Sentenza 07 novembre 2003
Tribunale di Genova. Sentenza 7 novembre 2003: “Art. 570 c.p.: il ripudio islamico non rileva ai fini della concessione delle attenuanti generiche”.
(Omissis)
Il R., cittadini marocchino, dimorante in Genova deve rispondere del delitto di cui agli articoli 81 Cpv, 570 commi 1 e 2 n. 2 Cp perché con più omissioni esecutive di un medesimo disegno criminoso, serbando una condotta contraria all’ordine e alla morale delle famiglie si sottraeva agli obblighi di assistenza materiale inerenti alla potestà di genitore, non provvedendo a contribuire in alcun modo al mantenimento del figlio minore R. K. (nato in Italia il 3 marzo 1993), così lasciandolo privo di mezzi di sussistenza; in Genova dal mese di febbraio 2000 in permanenza fino alla data attuale, con la recidiva specifica infraquinquennale.
I coniugi – la donna K.M. è anch’essa marocchina ed è residente in Genova – conosciutisi in Italia, si erano poi sposati in Marocco, tornati in Italia qui nasceva il loro unico figlio R. K.; quindi ritornati in Marocco l’uomo divorziava dalla donna (la dichiarazione impropriamente definita di divorzio in quanto trattasi di recesso unilaterale a discrezione del marito, atto noto come ripudio – Talaq, è allegata agli atti; sul punto si tornerà infra perché si ritiene passaggio significativo per comprendere le condotte successivamente serbate dalle parti.
Il difensore dell’imputato negli atti preliminari al dibattimento riferiva di aver già proposto alla parte civile di accettare un versamento di somma sia pur parziale rispetto a quanto dovuto in relazione alla somma stabilita dal giudice minorile da versarsi mensilmente “quale contributo per il mantenimento del figlio”. Tale versamento però non è stato accettato da parte civile perché ritenuto esiguo. Il difensore rendeva noto altresì che in questa stessa udienza l’imputato desidera versare – in acconto su quanto deve – la somma di 500 euro e riferiva che di tale somma l’imputato ha la disponibilità per essere stato assunto come ar¬tigiano panificatore con contratto regolare dal luglio 2003; parte civile – presente in udienza – dichiarava al giudice e all’imputato che non intende accettare tale acconto.
Nel corso della sua deposizione la K. M. riferiva che dopo la nascita in Italia il 3 marzo 1993 del loro figlio K., una volta tornati in Marocco il marito le prese il passaporto e non si fece più vedere. La donna decise di tornare comunque in Italia, Stato nel quale si era trovata bene, e riprese a fare la domestica; successivamente, nel 1996, dopo un viaggio nel paese di origine portò in Italia il figlio con sé. Precisa di non aver più cercato da allora l’ex marito e di esser¬si sobbarcata ogni onere del mantenimento del bimbo con il suo salario di domestica, il padre però voleva vedere il figlio, lei decise di consigliarsi con un avvocato. Dice che il responso del legale fu «se paga gli alimenti può vedere il figlio altrimenti no» sicché si rivolse al Tribunale per i minorenni di Genova. Il giudice minorile con provvedimento del 28 ottobre 1996 affidava i1 minore alla madre disponendo che il padre potesse vederlo e tenerlo con sé secondo tempi e modi concordati con l’affidataria e comunque almeno due volte alla settimana nonché provvedendo perché il coniuge non affidatario versasse alla affidataria per il mantenimento del figlio la somma di £. 250.000 fino alla fine del 1996 e la somma di £. 300.000 dal 1997, con rivalutazione monetaria per gli anni successivi. La reazione al provvedimento giudiziario del padre fu immediata: si recò dalla donna e le disse “preferisco non vedere mio figlio piuttosto che pagare”. Ognuno prese la sua strada, l’uomo continuò ad abitare la casa in affitto che avevano al tempo del rapporto coniugale e a lavorare regolarmente tutti i giorni come panetterie (è un buon e ricercato artigiano panettiere), la donna prese una camera in affitto dal proprietario del panificio dove lavorava l’uomo: la loro vita, anche e soprattutto la vita del bambino, si svolgeva sotto gli occhi reciprocamente indifferenti dei due adulti nel microcosmo di un isolato della città ospite. La donna però voleva i soldi per il mantenimento del figlio stabiliti nel provvedimento del giudice minorile e l’uomo non li voleva dare: fu allora che lo denunciò. Costui venne tratto a giudizio per questo fatto davanti al Tribunale di Genova, il processo venne definito con sentenza di applicazione pena il 5 ottobre 1998. L’uomo incominciò allora a versare il dovuto. Tutto il dovuto fino al 5 ottobre 1998, e finalmente il padre prese a frequentare regolarmente il figlio. Non passò però molto tempo che l’imputato riprese a non adempiere esattamente: già il 1999 – a dire della donna – si chiuse con un suo credito (rectius, un credito a favore del piccolo K.) di £.1.700.000. È questa l’epoca in cui il valente artigiano panettiere decise dì mettersi in proprio aprendo una focacceria e che la teste ricorda aperta ancora nel 2001, del periodo successivo non è in grado di riferire quanto alle fonti di reddito del marita. Cοn il 2000 la donna smise di cercare il R. per farsi versare il dovuto perché ormai stanca dei suoi inadempimenti. Riferisce che si guadagna da vivere per lei e per il figlio continuando a fare la domestica a ore presso varie famiglie di Sestri Ponente e di non avere altri redditi, anzi quando il bimbo sta male e non può portarlo a scuola, è lei stessa che resta a casa con il piccolo e perde la giornata di lavoro. I1 Comune di Genova la aiuta economicamente con dei contenuti – ma assai costanti nel tempo, come si rileva dalle produzioni in atti – versamenti in denaro; le spese sono tante, specialmente di questi tempi in cui s’è scoperto che il bimbo soffre di una allergia e deve comperare le medicine: «è vero il padre non sa di questa malattia del figlio, ma è anche vero che sono quattro anni che si disinteressa del figlio, e allora che serve informarlo ?». Infine in risposta a domanda del difensore dell’imputato, si apprende che la donna si è trasferita dalla camera in un alloggio, «sempre lì però» e che se lo sta comprando con un mutuo. Il difensore della donna – ai fini di rimarcare lo stato di bisogno del nucleo madre figlio (e per quanto qui rileva del figlio) – ha però subito ricordato che è immobile il cui reddito è pari a 656 euro, che il fatto è stato segnalato nella domanda che la donna ha presentato per essere ammessa al patrocinio a spese dello Stato, che il reddito relativo non intacca la soglia di ammissibilità al beneficio, d’altra parte ha ricordato il difensore, le sovvenzioni in denaro del Comune di Genova dimostrano il suo stato di bisogno (rectius, del bambino perché sono contributi erogati espressamente a nome del figlio). Il giudice ha interrogato la donna se il padre avesse o non avesse – ed indipendentemente dall’inadempimento dell’obbligazione stabilita dal Tribunale per i minorenni soddisfatto gli obblighi di assistenza inerenti alla potestà di genitore (sulla necessità di acquisire dati processuali sul punto nel conoscere del delitto a giudizio, si dirà infra).
Il padre, ha risposto la donna, non si è mai curato del figlio, mai una volta che l’abbia portato a scuola che si sia interessato della sua crescita, che l’abbia portato dal dottore eppure sa bene «dove io abiti, sempre lì», precisa che un tempo il bambino era contento di vedere il padre, ma ora è lo stesso bimbo a non cercarlo più.
Infine il giudice – che già in atti preliminari al dibattimento aveva fatto presente alla donna (assicurandosi che comprendesse il concetto che le esprimeva e non solo il senso delle sue parole perché la K. M. parla perfettamente l’italiano) che l’accettare il parziale versamento proposto dal marito non a¬vrebbe assolutamente compromesso il suo diritto all’adempimento esatto e che tale diritto è indipendente dalla vicenda processuale a giudizio e dalla sua conclusione – dopo che la donna aveva deposto sulle difficoltà di vita che deve quotidianamente fronteggiare e superare per provvedere a sé e al figlio di loro domandava alla parte civile perché non aveva inteso accettare e non intendeva accettare tale somma, senz’altro parziale ma di viatico immediato. La sua risposta è stata «io non ho preso questi 500 euro che oggi R. mi ha offerto perché doveva darmeli prima di essere qui davanti a lei, sono quattro anni che si disinteressa del figlio e arriva questa mattina
con euro 500, non è una cosa carina».
L’uomo si è difeso dicendo di aver visto una volta il figlio nel 2001 a scuola e poi per caso una volta all’entrata dell’Expò (c’è lì infatti una aerea attrezzata di giochi per bimbi assai frequentata) e che la donna l’apostrofò di non andarla a trovare perché se no lo avrebbe portato in Tribunale. Riferisce che l’esperien¬za di panettiere proprietario fu fallimentare tanto che dovette chiudere. Pur tuttavia, poiché è conosciuto nell’ambiente dei panificatori, ha vissuto facendo il panettiere con impieghi precari e saltuari, finché da luglio 2003 è stato finalmente assunto regolarmente. Nel frattempo si è costituito una nuova famiglia con due figli, quanto a K. «è per lei che non vedo mio figlio perché io al bambino voglio bene». Precisa che una volta che gli pareva di aver trovato un lavoro, avvertì subito l’ex moglie dicendole «che forse riuscivo a saldare e lei mi ha detto o mi dai tutto o ti porto in Tribunale».
Questo il senso che le parti in udienza hanno dato al processo: questioni economiche di stampo civilistico, l’inadempimento all’obbligo di versare la somma stabilita dal Tribunale per i minorenni “quale contributo per il mantenimento del figlio”, e tanto sul pre¬supposto che la prova di detto inadempimento dimostrò di per sé il reato. In questa interpretazione della norma penale resa dalle parti in udienza le difficoltà di vita che la donna ha incontrato e incontra per provvedere alle esigenze quotidiane del bimbo a lei affidato sono intese quali conseguenze dell’inadempimento civilistico.
Non si condivide questa interpretazione perché circoscrive, arbitrariamente riducendola, la tutela che la norma penale appresta al bene protetto. Invero conseguenza logica di questa interpretazione è che una volta adempiuto alla obbligazione pecuniaria stabilita dal giudice a favore del minore, non potrebbe più sussistere la condotta delittuosa di far mancare i mezzi di sussistenza ai discendenti di età minore. Orbene se è vero che spesso in siffatte fattispecie è l’inadempimento dell’obbligazione civile che ha l’effetto di far mancare i mezzi di sussistenza ai discendenti di età minore è altrettanto vero che la tutela apprestata dalla norma prescinde del tutto dall’adempimento o inadempimento dell’obbligazione civile. Questo, nella corretta interpretazione del dato legislativo, altro non è che, e secondo i casi, il presupposto ovvero uno degli elementi tra gli altri da accertarsi per la valutazione del fatto-reato ed utile al più per valutare
se è integrato l’elemento psicologico del reato ma dopo che si sia fornita la prova della sussistenza dell’elemento materiale di aver fatto mancare i mezzi di sussistenza al minore.
D’altra parte deve rilevarsi che correttamente il Pm nella sua contestazione non ha fatto cenno alcuno all’inadempimento dell’imputato all’obbligo impostogli dal giudice minorile “quale contributo per il mantenimento del figlio” bensì gli ha contestato di essersi «sottratto agli obblighi di assistenza materiale inerenti la potestà di genitore, non provvedendo a contribuire in alcun modo al mantenimento del figlio minore R. K. (nato i1 3 marzo 1993) così lasciandolo privo di mezzi di sussistenza».
E che tale debba essere la corretta interpretazione della norma se ne ha riscontro nella giurisprudenza di legittimità che ha statuito che in tema di violazione degli obblighi di assistenza familiare, non vi è interdipendenza tra il reato di cui all’articolo 570, secondo comma n. 2, Cp e l’assegno liquidato dal giudice civile, sia che tale assegno venga corrisposto, sia che non venga corrisposto agli aventi diritto. L’illecito in questione è rapportato unicamente alla sussistenza dello stato di bisogno dell’avente diritto alla somministrazione dei mezzi indispensabili per vivere e al mancato apprestamento di tali mezzi da parte di chi, per legge, vi è obbligato. L’ipotesi delittuosa in questione, pur avendo come presupposto l’esistenza di un’obbligazione alimentare, non ha carattere sanzionatorio dell’inadempimento del provvedimento del giudice civile che fissa l’entità dell’obbligazione, con la conseguenza che l’operatività o meno di tale provvedimento non rileva ai fini della configurabilità del reato. Ciò è tanto vero che il provvedimento del giudice civile non fa stato nel giudizio penale né in ordine alle condizioni economiche del coniuge obbligato, né per ciò che riguarda lo stato di bisogno degli aventi diritto ai mezzi di sussistenza, circostanze queste che devono essere accertate in concreta (cfr. Cassazione Sezione Sesta, sentenza 3450/98).
Ciò posto si rileva che sulla base della testimonianza della madre affidataria è provato che il padre ha fatto mancare i mezzi di sussistenza al figlio minore. La donna infatti in tutti questi anni s’è dovuta impiegare come domestica per mantenere il figlio e non disponendo che del salario di tale lavoro per di più prestato a ore e per ore limitate in quanto costretta – come ha dichiarato – a necessariamente interrompere il servizio collaborativo alle famiglie a metà pomeriggio per accudire al figlio al termine del tempo pieno scolastico e così ricavando un guadagno assai inferiore rispetto a quello che potenzialmente potrebbe produrre; reddito complessivo che ulteriormente ancor di più si contrae nei giorni di malattia del bimbo perché essa madre rimane a casa per vegliare il piccolo con la conseguenza di perdere giornate di lavoro e relativo salario. D’altra parte le costanti reiterate negli anni e ripetute erogazioni in denaro dei Servizi sociali del Comune di Genova a favore di K. dimostrano che l’ente pubblico ha accertato lo stato di assoluta necessità di mezzi economici per provvedere alla sussistenza del bimbo. Né deve fuorviare il fatto che la donna si sia presentata vestita con abiti di qualche pregio, perché tanto dimostra cura di sé e non si può certo da questo particolare ritrarsi la certezza di buona capacità economica. Nemmeno rileva che la donna stia pagando un mutuo per acquistare l’alloggio presso cui abita. Sul punto, sulla consistenza della rata di mutuo, sul loro numero, sulla tipologia dell’alloggio nessuna indagine difensiva è stata fatta da parte imputata che ha voluto evidenziare il fatto che v’è particolare capacità di reddito da parte della madre poiché è in grado di acquistare un alloggio. In mancanza di tali elementi difensivi si deve valutare sulla base di quanto in atti, ed in atti è stata data la prova che la donna è nelle condizioni per essere ammessa al patrocinio a spese dello Stato.
E comunque sono queste tutte questioni in ultima analisi irrilevanti perché in tema di violazione degli obblighi di assistenza familiare, l’obbligo di fornire i mezzi di sussistenza al figlio minore ricorre anche quando vi provveda in tutto o in parte l’altro genitore con i proventi del proprio lavoro, atteso che tale sostituzione non elimina lo stato di bisogno in cui versa il soggetto passivo del quale, viceversa, costituisce la prova. (v. Cassazione Sezione sesta, 37419/01 che si inserisce nell’insegnamento costante della Corte di legittimità sul punto).
Si tratta ora di considerare se il padre fosse o meno nelle condizioni di provvedere i mezzi di sussistenza al figlio.
È esso padre un abile panificatore, ha già dimostrato di saper trarre dal suo lavoro denari a sufficienza per mantenere sé, ripianare nel 1998 il debito che aveva con la moglie a favore del figlio, mettersi in proprio con licenze amministrative a sé intestate aprendo una focacceria seppur fu poi intrapresa commerciale che dovette abbandonare. E conosciuto nell’ambiente dei
panificatori, per i due anni in cui non ha avuto lavoro continuativo ha comunque lavorato in modo saltuario presso diversi panificatori che necessitavano di una collaborazione e grazie alla sua capacità artigianale s`è guadagnato l’assunzione regolare da luglio 2003, nel frattempo si è costituito nuovo nucleo famigliare ed ha avuto due figli. Ciò posto è impossibile poter ritenere che a partire dalla data indicata in contestazio¬ne (febbraio 2000) vi sia stata per il padre la sola possibilità di versare per il mantenimento del piccolo K. m tutto solo 500 Euro (che la madre afferma ricevuti ne12000).
Invero in tema violazione degli obblighi di assistenza, l’asserita incapacità economica dell’obbligato può assumere valore di esimente, in virtù del principio ad impossibilia nemo tenetur, solo allorché sia assoluta e non sia ascrivibile a colpa dell’imputato; inoltre la indicazione della condizione di disoccupato non esime da responsabilità in ordine al reato di cui all’articolo 570, secondo comma, Cp, in quanto incombe pur sempre all’imputato – come per tutte le cause di giustificazione del reato – l’onere di allegazione di idonei e convincenti elementi indicativi della concreta impossibilità di adempiere. e d’altra parte al padre la situazione di bisogno in cui viveva il figlio era ben nota sia per conoscenza diretta sia perché lo stato di bisogno di un minore, il quale, appunto perché è tale, non é in grado di procacciarsi un reddito proprio, è un dato di fatto incontestabile per cui entrambi i genitori sono tenuti a provvedere per ovviarvi (Cfr. Cassazione Sezione sesta, sentenza 5482/85, 4152/91 e 37419/01).
E va già fin d’ora evidenziato – ma sul punto si tornerà infra in relazione al generale obbligo di assistenza – che la giurisprudenza di legittimità ha più volte ritenuto che non può avere alcun rilievo l’eventuale convincimento del genitore inadempiente di non essere tenuto alla prestazione dei mezzi di sussistenza ai figli minori quando l’altro genitore provveda in via sussidiaria a corrispondere ai bisogni della prole, tra¬ducendosi lo stesso convincimento in errore sulla legge penale, non scriminante, ai sensi dell’articolo 5 Cp, non ricorrendo nella specie un’ipotesi di ignoranza scusabile di una norma, tra l’altro corrispondente ad un’esigenza morale universalmente avvertita: l’obbligo sanzionato deriva da inderogabili principi di solidarietà, ben radicati nella coscienza della collettività, prima ancora che nell’ordinamento (Cfr. Cassazione Sezione sesta, sentenza 1748/91 e quinta,
sentenza 5447/95)
Vi è infine altra questione da considerare.
Di essa potrebbe apparire che non ve ne sia traccia espressa in imputazione, ma non può ritenersi che non vi sia presente. E questo non per volere del giudice bensì della nonna di legge. Invero l’articolo 570 Cp sanziona nella sua parte generale (con pena alternativa) la condotta di chiunque, serbando una condotta contraria all’ordine o alla morale delle famiglie, si sottrae agli obblighi di assistenza inerenti alla potestà dei genitori (…), per poi specificare nel secondo com¬ma che le dette pene si applicano congiuntamente a chi fa mancare i mezzi di sussistenza ai discendenti di età minore, (…).
Per contro il Pm – che si ripete, ha correttamente impostato l’imputazione (già in epigrafe riportata) – ha contestato all’imputato di essersi sottratto agli obblighi di assistenza materiale e non come prevede la norma agli obblighi di assistenza. Si tratta senz’altro e proprio a ragione della trama della imputazione di un mero errore materiale eppur tuttavia si deve per ragioni connesse alla completezza della motivazione, non potendosi a priori ritenere che parte imputata acceda tout court all’interpretazione della qualificazione materiale della assistenza quale mero errore materiale, rilevarsi che della norma incriminatrice non può cogliersi solo uno spicchio e contestare quella parte che è specificazione integrativa e non alternativá della condotta. In altri termini il far mancare i mezzi di sussistenza non è condotta da riguardarsi in sé, bensì è una delle ulteriori possibili manifestazioni (tanto frequente da essere tipizzata e normata) della condotta di colui che si sottrae agli obblighi di assistenza inerenti alla potestà dei genitori o alla qualità di coniuge.
Si intende con ciò affermare che non si condivide la interpretazione giurisprudenziale che monetizza i diritti/doveri intercorrenti tra i componenti una famiglia una volta che, subentrata la crisi, questa si sfaldi, sicché da una parte si ritrova il coniuge affidatario ed il minore (o i minori) e dall’altra il coniuge non affidatario dove il collegamento tra di loro, la cui sussistenza sia penalmente apprezzabile, è principalmente il dare e ricevere denari.
Tale interpretazione discende da una accezione formalistica del titolare dei diritti/doveri, per il quale padre, madre e figlio, nella loro qualità sarebbero una sorta di monadi isolate l’una dalle altre. Ma le norme costituzionali che disciplinano i rapporti etico-sociali
agli articoli 29, 30 e 31 Costituzione, individuano la famiglia come una sfera onnicomprensiva di più soggetti titolare di diritti, talché la disciplina giuridica che il giudice penale deve prendere in esame non può prescindere da queste considerazioni e la finzione formalistica deve rimanere estranea al procedimento applicativo della norma penale alla fattispecie concreta, perché la fattispecie concreta rientra nella fattispecie astratta descritta e disciplinata dalla Costituzione. Se diversamente si dovesse considerare, l’attività interpretativa del giudice, ancorata alla finzione giuridica del figlio minore inteso come una monade titolare dei diritti, si scontrerebbe con i criteri logico sistematici di garantire una vera tutela della vittima del reato. Invero è estraneo al concetto di genitore, quale figura comprensiva dei diritti doveri di cui all’articolo 30 della Costituzione, un concetto di padre che entri in relazione con il figlio su un piano esclusivamente mnetario, talché questa riduzione, spesso accolta per motivi di comodo da entrambi in genitori, ancorché per motivi divergenti, ha come conseguenza l’inaridimento della relazione genitore non affidatario/figlio minore, da un lato, e, dall’altro, una crescita in termini di rapporti esclusivi con il genitore affidatario. Questo fatto sul plano emozionale e sul quello psicologico assume connotati negativi, perché il disinteresse dell’altro genitore è suscettibile di compromettere gravemente lo sviluppo psichico dell’identità della persona minore che cresce con solo la metà di ciò di cui ha bisogno ed è probabile che sarà nella vita solo la metà di ciò che avrebbe avuto il diritto ed il dovere di essere. Residua al minore il taglio emotivo subito, e la separazione dalle relazioni con l’altro genitore prematura e traumatica rimane irrisolta per la vita.
Ne consegue la necessità di valutare, per quanto attiene alla responsabilità penale dell’imputato, se e come e perché questi non abbia esercitato tale diritto/ dovere, per comprendere se il diritto/ dovere di istruire ed educare sia venuto meno colpevolmente o incolpevolmente.
Nel periodo oggetto di esame, dal febbraio 2000, alla deposizione della madre – per la quale il padre non si è mai curato del figlio, mai una volta che l’abbia portato a scuola, che si sia interessato della sua crescita, che l’abbia portato dal dottore, eppure sa bene «dove io abiti, sempre lì», per concludere che un tempo il bambino era contento di vedere il padre, ma ora è lo stesso bimbo a non cercarlo più – il padre ha saputo (rectius, potuto) opporre se non che una timida difesa esclusivamente incentrata sugli ostacoli che afferma essere stati frapposti dalla donna (se mi vieni a trovare ti porto in tribunale, riferendosi al fatto che non pagava) e ai quali peraltro non ha assolutamente reagito non solo richiamando alla madre i suoi diritti/ doveri di padre e i correlati diritti/doveri del figlio (ma occorre averne la consapevolezza per saperli esercitare nell’ interesse del minore e tanto rappresentare alla madre in modo sereno ma convincente) ma nemmeno comunque richiamandosi al provvedimento del giudice minorile che gli consentiva la frequenza del figlio. Si è trincerato dietro l’affermazione “è per lei che non vedo mio figlio perché io al bambino voglio bene” che tradisce quella che era la sua convinzione di allora, rinunciare ad esercitare i suoi diritti /doveri di assistenza morale al figlio per evitare di essere nuovamente denunciato per questione di soldi. Sotto l’aspetto degli standard minimi di assistenza esigibili dal padre nei confronti del figlio quanto meno finché il figlio non abbia raggiunto quella strutturazione morale, spirituale, sociale, formativa e di idoneità al lavoro che gli consenta poi di affrontare la vita da adulto, dalla testimonianza della madre e dall’esame dell’imputato (il padre) emerge a chiare lettere la responsabilità penale di quest’ultimo seppur temperata nella sua graduazione dalla condotta di ostacolo frapposta dalla madre Per quanto riguarda il giudizio sulla valutazione della concedibilità delle attenuanti generiche, della determinazione della pena da applicarsi e della sua concedibilità, occorre distinguere la condotta serbata fino al 5 ottobre 1998 già oggetto di sentenza di applicazione pena da quella contestata nell’attuale procedimento a far tempo dal febbraio 2000. Così circoscritto il periodo oggetto di valutazione devesi comunque considerarsi il periodo già coperto dal giudicato per comprendere pienamente la condotta delle parti per il periodo ora valutabile.
In particolare in tema di reati contro la famiglia, allorché le parti provengono per nazionalità e quindi cultura, religione, formazione, tavola di valori di riferimento da contesti istituzionali e sociali del tutto diversi da quelli dello Stato ospite alla giurisdizione del quale sono sottoposti, è opportuno che il giudice per la completezza della conoscenza degli elementi oggettivi e soggettivi che sono alla base della sua decisione si interroghi – e sempre che disponga, si badi, di elementi certi e riferibili in concreto alle parti – sull’influenza che quei dati originari possano avere avuto sul fatto commesso in Italia: nel caso di specie, le parti sono entrambe marocchine, il matrimonio è stato contratto in Marocco ed in Marocco l’uomo ha sciolto secondo la procedura prevista dalla sua legge nazionale il suo matrimonio.
Non si tratta, sia ben chiaro, di accedere ad una forma surrettizia di introduzione e supervalutazione di istituti di altri ordinamenti giuridici nella valutazione del fatto e della personalità dell’autore, quasi si volesse indirettamente appannare il principio di territorialità della legge (articolo 3 Cp. Obbligatorietà della legge penale 1. La legge penale italiana obbliga tutti coloro che, cittadini o stranieri, si trovano nel territorio dello Stato).
Si tratta – una volta accertata la sussistenza del reato – di soddisfare le disposizioni di legge di cui agli articoli 132 – 133 Cp che impongono al giudice nell’esercizio del potere discrezionale di determinare la pena applicabile, di tener conto della gravità del reato desunta tra l’altro dalla gravità del danno cagionato alla persona offesa e dalla intensità del dolo; nonché della capacità a delinquere, desunta tra l’altro, dalla condotta e dalla vita del reo antecedenti al reato e dalle sue condizioni di vita individuale, familiare e sociale. Id est – nel caso di specie – di come possono aver inciso sulla condotta delle parti ed in particolare su quella dell’imputato la loro propria e comune tra loro cultu¬ra, religione, formazione, tavola di valori di riferimento di contesti istituzionali e sociali del tutto diversi dal nostro. D’altra parte prima ancora che obbligo giuridico è obbligo morale coessenziale alla funzione di giudicare di conoscere quale sia la realtà vera e non apparente della persona della quale si giudica quella determinata condotta descritta in imputazione e tanto al fine di applicare una pena che sia giusta in quanto effettivamente conformata e sul fatto e sul suo autore. È in atti la traduzione giurata dell’atto di divorzio, l’attento esame dell’atto consente di rilevare che non di divorzio si tratti bensì di recesso unilaterale a discrezione del marito, noto come ripudio – talaq. Il sistema legale coloniale ha influenzato lo sviluppo del sistema legale marocchino tranne che nel diritto di famiglia nel quale si è continuato ad applicare il di¬ritto islamico secondo la dottrina della scuola Maliki, quella che più si rifà alla Tradizione tra le quattro scuole di scienza giuridica (figh) dell’Islam. Ottenuta l’indipendenza nel 1956, nel 1957-1958 il Marocco si è dato un Codice delle questioni di stato (al-Muddwwana) che ha adottato principalmente le norme della scuola Maliki e in misura minore quelle delle altre scuole nonché della legislazione degli Stati islamici confinanti: in altre parole per i sudditi marocchini musulmani le questioni di stato si basano e si regolano sulla base della loro religione. Per gli articoli 53 e segg. del Moudouwana, il matrimonio può essere sciolto in due modi: il ripudio (talaq) ed il divorzio. Sebbene l’articolo 1 del Moudouwana definisca il matrimonio come un contratto legale con il quale uomo e donna si uniscono in un permanente rapporto coniugale, il marito gode del diritto di ripudio (articolo 44) a propria discrezione in quanto nessun motivo deve essere addotto a suo sostegno, esso si sostanzia (articolo 179 Cpc) nella dichiarazione resa davanti i due funzionari pubblici di diritto musulmano, gli Adoul, di voler ripudiare la donna (che però non deve essere in gravidanza); per effetto della riforma del 1993 la dichiarazione di ripudio non può essere omologata finché non interviene l’autorizzazione del giudice che deve tentare la conciliazione dei coniugi ed una somma, nella prassi di ammontare modesto, parametrata alla consistenza patrimoniale dell’uomo è data alla donna quale indennizzo di natura consolatoria (articolo 60). Il divorzio, per contro è un diritto che spetta alla donna ma è dalla legge circoscritto a soli cinque gravi casi ed è pronunciato dal giudice dopo una articolata procedura giurisdizionale.
Ed invero la dichiarazione in atti (dichiaro di divorziare per la prima volta e dopo consumazione del matrimonio dalla coniuge K. M.) del R. L. è stata resa dinanzi ai Notai di diritto musulmano presso il Tribunale di Prima Istanza di Kenitra (Regno del Marocco) in data 27 dicembre 1994, la coniuge ha dichiarato di non essere in gravidanza ed il coniuge ha versato una somma di poco superiore ad una volta e mezzo il suo stipendio; nella stessa data la dichiarazione è stata omologata dal Giudice marocchino e registrata agli atti della Sezione notarile di quell’Ufficio giudiziario. In particolare la prima dichiarazione di ripudio è revocabile. Si dà con essa inizio ad un periodo di separazione personale tra i coniugi di tre mesi nel corso del quale l’uomo a suo piacimento può cambiare idea e riprendere la donna con sé, se non lo fa il ripudio è definitivo ed il matrimonio sciolto.
Ciò posto si possono pienamente comprendere le ragioni alla base del comportamento perdurante negli anni della K. M. nei confronti dell’ex marito: una ferita che brucia ancora al punto che nella sua deposizione la donna ha compendiato il dramma della fine della sua vita coniugale «una volta tornati in Marocco (l’ex marito) mi prese il passaporto e non si fece più vedere» id est – ora lo possiamo comprendere – dopo il ripudio ha fatto decorrere i tre mesi per rendere definitiva la frattura coniugale. La K. una volta in Italia – resasi consapevole di essere in un ordinamento giuridico del tutto diverso da quello di origine, consigliatasi con un legale e avendo soggettivamente ritenuto da quella consulenza che il padre “se paga gli alimenti può vedere il figlio altrimenti no”, avendo verificato che in effetti il Tribunale per i minorenni nell’affidarle il piccolo K. ha stabilito a carico del padre una somma per il mantenimento del figlio che a lei deve essere corrisposta mensilmente – così come il marito un giorno la ripudiò come moglie, così lei ha in tutti questi anni di fatto ripudiato l’uomo facendo sì che questi capisse che per lei lui più che un padre è un erogatore forzato di denari a lei per il figlio: se vuol vedere il figlio che paghi, ma tutto quello che deve con rivalutazione e interessi, versare un acconto non serve. Ha appreso le leggi italiane, lo ha portato in giudizio e lo ha fatto condannare, lo ha fatto pagare e poi, ripresi gli inadempimenti, si è rivolto al patrocinio a spese dello Stato, si è scelta il difensore, lo ha di nuovo portato davanti al giudice, ha fatto tutto quello che aveva minacciato all’ex marito ogni volta che per caso l’incontrava. Il padre per conto, che ha sposato la donna in un contesto giuridico per il quale lei gli deve obbedienza, e nel quale il matrimonio si risolve in uno strumento per la procreazione al fine di assicurarsi la discenden¬za e che attribuisce al padre un diritto preminente sui figli assai più intenso e penetrante che nei paesi occidentali, non ha assolutamente tollerato quella che per lui è stata la sovversione di costumi cui è stato fatto segno da parte della donna. E via via si è sempre più allontanato non solo fisicamente dal figlio, si è ricostituito una famiglia ha avuto dei figli, e per venire al periodo in valutazione si è di fatto dimenticato del figlio da quattro anni. Sente la ex moglie, colei che per loro diritto originario le doveva obbedienza, come propria avversaria ed avversaria insubordinata e pone innanzi l’inimicizia che ha verso la donna financo all’interesse del bambino. Eppure sa bene che per la sua cultura e religione (e dunque diritto) di origine deve provvedere al figlio sotto ogni profilo fino alla pubertà (ed il bimbo ha oggi solo dieci anni) ed ha già
fatto concreta esperienza del fatto che per le leggi dello Stato ospite tale diritto/dovere lo deve condividere con la madre (l’assistenza tout court del primo comma, e quella che si specifica nel fornire i mezzi di sussistenza del secondo comma, n. 2 dell’art. 570 Cp). Non è bastato all’uomo rifugiarsi nel ben triste calcolo e ignava pratica del non vedere la ex moglie e dunque il figlio per sfuggire ai suoi doveri: “la separazione personale fa cessare la validità di alcuni obblighi contratti col matrimonio e il divorzio scioglie il matrimonio stesso; ma tali effetti, tuttavia, sono sempre circoscritti ai soli coniugi e non riguardano in alcun modo i figli, i quali conservano integri i loro diritti anche se i genitori dono divenuti fra loro estranei o magari nemici” come insegna con un decisum di valore universale la Corte di legittimità (Cassazione Sezione sesta, sentenza 7107/80).
Ne consegue che comunque si leggano gli atti non emergono elementi di meritevolezza tali da fondare la legittimità della concessione delle attenuanti generiche ed il connesso effetto premiale proprio della riduzione fino ad un terzo della pena da applicarsi.
Pena equa stimasi valutati – come sopra ampiamente illustrato – gli elementi tutti di cui all’articolo 133 cp, quella di sei mesi di reclusione ed Euro 200 di multa (mesi quattro ed euro 150, aumentati di mesi due ed euro 50 per la recidiva). Non vi sono motivi per ritenere che l’imputato non osserverà le prescrizioni proprie della sanzione sostitutiva della libertà controllata, e considerato che essa sanzione appare idonea a cogliere gli scopi della prevenzione generale e speciale nonché quelli retributivi nel contempo consentendo pienamente all’imputato il suo fattivo reinserimento sociale attraverso fattività di pianificatore, si sostituisce alla pena detentiva inflitta la libertà controllata per anni uno. Non vi sono elementi per quanto sopra dettagliatamente illustrato che consentano di fondare prognosi di ravvedimento e pertanto non si concede la sospensione condizionale della pena. Le spese seguono la condanna.
Condanna l’imputato al risarcimento del danno morale e materiale da liquidarsi in separato giudizio civile e alla rifusione delle spese di parte civile che liquida in base alla nota presentata in euro 750 oltre Iva e Cpa che pone provvisoriamente a carico dell’Erario.
Assegna provvisionale a favore della parte civile di euro 500 in quanto somma immediatamente disponibile perché offerta dall’imputato sebbene non accettata da parte civile.
Autore:
Tribunale Penale
Dossier:
_Islam_, Confessioni religiose, Famiglia e Religione
Nazione:
Italia
Parole chiave:
Assistenza, Danno morale, Alimenti, Talaq, Ripudio, Figli, Potestà genitoriale, Mantenimento, Affidamento, Islam, Matrimonio, Identità culturale, Religione
Natura:
Sentenza