomenti di cui sub b) e c) riportati al paragrafo 4.
é infatti sufficiente in proposito osservare:
– che gli effetti retroattivi della pronuncia ecclesiastica di nullità matrimoniale attengono al merito della decisione ma non rilevano sulla individuazione della titolarità a richiedere la delibazione in Italia di tale pronuncia;
– che la retroattività dell’exequatur costituisce una conseguenza normale di ogni pronuncia di delibazione di sentenza straniera dal momento che, sempre, gli effetti sostanziali, in quanto prodotti dalla pronuncia straniera e non da quella italiana di delibazione, retroagiscono al momento del loro prodursi nell’ordinamento straniero (Cass. 21 aprile 1972 n. 1266; Cass. 6 ottobre 1977 n. 4254; Cass. 5 aprile 1979 n. 1436), sicché tale retroattività non è un proprium della delibazione della sentenza ecclesiastica, con l’ulteriore conseguenza che la stessa non può indurre ad individuare la legittimazione alla domanda di delibazione in termini diversi da quelli evidenziati da Cass. 9 aprile 1973 n. 996, riportata sub paragrafo 3.
7. Passando all’esame della seconda delle questioni prospettate nel paragrafo 5 – e cioè quella se la circostanza che le attuali resistenti avevano assunto la qualità di parti nel giudizio di nullità innanzi al giudice ecclesiastico assuma rilevanza al fine di fondare la loro legittimazione nel successivo giudizio di delibazione – ritiene il Collegio che alla stessa debba darsi risposta negativa.
La legittimazione attiva a richiedere la delibazione della sentenza emessa in un altro ordinamento va riconosciuta – sulla base di quanto in precedenza rilevato – solamente a coloro che sarebbero legittimati ad instaurare la virtuale equivalente lite nell’ordinamento nel quale si chiede la delibazione della sentenza, con la conseguenza che qualora tale legittimazione primaria non sussiste, deve parimenti negarsi la legittimazione a chiedere la delibazione della sentenza straniera.
A ciò, poi, bisogna aggiungere che, venuta meno la riserva esclusiva di giurisdizione a favore del giudice ecclesiastico, la domanda di nullità del matrimonio canonico può essere proposta direttamente innanzi al giudice italiano (Cass. 13 febbraio 1993 n. 1824).
Né, al fine di superare tali conclusioni, vale la considerazione che nel nostro ordinamento è prevista la trasmissione dell’azione agli eredi qualora l’azione di nullità del matrimonio sia pendente alla morte dell’attore (art. 127 c.c.) e che, nel caso di specie, l’azione innanzi al giudice ecclesiastico era stata proseguita proprio dagli eredi.
É infatti sufficiente osservare che la legittimazione va individuata con riferimento al momento in cui è proposta la domanda di delibazione – ed in tale momento la legittimazione degli eredi non sussisteva per non essere pendente la causa di delibazione alla morte del coniuge – senza che rilevi la diversa legittimazione esistente nell’altro ordinamento in cui è stata pronunciata la decisione di cui si chiede la delibazione.
Quest’ultima legittimazione, infatti, non vale a fondare la legittimazione alla pronuncia di delibazione, senza che a contrarie conclusioni possa indurre l’obbligo di “tener conto della specificità dell’ordinamento canonico dal quale è regolato il vincolo matrimoniale, che in esso ha avuto origine”, espressamente previsto dall’art. 4, lettera b) del Protocollo addizionale, dal momento che il difetto di legittimazione deriva da norme italiane non modificate dall’Accordo del 1984 o dal Protocollo addizionale.
Se non può dubitarsi che in caso di morte del coniuge, successivamente alla pronuncia di nullità del matrimonio da parte dei tribunali ecclesiastici, ma prima della domanda di delibazione di tale sentenza, gli eredi del coniuge defunto non sono titolari – sulla base dell’effettuata ricostruzione – del potere di instare per la delibazione della sentenza ecclesiastica, non può parimenti dubitarsi che analogo difetto di legittimazione deve affermarsi anche nell’ipotesi in cui gli eredi, sulla base delle norme del codice canonico, abbiano ottenuto l’annullamento del matrimonio dal giudice ecclesiastico: diverse soluzioni, per le due fattispecie in esame, sarebbero, infatti, prive di razionale giustificazione e finirebbero per collegare – il che è invece da escludere – la legittimazione alla delibazione con la legittimazione alla pronuncia di nullità del matrimonio canonico innanzi ai tribunali ecclesiastici.
Non ignora il Collegio che, sulla base delle conclusioni raggiunte, si finisce per negare la delibazione di tutta una serie di pronunce ecclesiastiche di nullità matrimoniale nell’ipotesi in cui uno dei coniugi sia morto prima dell’inizio del giudizio di delibazione, ma ciò costituisce una conseguenza ineludibile della previsione – contenuta nello stesso Accordo del 1984 – della cesura fra giudizio di nullità e giudizio di delibazione.
Deve, pertanto, concludersi che, ai sensi dell’art. 8 dell’Accordo firmato a Roma il 18 febbraio 1984, che apporta modificazioni al concordato lateranense dell’11 febbraio 1929 tra la Repubblica italiana e la Santa Sede, ratificato e reso esecutivo con legge 25 marzo 1985 n. 121, deve escludersi la legittimazione degli eredi del coniuge a chiedere la delibazione della sentenza ecclesiastica con cui è stata dichiarata la nullità del matrimonio da quest’ultimo contratto, anche nell’ipotesi in cui tali eredi hanno proseguito l’azione di nullità innanzi al giudice ecclesiastico ed abbiano ottenuto la relativa pronuncia, con la conseguenza che va cassata senza rinvio – trattandosi di ipotesi in cui la causa non poteva essere proposta (art. 383, ultimo comma, c.p.c.) – la sentenza della Corte d’appello che sulla domanda di delibazione proposta dagli eredi abbia pronunciato.
8. Le conclusioni raggiunte rendono superfluo l’esame dell’altro profilo di censura relativo alla contrarietà all’ordine pubblico della sentenza impugnata, che resta pertanto, assorbito.
9. Concludendo, va accolto per quanto di ragione il ricorso e va cassata senza rinvio la sentenza impugnata.
La novità della questione giustifica la compensazione fra le parti delle spese dell’intero giudizio.
Autore:
Corte di Cassazione - Civile
Nazione:
Italia
Parole chiave:
Sentenza ecclesiastica di nullità, Legittimazione, Delibazione, Contrarietà all'ordine pubblico, Sentenze straniere, Domanda degli eredi, Parti nel giudizio di nullità
Natura:
Sentenza