Sentenza 07 marzo 1998, n.2530
Corte di Cassazione. Prima Sezione Civile. Sentenza 7 marzo 1998, n. 2530: “Delibazione: esclusione di evenutali integrazioni istruttorie”.
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE I CIVILE
Composta dagli Ill.mi Sigg. Magistrati:
Alfredo ROCCHI
Presidente
Pasquale REALE
Vincenzo CARBONE
Mario CICALA
Giuseppe MARZIALE
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
sul ricorso proposto da:
S. A., V. L., elettivamente domiciliati in ROMA, VIALE MAZZINI 132, presso l’avvocato S. IASONNA, rappresentati e difesi dall’avvocato GIOVANNI ROMANO, giusta procura in calce al ricorso;
Ricorrenti
contro
PROCURATORE GENERALE presso CORTE SUPREMA di CASSAZIONE; PROCURATORE GENERALE presso CORTE di APPELLO di NAPOLI;
Intimati
avverso la sentenza n. 2248-95 della Corte d’Appello di NAPOLI, depositata il 06-12-95;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 10-11-97 dal Consigliere Dott. Vincenzo CARBONE;
udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. Alessandro CARNEVALI che ha concluso per l’accoglimento del ricorso.
Fatto
Con istanza del 25 settembre 1995 A. S. e L. V. chiesero concordemente alla Corte d’Appello di Napoli la delibazione della sentenza del Tribunale ecclesiastico interdiocesano salernitano lucano del 14.12.1994, ratificata dal Tribunale campano d’appello e munito del decreto di esecutiva del supremo tribunale della Segnatura apostolica in data 10.7.1995.
Su difforme parere del P.G., la Corte d’Appello di Napoli, con sentenza del 6.12.1995, ha respinto l’istanza, ritenendo la sentenza ecclesiastica di cui si è chiesta la delibazione contraria all’ordine pubblico italiano, in quanto l’esclusione del bonum prolis da parte della sola donna che, volendo dedicarsi alla professione, aveva unilateralmente deciso di non aver figli, costituiva mera riserva mentale, irrilevante ai fini dell’invalidità del rito.
Avverso questa decisione A. S. e L. V. ricorrono per cassazione sulla base di tre motivi.
Diritto
Con il primo motivo si censura l’impugnata sentenza per violazione dell’art. 8.2 della legge 25.3.1985 n. 121, con riferimento all’art. 797 n.7 c.p.c. e del protocollo addizionale collegato alla 1.121-1985 relativo alla specificità dell’ordinamento canonico, sostenendo che erroneamente la corte d’appello ha qualificato il vizio che ha inficiato il matrimonio ecclesiastico riserva mentale, in quanto il proponimento di non avere figli era stato manifestato, ovvero quanto meno era in concreto conosciuto o conoscibile, dal S. prima del matrimonio.
Il primo motivo è fondato, in quanto la decisione impugnata si limita ad affermare che non fu espressamente concordato tra i coniugi l’esclusione del bonum prolis, senza accertare che il proponimento della donna fosse stato conosciuto o conoscibile dall’altra parte. Ed infatti, la declaratoria di esecutività della sentenza del tribunale ecclesiastico, che abbia pronunciato la nullità del matrimonio concordatario per esclusione da parte di uno soltanto dei coniugi di uno dei bona sacramenti, cioè per divergenza unilaterale fra volontà e dichiarazione, postula che tale divergenza sia stata manifestata all’altro coniuge, ovvero che questi l’abbia in concreto conosciuta, oppure che questi non l’abbia potuta conoscere a cagione della propria negligenza, atteso che, ove quella nullità venga fondata su una simulazione unilaterale, non conosciuta nè conoscibile, la delibazione della relativa pronuncia trova ostacolo nella contrarietà con l’ordine pubblico italiano, nel cui ambito va compreso l’essenziale principio della tutela della buona fede e dell’affidamento incolpevole (così Cass. 2.12.1993, n. 11951).
Più severa, la precedente giurisprudenza di questa Corte, cui si ispira la decisione della Corte territoriale partenopea, che pur rilevando che la delibazione della sentenza ecclesiastica dichiarativa della nullità del matrimonio concordatario, per esclusione da parte di uno soltanto dei coniugi di uno dei bona matrimonii, può trovare ostacolo nell’ordine pubblico, nel caso in cui detta esclusione sia rimasta nella sfera psichica del suo autore, perché non manifestata, nè comunque esplicitamente conosciuta dall’altro coniuge, alla stregua dell’inderogabile principio della tutela della buona fede e dell’affidamento incolpevole. Secondo questo più rigoroso indirizzo, la sentenza ecclesiastica dichiarativa della nullità matrimoniale per esclusione di un bonum matrimonii, in tanto non contrasta con l’ordine pubblico italiano, in quanto l’esclusione medesima sia stata accettata dall’altro coniuge o questi ne abbia preso atto, a condizione che l’intenzione sia stata portata a conoscenza del destinatario mediante un’espressa dichiarazione. Con la conseguenza che al fine della delibazione della sentenza ecclesiastica dichiarativa della nullità del matrimonio concordatario, per esclusione da parte di uno solo dei nubendi di proprietà essenziali dello stato di vita matrimoniale, cioè di bona matrimonii, occorre che tale partecipazione, in quanto deve presentarsi idonea ad ingenerare nel destinatario la consapevolezza della grave anomalia del vincolo coniugale rispetto al modello tipico del matrimonio religioso, richiede una chiara manifestazione di volontà e, quindi, una dichiarazione espressa e consapevolmente indirizzata a limitare inter partes gli effetti del consenso matrimoniale, la quale consenta di qualificare l’inerzia del destinatario come non opposizione circa la suddetta limitazione. Con l’ulteriore corollario che non possa ritenersi sufficiente un’esternazione basata su fatti ed atteggiamenti o comportamenti concludenti, salva restando la loro rilevanza probatoria quali elementi di supporto di un’esplicita dichiarazione. (Cass. 15.11.1985, n.5599).
Questo più rigoroso indirizzo, attestato sul supporto di un’esplicita dichiarazione all’altro coniuge, prima del matrimonio, è stato superato dalla successiva giurisprudenza, particolarmente attenta all’introduzione del nuovo concordato, tant’è che, da un lato, afferma l’avvenuta abrogazione della riserva di giurisdizione a favore dei tribunali ecclesiastici, in quanto il giudice italiano, se preventivamente adito, può giudicare sulla domanda di nullità di un matrimonio concordatario Cass., sez. un., 13.2.1993, n. 1824), dall’altro, sostiene che la pendenza del giudizio di divorzio impedisce la delibazione della sentenza ecclesiastica di annullamento del matrimonio (Cass. 18.4.1997 n.3345).
In questo scenario ermeneutico, che costituisce un vero e proprio “diritto vivente” in tema di rapporti tra matrimonio religioso e matrimonio civile, si va radicando il principio secondo cui la declaratoria di esecutività della sentenza del tribunale ecclesiastico, che ha pronunciato la nullità del matrimonio concordatario, per esclusione, da parte di uno soltanto dei coniugi, di uno dei bona matrimonii, cioè la divergenza unilaterale fra volontà e dichiarazione, postula che tale divergenza sia stata manifestata all’altro coniuge, ovvero che questi l’abbia in concreto conosciuta, oppure che non l’abbia potuta conoscere a cagione della propria negligenza. In altri termini, si pongono sullo stesso piano sia la dichiarazione esplicita, sia i comportamenti univoci e concludenti, atteso che, ove quella nullità venga fondata su una simulazione unilaterale non conosciuta nè conoscibile, la delibazione della relativa pronuncia trova ostacolo nella contrarietà con l’ordine pubblico italiano, nel cui ambito va compreso l’essenziale principio della tutela della buona fede e dell’affidamento incolpevole. In tal caso, l’indagine diretta a stabilire se la riserva mentale sia stata comunque manifestata all’altro coniuge o sarebbe stata da questi conoscibile ed a verificare se, in tal guisa, risulti osservato il limite della compatibilità con l’ordine pubblico interno – sub specie dell’inderogabile principio della tutela della buona fede e dell’affidamento incolpevole – deve essere condotta con esclusivo riferimento alla pronuncia delibanda (intesa l’espressione come comprensiva di entrambe le sentenze rese nel giudizio ecclesiastico) ed agli atti del processo canonico eventualmente prodotti, escludendosi, invece, la possibilità di una apposita integrazione con istruttoria probatoria da compiersi in fase delibatoria (Cass. 14.3.1996, n.2138; Cass. 19.5.1995, n.5548).
Nella fattispecie concreta, occorre accertare da parte del giudice di rinvio, sul testo delle sentenze ecclesiastiche, se la pregiudiziale della donna di non aver figli per poter realizzare la propria attività professionale sia stata manifestata alla controparte prima della celebrazione del matrimonio o era in concreto conosciuta o riconoscibile dallo stesso secondo l’ordinaria diligenza.
L’accoglimento della prima parte del primo motivo comporta l’assorbimento di tutte le altre censure, ivi compresa quello relativa alla violazione dell’ordine pubblico, superabile ad libitum, dalla controparte che, preso atto dell’esistenza della riserva mentale, dopo il matrimonio o dalla decisione ecclesiastica, se ne voglia avvantaggiare, chiedendo direttamente la delibazione e con ciò trasformando la riserva mentale in una simulazione bilaterale.
La sentenza va, pertanto cassata, in relazione al motivo accolto, e le parti rimesse ad altra sezione della Corte d’Appello di Napoli che provvederà anche sulle spese della fase di legittimità.
P.Q.M
La Corte accoglie il ricorso, cassa e rinvia anche per le spese ad altra sezione della Corte d’appello di Napoli.
Autore:
Corte di Cassazione - Civile
Nazione:
Italia
Parole chiave:
Ordine pubblico, Matrimonio concordatario, Bona matrimonii, Riserva mentale, Familgia
Natura:
Sentenza