Osservatorio delle libertà ed istituzioni religiose

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Osservatorio delle Libertà ed Istituzioni Religiose

Documenti • 4 Luglio 2005

Sentenza 08 marzo 2004, n.4645

Corte di Cassazione. Sezione Tributaria Civile. Sentenza 8 marzo 2004, n. 4645: “Il beneficio dell’esenzione dall’ICI non spetta in relazione agli immobili, appartenenti ad un ente ecclesiastico, che siano destinati allo svolgimento di attività oggettivamente commerciali”.

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

sul ricorso proposto da:

ISTITUTO SUORE ZELATRICE SACRO CUORE FERRARI, in persona del legale rappresentante Rampini Nina Rosa, elettivamente domiciliata presso l’avvocato D’AYALA VALVA FRANCESCO VIA U. BOCCIONI A ROMA, difesa dall’Avvocato PASANISI GIOVANNI VIA G. D’ANNUNZIO 28 L’AQUILA (avviso ex art. 135 d.a. C.p.c.), giusta procura notaio Antonio Battaglia in l’Aquila, Repertorio n. 112303 del 9.6.03
ricorrente

contro

COMUNE L’AQUILA;
intimato

avverso la sentenza n. 145/01 della Commissione tributaria regionale di L’AQUILA, depositata il 29/11/01;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 22/10/03 dal Consigliere Dott. Stefano MONACI;
udito, per il ricorrente, l’Avvocato D’AYAA VALVA che ha chiesto l’accoglimento del ricorso;
udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. Vincenzo GAMBARDELLA che ha concluso per il rigetto del ricorso.

Fatto

La causa ha ad oggetto l’impugnazione, da parte dell’Istituto Suore Zelatrici del Sacro Cuore “Ferrari”, di un avviso di accertamento emesso dal comune dell’Aquila per il pagamento, per l’anno 1995, dell’ICI relativa ad alcuni immobili adibiti a Casa di Cura e a Pensionato per donne anziane e per studentesse universitarie.
Il ricorso veniva respinto dalla commissione di primo grado, e questa decisione veniva confermata dalla Commissione Tributaria Regionale Abruzzo con sentenza In data 3 maggio /29 novembre 2001.
L’istituto ha proposto ricorso per cassazione, con tre motivi, con atto notificato il 15 marzo 2002.
Il comune intimato non ha presentato difese in questa fase. Infine, il ricorrente ha depositato un’ampia memoria difensiva.

Diritto

1. Con il primo motivo di impugnazione il ricorrente denunzia la violazione e falsa applicazione del combinato disposto degli artt. 2, 4,15 e 16 della legge n. 222 del 1985, dell’articolo 7, comma terzo, dell’Accordo 18 febbraio 1984 (modificativo dell’Accordo Lateranense), nonché dell’art. 87, quarto comma, del T.U.I.R. e degli artt. 7 ed 11 del decreto legislativo n. 504 del 1992.
Sottolinea che, ai sensi dell’art. 2 della legge n. 222 del 1985, gli istituti religiosi come appunto il ricorrente (che aveva anche ottenuto il riconoscimento ai fini legali) avevano fine di religione e di culto e costituivano Enti Ecclesiastici civilmente riconosciuti.
Come tali erano equiparati ai fini tributari agli enti aventi fini di beneficenza e di istruzione.
Rientravano perciò nella categoria di cui all’art. 87, comma primo, lettera c), del T.U.I.R.
La sentenza impugnata doveva ritenersi illegittima perché non aveva attribuito nessuna rilevanza a questa qualità di ente ecclesiastico legalmente riconosciuto.
Il giudice aveva ritenuto invece, senza un’indagine effettiva, che l’ente svolgesse un’attività commerciale di carattere principale e non occasionale.
Quelle svolte dall’istituito erano, invece, prestazioni di servizi, che per definizione, ed oggettivamente, non avevano questa natura, come scuole materne, orfanatrofio, casa famiglia ed assistenza alle donne anziane.
La commissione regionale si era Invece basato su di un criterio meramente quantitativo.
Il ricorrente nega inoltre che il comune avesse poteri di accertamento in questa materia e sosteneva che questo potere spetta soltanto all’amministrazione finanziaria dello stato.
2. Con il secondo motivo l’istituto denunzia la violazione e/o falsa applicazione dell’art. 87, quarto comma, del T.U.I.R.
Per valutare se un ente avesse, o meno, natura di ente commerciale sarebbe stato necessario esaminarne preventivamente lo statuto.
Nel caso di specie lo statuto avrebbe dimostrato la natura religiosa, e non commerciale, dell’istituto.
La prova di una natura commerciale avrebbe dovuto essere dimostrata attraverso un esame dell’attività concretamente esercitata, né poteva valere a questo fine un certificato della camera di commercio (che, del resto, faceva riferimento all’attività svolta dalle singole unità locali, e non a quella dell’istituzione in quanto tale).
Il ricorrente sottolinea ancora che come ente religioso, e non commerciale, era stato assoggettato – come verificabile all’anagrafe tributaria – ad imposta IRPEG nella misura ridotta del 18% (e non nella misura ordinaria del 36%).
La sentenza non conteneva alcuna dimostrazione dell’esistenza di una propria pretesa natura commerciale, tanto meno prevalente.
Del resto una parte cospicua dei pretesi redditi era costituita da contributi sociali in regime di convenzione, e perciò esclusi da ogni possibile considerazione ai fini della natura commerciale.
La commissione, inoltre, non aveva tenuto conto del fatto che nei bilanci annuali si erano cumulati incassi afferenti a differenti periodi di attività, dovuti al diverso momento impositivo previsto per l’IVA (quello del pagamento) e per le imposte dirette (competenze d’esercizio).
3. Infine con il terzo ed ultimo motivo di ricorso l’istituto Ferrari denunzia un ulteriore profilo di violazione e falsa applicazione riferita all’art. 111 -bis del T.U.I.R.
Questa norma identifica i criteri in base ai quali si perde la qualificazione di ente non commerciale.
Le ipotesi previste si basano sul confronto tra la consistenza dei beni e mezzi attinenti alla sfera delle attività commerciali rispetto alle altre, e non su criteri meramente quantitativi.
L’ente sottolinea che il quarto comma della norma esclude gli enti ecclesiastici, riconosciuti come persone giuridiche, da questa disciplina e dalle valutazioni ed i confronti che ne derivano, ed argomenta che questo regime specifico era conseguenza dell’indagine rigorosa cui gli enti ecclesiastici erano stati sottoposti per ottenere il riconoscimento da parte dell’autorità civile, e lamenta che la sentenza non abbia esaminato questo profilo che era stata puntualmente sollevato.
4. Deve essere affrontata preliminarmente, perché astrattamente assorbente, l’eccezione pregiudiziale, sollevata dal ricorrente nella memoria illustrativa, di invalidità della costituzione del Comune de L’Aquila sia nel primo che nel secondo grado del giudizio.
II ricorrente rileva la mancanza, dalle delibere della Giunta Municipale, di autorizzazione dell’ente a costituirsi in giudizio, sottolineando che essa è necessaria perché il Sindaco possa rappresentare il Comune nella lite, e che la sua mancanza incide sulla capacità processuale dell’Ente pubblico e si risolve nel difetto di un presupposto processuale, rilevabile in ogni stato e grado del giudizio.
L’invalidità delle due costituzioni in giudizio del comune nelle fasi di merito comporterebbe, inoltre, il divieto per il giudice di utilizzare i documenti prodotti dall’ente.
5. Di per se stessa l’eccezione è fondata, ma il suo accoglimento non è rilevante ai fini della decisione, sia perché è stato l’istituto, soccombente in primo grado, a proporre appello, e perciò la nullità della costituzione del comune in secondo grado non potrebbe in nessun caso comportare il consolidamento della sentenza di primo grado, sia perché i documenti prodotti dal comune sono privi di un particolare valore probatorio, e, in ogni caso, concernono circostanze non contestate.
Come già rilevato da questa Corte “l’autorizzazione a stare in giudizio da parte degli organi comunali competenti (la giunta municipale, secondo il nuovo ordinamento delle autonomie locali di cui alla legge n. 142 del 1990) è necessaria perché il sindaco possa rappresentare il Comune in qualsiasi lite attiva e passiva, con la conseguenza che la mancanza di essa incide sulla capacità processuale dell’ente pubblico e, risolvendosi nel difetto di un presupposto processuale, è rilevabile di ufficio in ogni stato e grado del giudizio.” (Cass. civ., 28 maggio 1998, n. 5286; nello stesso senso, 29 marzo 1996, n. 2955; 5 marzo 1992, n. 2639).
Né è sufficiente che l’autorizzazione sia stata rilasciata, e neppure che sia citata nell’atto di costituzione; occorre che sia presente agli(*) di causa, in modo da poter essere immediatamente verificata, in quanto “la mancanza al momento della decisione in grado di appello dei documenti attestanti l’autorizzazione al Sindaco a stare in giudizio per il Comune, che abbia proposto l’impugnazione, impone al giudice del gravame di dichiararne l’inammissibilità” (Cass. civ., 23 giugno 1992, n. 7682; nello stesso senso, 19 luglio 2001, n. 9838).
6. Come risulta dal riscontro diretto degli atti (verifica che la Corte può compiere direttamente essendo stata sollevata una questione di carattere processuale), sia in primo che in secondo grado il Comune de L’Aquila si è costituito con apposita procura rilasciata dal sindaco ad un funzionario; in entrambi i casi nella procura sono citati gli estremi della delibera di autorizzazione della Giunta Municipale, ma il documento non si rinviene in atti, né vi sono riscontri di una sua produzione in giudizio.
Perciò, in applicazione del principio di diritto sopra ricordato, la costituzione dell’ente sia nel primo che nel secondo grado del giudizio non era valida, né erano utilizzabili le produzioni del comune.
Sempre il riscontro diretto degli atti chiarisce, però, che queste produzioni si riducevano a ben poca cosa: in concreto si rinvengono in atti ritagli di giornale e certificati della camera di commercio.
I primi sono privi di valore probatorio, mentre i certificati attestano l’iscrizione di alcune attività alla Camera di Commercio, che non è contestata; anche il ricorso ne dà atto (a pag. 10) per fornirne la spiegazione.
Del resto, per la verità, la sentenza fa riferimento ai documenti, ma specifica che le circostanze da essi provate erano incontroverse tra le parti: evidentemente sarebbero state incontroverse tra le parti anche senza le visure camerali.
Ciò significa che in realtà quei documenti sono irrilevanti, e che anche senza di essi il giudice del merito non avrebbe potuto che giungere alla medesima conclusione: la violazione del divieto della loro utilizzazione conseguente alla invalidità della costituzione in giudizio del comune non ha Inciso, perciò, sulla decisione del giudice del merito, né l’applicazione di quel divieto comporterebbe una decisione diversa da parte di un giudice di rinvio.
7. Passando all’esame delle questioni di merito, il primo motivo del ricorso è infondato, e non può trovare accoglimento.
Le Ipotesi, peraltro limitate, di esenzione dall’ICI sono previste, come è noto, dall’art. 7 del Decreto Legislativo 30 dicembre 1992, n. 504, istitutivo dell’imposta.
L’elenco, ricomprende, alla lettera i) “gli immobili utilizzati dai soggetti di cui all’art. 87, comma 1, lettera c), del T.U. delle imposte sui redditi, approvato con D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, e successive modificazioni, a condizioni che siano destinati esclusivamente allo svolgimento di attività assistenziali, previdenziali, sanitarie, didattiche, ricettive, culturali, ricreative e sportive, nonché delle attività di cui all’art. 16, lettera a), della legge 20 maggio 1985, n. 222.”
Occorre perciò che si verifichino contemporaneamente entrambe le condizioni, quella soggettiva dell’appartenenza dell’immobile ad uno dei soggetti di cui all’art. 87, comma 1, lettera c) del T.U.I.R., e quello oggettivo della destinazione esclusiva dell’immobile allo svolgimento di una delle attività ritenute dal legislatore meritevoli di un trattamento fiscale di favore – elencate nella lettera i) dell’art. 7, e, tra esse, di una di quelle previste nella lettera a) dell’art. 16 della legge n. 222 del 1985.
8. Per la verità il requisito soggettivo sessiste, ma non è sufficiente per fondare il diritto all’esenzione.
L’art. 87 del T.U.I.R. ha ad oggetto i soggetti passivi della imposizione diretta; in particolare la lettera c) del primo comma, fa riferimento a “gli enti pubblici e privati diversi dalle società, residenti nel territorio dello Stato, che non hanno per oggetto esclusivo o principale l’esercizio di attività commerciali”.
L’Istituto ricorrente è un ente ecclesiastico che fa parte dell’organizzazione della chiesa cattolica, e rientra certamente nell’ambito di questa definizione: proprio perché ente ecclesiastico non ha, in particolare, come fine esclusivo – e si deve ritenere neppure come fine prevalente – l’esercizio del commercio.
9. In ogni caso la prova su questo punto dell’esercizio prevalente esclusivo dell’attività commerciale sarebbe spettata all’ente impositore, e manca: su questo punto specifico è esatta la critica del ricorrente secondo cui non può certo considerarsi tale la sola circostanza che abbia conseguito degli utili dallo svolgimento di una propria attività, senza che si sia proceduto a nessuna analisi ulteriore sulla natura, e la provenienza, di essi.
Correlativamente, sono errate, o comunque non provate, le valutazioni espresse nella sentenza impugnata sul medesimo punto del carattere esclusivo o prevalente dell’attività commerciale.
Quelle valutazioni, però, erano comunque irrilevanti, perché l’imposizione ai fini I.C.I. ha un carattere oggettivo, e prescinde dal carattere esclusivo o prevalente, o invece secondario o occasionale, delle attività svolte negli immobili; di conseguenza è Irrilevante ai fini della decisione anche il fatto che si trattasse di valutazioni in se stesse errate.
10. Non sussiste, Invece, il requisito oggettivo, anch’esso indispensabile, della destinazione esclusiva dell’Immobile ad una delle attività prese in considerazione dalla legge ai fini dell’esenzione, in particolare, nel caso di un ente ecclesiastico, di quelle indicate nell’art. 16 della legge 222 del 1985.
Questa legge contiene, tra l’altro, “disposizioni sugli enti e beni ecclesiastici in Italia.”
In particolare – per quanto può rilevare ai fini della decisione – l’art. 15 della legge prevede che questi ultimi, se civilmente riconosciuti, possono, nel rispetto delle leggi dello stato, svolgere liberamente attività diverse da quelle di religione o di culto, mentre l’art. 4 chiarisce che quelli che già da prima dell’entrata in vigore della legge erano in possesso del riconoscimento della personalità giuridica lo conservavano, e l’art. 3 che anche gli altri possono ottenerlo successivamente.
L’art. 16 contiene due previsioni distinte riferite alle attività svolte da parte degli enti ecclesiastici.
Alla lettera a) – quella richiamata dalla legge fondamentale sull’I.C.I. n. 504/1992 – sono previste, le “attività di religione o di culto, quelle dirette all’esercizio del culto e alla cura delle anime, alla formazione del clero e dei religiosi, a scopi missionari, alla catechesi, all’educazione cristiana”; nell’introdurre l’imposta comunale sugli immobili, il legislatore ha voluto che queste attività di carattere religioso, o, in ogni caso, strettamente connesse a quelle propriamente religiose, fruiscano dello stesso trattamento di favore previsto per le altre attività, culturali, assistenziali, ecc., indicate alla lettera i) dell’art. 7 del decreto legislativo n. 504.
Alla lettera b) lo stesso art. 16 della nuova legge sui beni ecclesiastici fa riferimento, invece, alle “attività diverse da quelle di religione o di culto, quelle di assistenza e di beneficenza, istruzione, di religione o di culto, quelle dirette all’esercizio del culto e all’educazione e cultura e, in ogni caso, le attività commerciali o a fini di lucro.”
Questo secondo ambito, non propriamente religioso o strettamente connesso a quello religioso, delle possibili attività degli enti ecclesiastici, non è richiamato dall’art. 7 della legge I.C.I.
Questo non esclude necessariamente che possano godere anch’esse del medesimo regime di favore: molte di esse (quelle di assistenza e beneficenza, Istruzione, educazione e cultura) rientrano già – in via diretta e non tramite il richiamo alla legge sugli enti ecclesiastici – nella previsione della lettera i).
Non altrettanto avviene per quelle commerciali o per fini di lucro, pure ricomprese nella stessa lettera b) dell’art. l6 della legge sugli enti ecclesiastici: si tratta di un ambito di attività che può essere svolto da enti ecclesiastici, ma cui il legislatore fiscale non ha riservato un trattamento di esenzione ai fini dell’I.C.I.
11. Ai fini di causa non rileva, perciò, che l’accordo internazionale tra Stato Italiano e Chiesa Cattolica – ratificato e reso esecutivo con legge 25 marzo 1985, n. 121 – che ha apportato modificazioni ai patti lateranensi disponga, al terzo comma dell’art. 7, che “agli effetti tributari gli enti ecclesiastici, come pure le attività dirette a tali scopi, sono equiparati a quelli aventi fine di istruzione o di beneficenza”.
Al fini della imposizione I.C.I. tanto gli enti ecclesiastici che quelli con fini di istruzione o di beneficenza sono esentati dall’imposta, limitatamente agli immobili direttamente utilizzati per lo svolgimento delle loro attività istituzionali (o di altre attività rientranti – anche tramite il richiamo alla legge n. 222/1985 – nella previsione della lettera i) dell’art. 7 della legge I.C.I), non lo sono, invece, per gli immobili destinati ad altro.
Un ente ecclesiastico può svolgere liberamente – nel rispetto delle leggi dello Stato – anche un’attività di carattere commerciale, ma non per questo si modifica la natura dell’attività stessa, e, soprattutto, le norme applicabili al suo svolgimento rimangono – anche agli effetti tributari – quelle previste per le attività commerciali, senza che rilevi che l’ente la svolga, oppure no, in via esclusiva, o prevalente: di conseguenza il giudice del merito non era tenuto a motivare su questo punto specifico.
Per la stessa ragione rimangono irrilevanti le valutazioni del giudice di merito sul carattere esclusivo o prevalente dell’attività commerciale stessa.
12. Quello che rileva ai fini di causa è soltanto lo svolgimento all’interno degli immobili da sottoporre a tassazione di attività commerciali, indipendentemente dalla loro entità sia in valori assoluti che in termini relativi.
Secondo quanto risulta dall’accertamento di fatto contenuto nella sentenza impugnata (e non inficiato dall’utilizzazione di documenti, di per se stessi irrilevanti, prodotti dal comune) l’istituto gestiva attività oggettivamente commerciali come la gestione di pensionati con il pagamento di rette.
Si trattava perciò di attività, che proprio perché oggettivamente commerciali, non erano soltanto ricettive o sanitarie e come tali esentate dall’ICI (perché ricomprese nella previsione della lettera i) dell’art. 7).
Gli immobili destinati a queste attività oggettivamente commerciali non rientrano, invece, nell’ambito dell’esenzione dall’ICI, e per essi l’Istituto è tenuto al pagamento dell’imposta.
Né, infine, il fatto di svolgere attività commerciali contrastava necessariamente con la natura di ente ecclesiastico dell’istituto, e con i suoi fini istituzionali, anche perché attività commerciale non è sinonimo di attività con fini di lucro (tanto è vero che proprio a proposito degli enti ecclesiastici l’art. 16 lettera b) della legge n. 222 del 1985 le distingue): come giustamente osserva la sentenza Impugnata, la destinazione degli utili – ad una ripartizione in favore dei partecipanti all’attività commerciale, o al perseguimento di fini sociali o religiosi – è un momento successivo alla produzione degli utili stessi, che non fa venir meno il carattere commerciale dell’attività, e non rileva al fini della tassazione ICI.
13. L’ulteriore rilievo secondo cui il potere di accertamento nella materia in esame sarebbe spettato all’amministrazione finanziaria (dello Stato) – e non al comune come aveva ritenuto la sentenza – è generico, e comunque infondato, perché la legge n. 594/1992 attribuisce ai comune, e non allo Stato, il compito di effettuare le operazioni di liquidazione e di accertamento sulla base degli elementi desumibili – tra l’altro – dal sistema informativo del Ministero delle finanze.
14. Il secondo motivo di impugnazione rimane assorbito dalla reiezione del primo.
Ai fini del pagamento dell’I.C.l., infatti, è irrilevante che l’attività economica svolta dall’ente ecclesiastico abbia, o no, carattere esclusivo o prevalente: come già si è sottolineato, anche gli enti soggettivamente non commerciali (e perciò anche quelli ecclesiastici) sono soggetti all’imposizione I.C.I. per gli Immobili destinati allo svolgimento di attività oggettivamente commerciali.
15. Infine, il terzo ed ultimo motivo di impugnazione è infondato per la ragione di carattere assorbente che la norma di cui viene dedotta la violazione, vale a dire l’art. 111-bis del LU.I.R., è applicabile soltanto dal’1998 (essendo stata inserita con il primo comma dell’art. 6 del decreto legislativo 14 dicembre 1997, n. 460) perché l’anno di imposizione cui si riferisce il ricorso è anteriore all’entrata in vigore del decreto stesso, e quest’ultimo non ha valore retroattivo.
16. Concludendo, dunque, il ricorso è infondato e va respinto.
Dato che il comune intimato non ha svolto attività difensive in questa fase la Corte non deve adottare provvedimenti sulla liquidazione delle spese di causa.

P.Q.M

Rigetta il ricorso.

Così deciso in Roma, il 22 ottobre 2003.
Depositato in Cancelleria il 8 marzo 2004.