Osservatorio delle libertà ed istituzioni religiose

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Osservatorio delle Libertà ed Istituzioni Religiose

Documenti • 20 Luglio 2005

Sentenza 07 ottobre 2003, n.309

Corte costituzionale, 07 ottobre 2003, n. 309: “Legittimità costituzionale della misura di prevenzione che prevede il divieto di allontanamento da un determinato Comune anche per partecipare ai riti propri della confessione religiosa professata”.

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori:

– Riccardo CHIEPPA Presidente
– Gustavo ZAGREBELSKY Giudice
– Valerio ONIDA ”
– Carlo MEZZANOTTE ”
– Fernanda CONTRI ”
– Guido NEPPI MODONA ”
– Piero Alberto CAPOTOSTI ”
– Annibale MARINI ”
– Franco BILE ”
– Giovanni Maria FLICK ”
– Ugo DE SIERVO ”
– Romano VACCARELLA ”
– Alfio FINOCCHIARO ”

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 7-bis della legge 27 dicembre 1956, n. 1423 (Misure di prevenzione nei confronti delle persone pericolose per la sicurezza e per la pubblica moralità), introdotto dall’art. 11 della legge 13 settembre 1982, n. 646, promosso con ordinanza del 22 febbraio 2002 dal Tribunale di
Catanzaro nel procedimento di prevenzione relativo a Vito Tolone, iscritta al n. 263 del registro ordinanze 2002 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 22, prima serie speciale, dell’anno 2002.

Visto l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nella camera di consiglio del 9 aprile 2003 il Giudice relatore Gustavo Zagrebelsky.

1. – Con ordinanza del 22 febbraio 2002, il Tribunale di Catanzaro ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell’art. 7-bis della legge 27 dicembre 1956, n. 1423 (Misure di prevenzione nei confronti delle persone pericolose per la sicurezza e per la pubblica moralità), introdotto dall’art. 11 della legge 13 settembre 1982, n. 646 (Disposizioni in materia di misure di prevenzione di carattere patrimoniale ed integrazioni alle leggi 27 dicembre 1956, n. 1423, 10 febbraio 1962, n. 57 e 31 maggio 1965, n. 575. Istituzione di una commissione parlamentare sul fenomeno della mafia), in riferimento all’art. 19 della Costituzione.
2. – In fatto, il Tribunale premette che: (a) una persona sottoposta alla sorveglianza speciale di pubblica sicurezza con obbligo di soggiorno nel comune di residenza ha chiesto al Tribunale l’autorizzazione ad allontanarsi «periodicamente e continuativamente» dal comune di soggiorno obbligato, per recarsi in altro comune al fine di poter partecipare alla celebrazione delle funzioni religiose della Chiesa Evangelica – Assemblee di Dio in Italia, corredando la propria istanza con documentazione proveniente da detta confessione; (b) raccolti elementi informativi e pareri degli organi di pubblica sicurezza, il Tribunale ha accertato che nel comune di residenza del sorvegliato non vi sono comunità di fedeli né luoghi di culto dell’anzidetta confessione religiosa, ma che ne esistono in altri comuni vicini (diversi da quello indicato nell’istanza); (c) instaurato il contraddittorio per la decisione sulla richiesta, la parte privata ha eccepito l’incostituzionalità della disciplina contenuta nella legge n. 1423 del 1956, in riferimento agli artt. 3 e 19 della Costituzione, in quanto tale normativa non consente di dare positivo esito alla richiesta dell’interessato.
3. – Ciò premesso, il Tribunale – pur dando atto sia della non contestata serietà della professione di fede religiosa del richiedente, da diversi anni aderente alla confessione, sia della mancanza di comunità di fedeli e di luoghi di culto nell’ambito del comune di soggiorno obbligato – rileva che, alla stregua della disciplina legislativa, l’autorizzazione ad allontanarsi dal comune medesimo per svolgere le pratiche di culto non potrebbe essere accordata: l’art. 7-bis della legge n. 1423 del 1956, infatti, permette l’autorizzazione all’allontanamento dal comune di residenza esclusivamente per ragioni di salute, e tale disposizione è stata inoltre interpretata in senso tassativo dalla giurisprudenza di legittimità.
Ma appunto della citata impossibilità di autorizzare l’allontanamento per motivi religiosi – alla stregua della disposizione indicata, così restrittivamente interpretata – il Tribunale di Catanzaro si duole, in riferimento all’art. 19 della Costituzione, escludendo invece la violazione del principio di uguaglianza – dedotta dalla parte – perché la disciplina non comporta discriminazioni tra le confessioni e perché comunque la determinazione dei casi di autorizzazione all’allontanamento attiene in linea di principio all’ambito della discrezionalità legislativa, salvo il limite della salvaguardia dei diritti fondamentali dell’individuo.
E tale è il diritto, sancito dall’invocato art. 19, di professione della fede religiosa, non solo in forma individuale ma anche in forma associata, e non solo in privato ma anche in pubblico, secondo il testo della disposizione costituzionale, che comporta pertanto il pieno diritto del credente a professare la propria fede in seno alla propria comunità religiosa, con la partecipazione alle assemblee, alle liturgie, alle celebrazioni e ai riti propri della confessione e con l’accesso ai luoghi di culto.
Non ammettendo la possibilità di autorizzare l’allontanamento dal comune di soggiorno obbligatorio per esercitare in forma associata questo diritto (quando nel comune stesso ciò non sia materialmente possibile), l’art. 7-bis della legge n. 1423 del 1956 si porrebbe perciò in contraddizione con l’art. 19 della Costituzione.
4. – È intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato.
L’Avvocatura rileva che la confessione alla quale l’interessato appartiene ha stipulato una intesa con lo Stato italiano, a norma dell’art. 8 della Costituzione, e tale intesa è stata approvata con la legge 22 novembre 1988, n. 517: in essa è oggetto di disciplina l’assistenza spirituale ai fedeli che siano detenuti in istituti penitenziari, ricoverati in ospedali, case di cura e pensionati, o che appartengano a forze armate o di polizia, con la previsione in particolare per questi ultimi della possibilità di ottenere permessi per frequentare le chiese più vicine in ambito provinciale se non ne esistano nella sede di servizio; e ciò – osserva l’Avvocatura – esaurisce l’ambito delle richieste avanzate dalla confessione in questione, in sede di trattative per la conclusione dell’intesa, sotto il profilo della tutela del diritto di svolgere pratiche di culto per determinati soggetti.
D’altra parte, più in generale, anche la libertà religiosa garantita dall’art. 19 invocato incontra dei limiti, stabiliti dalla legislazione in vista della tutela di altre esigenze, tra cui quelle della pacifica convivenza e della sicurezza, compendiate nella formula dell’«ordine pubblico»; e la stessa Corte costituzionale ha affermato la necessità di contemperare i diritti di libertà con le citate esigenze.
A questi criteri, conclude l’Avvocatura, si ispira il denunciato art. 7-bis della legge n. 1423 del 1956, che pertanto è da considerare immune dalle censure di incostituzionalità.

1. – Il Tribunale di Catanzaro dubita della legittimità costituzionale dell’art. 7-bis della legge 27 dicembre 1956, n. 1423 (Misure di prevenzione nei confronti delle persone pericolose per la sicurezza e per la pubblica moralità), introdotto dall’art. 11 della legge 13 settembre 1982, n. 646 (Disposizioni in materia di misure di prevenzione di carattere patrimoniale ed integrazioni alle leggi 27 dicembre 1956, n. 1423, 10 febbraio 1962, n. 57 e 31 maggio 1965, n. 575. Istituzione di una commissione parlamentare sul fenomeno della mafia), in relazione all’art. 19 della Costituzione che garantisce a tutti il diritto di professare liberamente la propria fede religiosa in qualsiasi forma, individuale o associata, e di esercitarne il culto, in privato e in pubblico. Ritiene il giudice rimettente che tra le due citate disposizioni possa esservi contrasto. La norma di legge prevede che la persona sottoposta alla misura di prevenzione della sorveglianza speciale di pubblica sicurezza, con obbligo di soggiorno in un determinato comune di residenza o dimora abituale, possa essere autorizzata dal giudice ad allontanarsi dal comune medesimo esclusivamente per ragioni di salute e non anche per la professione in forma associata della propria fede. Quando nel comune di residenza obbligata non esista una comunità di fedeli del medesimo credo religioso, il singolo – questa la tesi del rimettente – dovrebbe potersi recare nel luogo dove una tale comunità esiste. Poiché ciò non è consentito in conseguenza degli obblighi che derivano dall’applicazione della misura di prevenzione in questione, la norma di legge che non prevede la possibilità di allontanamento dal comune di soggiorno obbligato contrasterebbe con l’art. 19 della Costituzione.
2. – La questione non è fondata.
2.1. – Il giudice rimettente, sollevando questione di legittimità costituzionale dell’art. 7-bis della legge n. 1423 del 1956, non pone propriamente una questione di irrazionalità per omissione; non fa valere, in altri termini, una presunta omogeneità delle ragioni di salute e di quelle di culto, per inferirne l’arbitrarietà della disposizione che solo alle prime riconosce forza derogatrice nei confronti dell’obbligo di non allontanarsi dal comune di soggiorno obbligato. Riconosce anzi esplicitamente rientrare nella discrezionalità del legislatore la previsione dei casi eccezionali, in cui la persona sottoposta alla misura di prevenzione possa essere autorizzata ad allontanarsi dal comune di residenza o dimora obbligatoria. Ritiene peraltro che la discrezionalità legislativa nel non prevedere tale autorizzazione debba fermarsi di fronte al diritto di libera professione della propria fede religiosa, quale previsto dall’art. 19 della Costituzione. Così, secondo la prospettazione del rimettente, l’art. 7-bis della legge n. 1423 del 1956 – prevedendo la possibilità per il giudice di autorizzare solo per ragioni di salute la persona sottoposta alla misura di prevenzione ad allontanarsi dal comune nel quale è obbligato a soggiornare – sarebbe incostituzionale non per irragionevole diversità di disciplina dello status del sorvegliato speciale rispetto al diritto alla salute e al diritto di professione della propria religione, ma per diretta violazione di quest’ultimo diritto.
2.2. – Innanzitutto, si deve tenere presente che la misura della sorveglianza speciale con obbligo di soggiorno è finalizzata alla prevenzione dell’attività criminosa, prevenzione la quale, insieme con la repressione dei reati, costituisce indubbiamente, secondo la Costituzione, un compito primario della pubblica autorità, come riconosciuto da questa Corte già con la sentenza n. 27 del 1959. Le misure che la legge, nel rispetto dell’art. 13 della Costituzione, autorizza a prendere per lo svolgimento di questo compito, possono comportare limitazioni direttamente sulla libertà personale e, come nel caso in esame, anche sulla libertà di circolazione e soggiorno del soggetto considerato socialmente pericoloso, ripercuotendosi inevitabilmente su altri diritti del cui esercizio esse costituiscono il presupposto.
Sotto altro aspetto, si deve osservare che la misura di prevenzione in questione non incide di per sé, direttamente, ma solo indirettamente ed eventualmente, sull’esercizio del diritto di professare la propria religione, quando, per ragioni indipendenti dalla legge e derivanti soltanto dalla diffusione sul territorio di una determinata confessione religiosa, nel comune del soggiorno obbligato non esista una comunità organizzata di fedeli, alle cui attività il prevenuto possa partecipare. Per questo profilo, la possibile limitazione all’esercizio della libertà religiosa in forma organizzata non si differenzia da tutte le altre «normali conseguenze» (sentenza n. 75 del 1966) che possono discendere dall’imposizione di limiti alla libertà personale e alla libertà di circolazione e soggiorno e che possono riguardare non solo il diritto previsto dall’art. 19 della Costituzione, ma anche, ad esempio, quelli previsti nell’art. 4, nell’art. 32 e nell’art. 33 della Costituzione.
I compiti che allo Stato spetta svolgere nella prevenzione dei reati, anche attraverso misure limitative della libertà personale e della libertà di circolazione e soggiorno, da una parte; la connessione, sotto l’aspetto dell’esercizio, con diversi altri diritti costituzionalmente protetti, dall’altra parte, rendono evidente la necessità che il legislatore eserciti la sua discrezionalità in modo equilibrato, per «minimizzare» i costi dell’attività di prevenzione, cioè per rendere le misure in questione, ferma la loro efficacia allo scopo per cui sono legittimamente previste, le meno incidenti possibili sugli altri diritti costituzionali coinvolti.
Infatti, nella configurazione di tutte le misure limitative della libertà della persona, e dunque anche delle misure di prevenzione, l’esercizio dei diritti costituzionali non può essere sacrificato oltre la soglia minima resa necessaria dalle misure medesime, cioè dalle esigenze in vista delle quali essa sia legittimamente prevista e disposta (sentenza n. 193 del 1997, in materia di diritto al lavoro del soggetto sottoposto alla misura di prevenzione in questione). E, in effetti, il legislatore, approvando l’art. 7-bis della legge n. 1423 del 1956, ha operato in questa logica, prevedendo, in vista della tutela della salute del prevenuto, una deroga all’originario, rigido regime di esecuzione della misura della sorveglianza speciale con obbligo di soggiorno. Quando sussistano gravi e comprovati motivi che la giustifichino, il Tribunale (e, in caso di urgenza, il suo Presidente), tramite una specifica procedura, può concedere l’autorizzazione all’allontanamento dal comune, caso per caso e per periodi di tempo limitati e accompagnata da adempimenti speciali di pubblica sicurezza, adeguati alle particolarità delle singole situazioni.
Ma questo sistema di contemperamento, previsto specificamente per permettere di usufruire di cure mediche necessarie in casi eccezionali, non potrebbe essere esteso, al contrario di quanto ritiene il giudice rimettente, al caso del diritto di libertà di culto in forma associata. Indipendentemente dalla questione relativa all’identità o alla diversità delle due situazioni, sotto il profilo della ratio legislativa – ciò che qui, come si è detto, non è in discussione -, decisivo è osservare che la sospensione degli obblighi del sorvegliato speciale con obbligo di soggiorno per consentire la partecipazione periodica e continuativa a cerimonie religiose sarebbe in insuperabile contraddizione con le esigenze in vista delle quali la misura di prevenzione è adottata, come risulta evidente sia dalla circostanza che l’autorizzazione dovrebbe valere in generale per tutta la durata della misura, sia dall’ovvia impossibilità di assicurare idonee misure di pubblica sicurezza nei luoghi di culto e durante la celebrazione di cerimonie religiose.
Da ciò risulta che l’ipotizzata estensione dell’art. 7-bis della legge n. 1423 del 1956 dal campo del diritto alla salute a quello del diritto di culto non rappresenterebbe un contemperamento tra esigenze costituzionali da armonizzare ma semplicemente la vanificazione di una a favore dell’altra.
D’altro canto, una volta considerato che la lamentata restrizione all’esercizio della propria professione di fede religiosa è condizionata da una situazione di fatto – la limitata diffusione sul territorio dell’organizzazione ecclesiastica – non si può escludere che, compatibilmente con le esigenze di sicurezza, l’obbligo di soggiorno sia fissato, in conformità con la richiesta dell’interessato, in un comune dove tale organizzazione esista e nel quale la persona sottoposta alla misura di prevenzione vada a fissare la propria residenza.

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 7-bis della legge 27 dicembre 1956, n. 1423 (Misure di prevenzione nei confronti delle persone pericolose per la sicurezza e per la pubblica moralità), introdotto dall’art. 11 della legge 13 settembre 1982, n. 646 (Disposizioni in materia di misure di prevenzione di carattere patrimoniale ed integrazioni alle leggi 27 dicembre 1956, n. 1423, 10 febbraio 1962, n. 57 e 31 maggio 1965, n. 575. Istituzione di una commissione parlamentare sul fenomeno della mafia), sollevata dal Tribunale di Catanzaro, in riferimento all’art. 19 della Costituzione, con l’ordinanza indicata in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta.