Osservatorio delle libertà ed istituzioni religiose

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Osservatorio delle Libertà ed Istituzioni Religiose

Documenti • 15 Maggio 2005

Sentenza 07 marzo 1963, n.1020

Tribunale di Roma. Sezione IV penale. Sentenza 7 marzo 1963, n. 1020.

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il giorno 7 del mese di marzo 1963

IL TRIBUNALE DI ROMA – SEZ. IV

composto dai signori Magistrati: Dr. Semeraro Giuseppe – Presidente, Dr. Testi Carlo estensore, Dr. Bilardi Luigi – Giudici, con l’intervento del Dott. Di Gennaro Giuseppe S. Procuratore della Repubblica e con l’assenza del Sig. Ungaretti Giuseppe Cancelliere ha pronuciato la seguente

SENTENZA

nella causa penale

CONTRO

PASOLINI Pier Paolo fu Carlo e di Colussi Susanna, nato a Bologna il 5/3/1922, dom.to in Roma via Giacinto Carini n. 45
Libero presente

IMPUTATO del delitto p.p. dell’art. 402 C.P. per avere, nella sua qualita’ di soggettista e regista dell’episodio La ricotta del film “ROGOPAG” pubblicamente vilipeso la religione dello stato, rappresentando con il pretesto di descrivere una ripresa cinematografica, alcune scene dalla Passione di Cristo, dileggiandone la figura e i valori con il commento musicale, la mimica, il dialogo e le altre manifestazioni sonore, nonché tenendo per vili simboli e persone della religione cattolica.
In Roma, nel febbraio 1963.

SVOLGIMENTO DEL FATTO

Il 1° marzo u.s. il Procuratore della Repubblica presso il tribunale di Roma ordinava il sequestro delle pellicole cinematografiche relative all’episodio La ricotta facente parte del film “ROGOPAG” proiettato per la prima volta in Italia il 19 febbraio precedente nel cinema “Tor Lupara” sito in Mentana (Roma).

Ritenendo che l’episodio di cui sopra vilipendesse pubblicamente la Religione dello Stato, in quanto in esso Pier Paolo Pasolini, soggettista e regista, col pretesto di descrivere una ripresa cinematografica avrebbe rappresentato alcune scene della Passione di Cristo, dileggiandone la figura e i valori, sia col comento musicale che con la mimica, il dialogo e le altre manifestazioni sonore, nonché tenendo per vili simboli e persone della religione cattolica, il Procuratore della Repubblica promuoveva nei confronti del citato Pasolini l’azione penale col rito direttissimo.

L’imputato veniva così tratto in giudizio dinanzi a questa giustizia, competente per materia e per territorio per la udienza del 5 marzo u.s., per rispondere del delitto di cui all’art. 402 codice Penale.

Esperitasi l’istruttoria dibattimentale, con l’ampio e dettagliato interrogatorio del pervenuto; la visione della pellicola incriminata e la escussione del produttore del film Bini Alfredo, alla odierna udienza il PM chiedeva la condanna di Pasolini alla pena di un anno di reclusione senza benefici di legge.

Dal canto suo la difesa, che esibiva la sceneggiatura dell’episodio e una panoramica della critica cinematografica sul film “ROGOPAG” e in particolare “La ricotta”, invocava l’assoluzione dell’imputato con formula piena.

MOTIVI DELLA DECISIONE

Prima di scendere al merito della delicata ed interessante fattispecie di che trattasi, reputa utile il collegio, far precedere alcune precisazioni di carattere giuridico, circa la imputazione contestata al prevenuto Pasolini.
Innanzitutto va osservato che la competenza funzionale e per territorio del Tribunale di Roma deriva dal chiaro disposto dell’art. 14 della Legge 21 aprile 1962, n. 1l6l1, in base alla quale – è opportuno inoltre sottolineare – la commissione di I grado, preposta alla revisione dei film (art. 1) può dare, a norma del successivo art. 6, parere contrario alla loro proienzione in pubblico, esclusivamente ove ravvisi in essi sia nel complesso che nelle singole scene o sequenze, offesa la buon costume, inteso ai sensi dell’art. 21 della Costituzione.
Ora, per quanto attiene al film “ROGOPAG”, la detta commissione diede parere favorevole alla concessione del nulla osta alla proiezione in pubblico, sia pur col divieto per i minori degli anni 18, proprio per non avervi riscontrato, nei limiti della propria competenza, estremi di offesa al buon costume.
Dal canto suo, con particolare riferimento all’episodio La ricotta, il Procuratore della Repubblica ha ritenuto di ravvisarvi elementi di vilipendio della religione dello Stato. Di qui il proponimento dell’azione penale nei confronti di Pasolini, cui è stato addebitato un delitto, in merito al quale, ove pur lo avesse rilevato, assolutamente nulla poteva eccepire l’oragano di controllo amministrativo.
Ciò posto, rileva il Collegio che l’accusa è pienamente fondata.
Preliminarmente non sembra inutile rilevare circa l’espressione “Religione dello Stato”, di cui è menzione nel titolo e nel testo dell’art. 402 C.P., che essa era contenuta nell’art. 1 dello Statuto Albertino in cui era scritta che la religione cattolica Apostolica Romana è la sola religione dello Stato come quella che è professata dalla quasi totalità degli italiani.
Tale dichiarazione implicitamente abrogata dal Codice Penale del 1889 e’ stata ripristinato dall’art. 1 del trattato politico con la Santa Sede dell’11 febbraio 1929, approvata con legge 27 maggio 1929 n. 810. Il concordato poi, contiene – come si dirà qui di seguito – disposizioni che applicano questo principio regolando appunto i rapporti tra lo Stato e la Chiesa.
Ora, potrebbe sembrare, prima facie, esatto, con riguardo all’art. 7 della legge fondamentale, riconoscere alla regolamentazione concernente la religione cattolica, il carattere costituzionale per cui essa andrebbe considerata una istituzione costituzionale dello Stato.
Senonché, a parere del Collegio, è essenziale sottolineare, a prescindere dalla validità o meno di siffatta impostazione giuridica e delle conseguenze che agevolmente se ne traggono circa la confessionalità o meno del nostro Stato, che segnatamente alla stregua degli art. 3 e 19 della legge fondamentale, la locuzione “religione dello Stato”, non può intendersi, atteso l’attuale regime democratico, se non nel significato, alieno da ogni incrostazione confessionista, di religione cui lo stato italiano attribuisce una posizione di preminenza, in considerazione che essa è professata dalla maggioranza degli italiani: nel significato cioè di religione della maggioranza dell’elemento personale dello Stato, vale a dire del suo popolo.
Ciò precisato, devesi tenere presente che il criterio informatore dell.art. 402 del C.P. del 1930, come degli altri articoli compresi nello stesso Capo I (“dei delitti contro la religione dello Stato e i Culti ammessi”) del titolo IV (“dei delitti contro il sentimento religioso e contro la pietà dei defunti”) del libro II dello stesso codice è diverso da quello a suo tempo adottato in subiecta materia dal codice penale del 1889.
Questo mirava infatti a proteggere direttamente non tanto la religione in sé considerata, quanto la libertà religiosa individuale, sicché le relative norme erano collocate senza il titolo “dei delitti contro la libertà dei culti”; per contro il legislatore nel 1930 ha inteso con le norme di cui agli art. 402 e segg. del C.P. elevare ad oggetto specifico della tutela penale il sentimento religioso, quale indiscusso patrimonio morale di un popolo, quale forza spirituale operante nella nostra società e concorrente al perseguimento dei fini dello Stato.

(Omissis)

Quanto sopra rilevato in linea di diritto, è necessario ora procedere all’esame del film La ricotta, di cui il Collegio ha preso attenta visione, al fine di stabilire se esso, nel complesso e in alcune particolari sequenze, abbia o meno contenuto obbiettivamente vilipendioso, nel senso testé delineato, della religione.
Il film racconta la giornata di lavoro di una équipe di attori e di comparse, intenta a rappresentare per la ripresa cinematografica in esterni, alcune scene della Passione e morte di Gesù Cristo.
L’attenzione dello spettatore è polarizzata sul personaggio principale dell’episodio rappresentato da un certo Stracci, povero, misero individuo che nel film è destinato formalmente a impersonare il buon ladrone e che nella vita reale costituisce il simbolo cristallino di quel sottoproletariato senza mezzi e senza educazione che la società costringe ai margini del vivere civile e lo Stato non aiuta e non tutela; di quel sottoproletariato, cioè, che campa alla giornata, è totalmente privo di mezzi necessari per la propria elevazione fisica e spirituale, e che lavora, suo malgrado, solo quando sporadicamente ne ha l’occasione.
La ricotta è dunque la storia di Stracci, un uomo disgraziato, indifeso, abbandonato a se stesso, ma fondamentalmente buono e generoso, che ècostretto a lavorare anche quando è malato, che cede il cibo datogli da chi lo ha precariamente ingaggiato come comparsa, alla sua numerosa, povera famiglia, che sopporta il duro lavoro sotto i morsi feroci della fame, dalla quale mai è riuscito a riscattarsi; e se un espediente escogitato e attuato fra una pausa e l’altra del lavoro, gli consente di disporre di mille lire, egli non esiterà a impiegarle interamente nell’acquisto di ricotta.
Sarà proprio l’ossessivo avido e assurdo ingurgitamento di questa e degli altri cibi deviziosamente offertigli dai suoi compagni, sia pur per scherno e derisione, che lo condurrà di lì a poco a morte, quando inchiodato sulla croce, innalzata con le altre sulla collina che dovrebbe significare il Calvario, sta per dare vita cinematograficamente alla scena della Passione e delle morte di Cristo e dei ladroni. Il film si chiude col commento sul tragico fatto profferito dal regista della équipe: “povero Stracci, la sua morte è stata il solo suo modo di fare la rivoluzione”.
Questa per sommi capi eè la trama del film che di per ée non appare vilipendiosa della religone cattolica, che del resto è estranea, pur se è dato cogliere un significato vagamente religioso nella morte in croce del protagonista, il quale colle sue sofferenze induce facilmente a pensare alla morte di Cristo, pure condannato da una società ottusa e sorda ad una fine ignominosa.
Al riguardo si potrebbe aggiungere che è nel significato e nell’essenza della religione cattolica, per chi accettandone e riconoscendone il valore transumano e trascendente ravvisi nel Cristo del Calvario l’uomo – Dio che si fece crocifiggere per la salvezza delle anime, accostare le vicissitudini dell’uomo che soffre a quelle del Salvatore, per trarre da questo raffronto, conforto o forza di sopportazione e di rassegnazione, nella speranza di una vita ultraterrena che ricompensi da tutti mali e le disgrazie patite.
Nulla dunque da osservare o da eccepire sulla trama del film, e in definitiva sul significato del messaggio sociale in esso contenuto, così come lo ha inteso profilare e materializzare Pasolini, dando vita al suo personaggio protestatario.
Del resto non ignora il Collegio le precedenti opere dell’imputato, come scrittore e come regista cinematografico.
Non è la prima volta che egli affronta con la sua cultura e la sua educazione, sia pur condizionato dalle personali vedute che costituiscono ad un tempo, sotto il profilo artistico, l’essenza e i limiti delle sue opere, il tema del sottoproletariato in generale.
D’altra parte l’imputato è stato esplicito, quando ha dichiarato che Stracci vuole essere il simbolo del sottoproletariato da tutti ignorato e che la sua morte è un modo di dimostrare la sua esistenza, di porre cioè il problema della sua esistenza.
Ciò non contrasta poi con quanto assunto dal produttore Bini, secondo cui, se il filone centrale dei quattro episodi del film “ROGOPAG” è costituito dal vaglio critico dei diversi aspetti di uno stesso fenomeno, il condizionamento cioè dell’uomo nel mondo moderno, nell’episodio La ricotta Pasolini ha inteso occuparsi proprio di quella parte di umanità non ancora assoggettata a tale stato di condizionamento.
L’imputato ha però escluso che fosse sua intenzione, sia pur recondita e inconscia, vilipendere la religioine cattolica; anzi ha aggiunto che proprio sotto il profilo obiettivo il film non conteneva alcunché che potesse vilipendere la religione, precisando che la parte religiosa era soltanto “la cornice dell’opera” e, ancora, che il senso del film non era la polemica religiosa o almeno non era questa una componente essenziale del film.
Il Collegio è di avviso nettamente contrario, nel senso che la trama del film e il messaggio che se ne ricava, ha un contenuto certamente sociale, essa è però articolata, nelle sue scene, nelle sue inquadrature, nelle sue sequenze e nei commenti musicali e verbali che questa di volta in volta accompagnano, in guisa tale che offre Stracci, simbolo dell’uomo – vittima della società, un’altra ben più nobile e più degna entità viene gratuitamente immolata allo spirito negatore e al sentimento distruggitore di Pasolini, la religione cattolica, nel film apertamente dileggiata, schernita, derisa, immiserita nei suoi simboli e nelle sue manifestazioni più intime ed essenziali.
Pasolini ha spiegato quale è stata l’occasione e quale la causa profonda perché Stracci, simbolo del sottoproletariato, è stato accostato alla Passione di Cristo, nelle vicende della lavorazione di un film su tale argomento.
Secondo l’imputato lo spunto del racconto gli è stato offerto dal fatto di cronaca della morte di una comparsa durante la ripresa cinematografica dell’eclisse di sole del 1961.
La causa vera di tale accostamento tra Stracci e la Passione di Cristo, sempre a dire di Pasolini si giustificherebbe artisticamente perché questa “veniva ad essere la proiezione fantastica, concreta, visiva di un elemento ideale, intimo del personaggio” di cui sarebbe palese la profonda seppur istintiva e primitiva religiosità.
Ora, è un dato in effetti obiettivo che Pasolini ha volutamente inquadrato il suo simbolo nella visuale da lui artisticamente sentita, cogliendolo cioè durante la sua giornata lavorativa di comparsa impegnata nella rappresentazione cinematografica della Passione di Cristo.
Ciò posto, nessuno dubita che il regista ha trattato il suo personaggio-simbolo con estrema pietà e religiosità, se con quest’ultima parola si intende il rispetto, la venerazione ostentata verso la sua creatura, da tutti derisa e dileggiata e in definitiva verso chiunque si debba nello Stracci riconoscere.
Allo spettatore non sfugge davvero la mistica sacralità delle scene che inquadrano Stracci cha mangia, i suoi familiari che mangiano, Stracci che è alla ricerca disperata di cibo: mistica della fame e del bisogno, accentuata da una particolare musica sacra (il Dies Irae): mistica mai dileggiata, mai derisa, mai ridicolizzata, come purtroppo accadrà invece ogni qual volta il regista tratterà le parti veramente sarcre del film, ogni qual volta egli si accosterà a Cristo e ai personaggi della tradizione cattolica. Tale religiosità, il regista ha evidenziato quando a mano a mano, sequenza per sequenza, ha innalzato Stracci, che pur nel film doveva impersonare il buon ladrone, alla dignità del vero Cristo, dell’uomo-simbolo che morendo in croce dileggiato e deriso, soltanto nella morte trova il mezzo di dimostrare la propria esistenza. In questi sensi e con questi limiti può accettarsi la tesi del prevenuto circa la religiosità del film e del suo personaggio e in definitiva circa la propria religiosità. Trattasi però di una religiosità particolare, propria del soggetto che la evidenzia e come tale mai elevata e spiritualizzata. Invero, per rendere atrocemente evidente la sofferenza del Cristo terreno inchiodato sulla croce, Pasolini, fedele alla sua impostazione ideologica, non può non fare subire a Stracci il supplizio dei cibi e delle bevande offertegli e poi negategli da altri sottoproletari: il tormento e il desiderio della donna formosa che egli non può avere; tutto si riduce per Pasolini ad una questione di primordiali esigenze fisiche non soddisfatte, ed è per questa insignificante negazione di beni materiali che Stracci morirà sulla croce.
La religiosità che Pasolini connatura al suo personaggio è dunque una religiosità che rispetto alla entità cui è stata volutamente contrapposta è in verità chiaramente antireligiosa, in quanto concretatasi in azioni vilipendiose del bene tutelato al quale si pone col suo racconto in antitesi.
In altri termini Pasolini, proprio per servire, illustrare ed evidenziare la religiosità del racconto, di Stracci e quindi la propria concezione della religiosità ha voluto immotivatamente aggredire una entitaà, artatamente presentata come del tutto antitetica al proprio sentimento di religiosità e cioè la fede cattolica, nelle sue manifestazioni più mistiche che attingono alle tragiche vicende terrene dell’Uomo-Dio e quindi dei suoi simboli essenziali.
Nessuno, credente o meno, che guardi con spirito sereno la pellicola, può negare che le immagini di alcune sequenze nella situazione in cui di fatto vengono inquadrate e nel loro accoppiamento ora a musiche ora a parole, siano vilipendiose della religione cattolica.
Va precisato che nel film, in bianco e nero, alcune sequenze ritraggono gli attori e le comparse in libertà, quando cioè non sono impegnati ad agire sotto la macchina da presa, altre invece li ritraggono nell’atto in cui danno vita a scene cinematografiche della Passione di Cristo.
Ora è agevole rilevare innanzitutto che il materiale della pellicola qualitativamente e quantitativamente più consistente ai fini della nostra indagine è fuori – si badi bene – della economia dei fini, pur chiaramente messi avanti dal regista per giustificare la sua opera; e, ancora, che esso è preteso più o meno sfrontatamente il fine delittuoso di prendersi di volta in volta beffa e lazzo della religione.
Basti pensare alle belle scene che il regista ha voluto a colori – armonici, limpidi, perfetti – rappresentanti la Deposizione di Gesù.
Trattasi di due quadri viventi realizzati in maniera pregevole, copie artistiche di due opere pittoriche rinascimentali, rispettivamente del Rosso Fiorentino e del Pontormo. Senza volersi indugiare nell’esame circa il valore intrinseco dei dipinti, nella ricerca della corrente artistica cui appartenevano gli autori, in relazione all’epoca in cui le opere furono compiute, e senza abbandonarsi alla non necessaria, quanto sottile indagine diretta a cercare le più o meno recondite sfumature di espressione che in esse è consentito ai critici e agli iniziati di cogliere, sta di fatto che le due Deposizioni, pur nella loro tormentata umanità, emanano un colore profondamente religioso, almeno per chi, credente e non, le osservi con occhio sereno, scevro da riserve, da pregiudizi e da rancori ideologici, sia per la purezza dei colori e delle immagini, sia per il loro contenuto altamente religioso, in quanto afferenti al momento in cui Cristo, immolatosi per la redenzione degli uomini, viene staccato dalla croce e mestamente composto dalle pie donne che già amaramente avevano pianto ai suoi piedi.
E indubbiamente che con questi quadri viventi il regista è riuscito a dar vita ad alcune sequenze idonee a provocare un profondo sentimento di religiosità e un profondo seppur semplice misticismo. Lo spettatore è quasi portato in questa atmosfera intima che promana la pellicola a partecipare alla Passione della crocefissione che rivive sulla scena, spiritualmente sollevato da un empito di venerazione e di rispetto.
Eppure proprio questa atmosfera artatamente creata dal regista viene ripetutamente profanata, distrutta, irrisa in maniera tanto turpe quanto inopinata e immotivata, in guisa tale da offendere la più parte degli spettatori che non guardino con occhi e spirito irriverenti.
E’ quanto accade per il quadro vivente della deposizione del
Rosso Fiorentino. Ad esso viene prima accoppiato come commento musicale, un “twist” e poi un “cha cha cha”, musiche che irrompono, nella loro irriverente profanità, sulla croce, sul viso dei santi, del Cristo morto, della Madonna.
In una seccessiva sequenza, il bel volto del Cristo, incorniciato da fulva capigliatura e serenamente composto nell’immagine della morte, proprio nel momento di una profonda e mesta religiosità della scena, si contrae inopinatamente in un riso sguaiato quando cioè la Madonna, con voce dolente, e straziata, ha finito di profferire ai suoi propri piedi le antiche, semplici purissime parole: “figlio, l’alma t’è uscita, figlio della sparita, figlio della smarrita, figlio atossicato, figlio bianco e vermiglio”.
All’intensa religiosità della scena, al profondo misticismo che da essa si effonde, corrisponde dunque, di volta in volta, con pari intensità il dileggio gratuito, lo scherno, la irrisione immotivata.
Raramente, ad avviso del Collegio, potrebbesi con tanta irriverenza irridere alla Croce, al Cristo, alla sua passione e morte. Ma non basta. Anche in una successiva sequenza che pregevolmente ritrae in un quadro vivente la Passione del Pontormo, pure a colori, Pasolini ha voluto e saputo dar vita ad una religiosa atmosfera, analoga a quella di cui sopra si è parlato.
Ebbene, anche su questa sequenza, irrompe prima irriverentemente, quale commento musicale, un ballabile; la religiosità della scena già così turbata, sarà poi definitivamente distrutta quando, essendo il Cristo, che doveva essere ritratto nell’atto della sua deposizione, malauguratamente rovinato a terra fra le sguaiate risate delle altre comparse che interpretano i vari personaggi sacri del quadro, sferzante e ingiurioso sul crocefisso, sulla Madonna, sui santi ritratti di volta in volta in primo piano, si alza il grido di una voce fuori campo “cornuti, cornuti, cornuti”.
Può seriamente attendersi la giustificazione, per quanto concerne le musiche, che trattasi di incresciosi ma non voluti errori di esecuzione, per quanto riguarda la sguaiata risata di Cristo, che non questi ma la comparsa che lo interpreta intende irridere ai suoi compagni di lavoro e specialmente alla donna che interpreta la Madre di Dio, nell’udire per di più ripetutamente le strane e incomprensibili parole, che dettò l’animo ispirato di Jacopone da Todi?
Ci si può acquietare pensando che il grido “cornuti” fosse diretto a colpire soltanto le comparse, le quali avevano in sostanza rovinato la scena? In altre parole può accettarsi la tesi che tutto quanto avviene nel film per ciò che riguarda le scene sacre e religiose attiene alle comparse che agiscono e che in definitiva il film è la fedele documentazione della condotta ignorante, altamente irriverente e irreligiosa di individui chiamati ad interpretare parti di contenuto sacro, cui essi sono spiritualmente estranei?
A tali interrogativi devesi, ad avviso del Collegio, rispondere negativamente.
Invero con il ripetuto oltraggio della musica, con la risata sguaiata del Cristo-comparsa, di cui al dipinto del Rosso Fiorentino, con gli insulti rivolti ai personaggi sacri della Passione del Pontormo, è in realtà il Cristo degli altari, il Cristo della tradizione a essere dileggiato, schernito, deriso.
Consegue che gravemente offeso ne risulta il sentimento religioso della maggioranza degli italiani, che nel Cristo di cui è dileggiata la Passione e morte in Croce, riconoscono piu’ che il simbolo, l’essenza e l’intima sostanza della loro religione.
Davvero puerili seppur apparentemente esaurienti, appaiono dunque siffatte giustificazioni, come quelle dirette a far risalire ai personaggi del film la responsabilità delle loro azioni, nel senso che essi sono ritratti come sono soliti pensare ed agire, e quindi a distinguere tra attori e comparse da un lato e personaggi divini o comunque sacri da essi rappresentati dall’altro.
La realtà è ben altra ed essa non sfugge, nonostante le abili elucubrazioni giustificative del prevenuto, al Collegio. Può convenirsi con Pasolini quanto egli afferma che la parte religiosa del film fa da cornice all’opera, giacchè in effetti la vicenda narrata è inquadrata nel fenomeno religioso in cui di volta in volta si rispecchia, con modalità però senz’altro vilipendiose per la religione.
E’ un fatto che il cinema è stato il mezzo scelto da Pasolini per manifestare il proprio pensiero, per diffondere le proprie istanze e tutti sanno che il cinema è un mezzo efficacissimo di comunicazione di massa.
Ora, con la sua opera, Pasolini non si rivolge soltanto ad una élite di intellettuali, perché, nella loro sufficienza, traggono da essa motivo per disquisire e sofisticare su cose e sentimenti sacri, di cui magari, nella loro evoluta incredulità, hanno maturato il superamento. E neppure l’opera di Pasolini è destinata soltanto alla meditazione di chi, con la propria cultura e la propria educazione religiosa, non si sente affatto scalfito nella sua fede ragionata, dalla grossolana aggressione ai propri sentimenti religiosi.
L’opera di Pasolini è destinata a tutti e cioè anche alla massa compatta del popolo italiano, ancora sana e gelosa del proprio patrimonio spirituale, ma appunto per questo meno difesa e più soggetta a subire gli attacchi ideologici di chi, con disinvoltura ed abilità, riesca a mettere in ridicolo e a immiserire le componenti essenziali della sua credenza.
Di qui la indiscussa idoneità della pellicola a offendere, mediante il vilipendio della religione, quel patrimonio.
Ora, se è vero che la libertà di opinione e di creazione è garantita dalla Costituzione, per cui il Pasolini è liberissimo di pensarla come crede in materia religiosa, anche perché questo fatto della coscienza individuale è indifferente al mondo esterno, al medesimo è pero’ assolutamente interdetto di vilipendere la religione cattolica. La libertà di pensiero incontra infatti dei limiti nella sua manifestaizione e tra questi il diritto positivo ha posto in divieto di schernire e dileggiare la religione dello stato, proprio in quanto, quale patrimonio della maggioranza degli italiani, rispecchia un sentimento collettivo meritevole da parte di chicchessia del più alto e rilevante rispetto.
Che Pasolini abbia dunque dileggiato al religione non può revocarsi in dubbio, alla luce di quanto evidenziato.
Basterà qui aggiungere che è proprio lo spirito del film ad essere improntato a questa aperta quanto immotivata derisione della religione, ora schernita, ora disprezzata, ora insozzata.
Al riguardo, può concordarsi, circa il mistico quadro vivente del Rosso Fiorentino, la sequenza in cui una voce fuori campo ingiunge ad una comparsa che sulla croce raffigurava un santo, di togliere le dita dal naso. Gioverà pure ricordare i vari bivacchi delle comparse, durante le pause del lavoro, sulle croci poggiate a terra; che, pur pezzi di legno, strumenti di lavoro, rimangono tuttavia sacre espressioni della relligione, destinate di lì a poco a far rivivere la Passione e Morte del Cristo; le sequenze in cui Stracci, in croce, contrapposto al vero Cristo, biascicherà voglioso: “ho fame”; e ancora lo stiptease di una redenta peccatrice che finisce per mostrare discinta i seni nudi alle altre comparse inchiodate sulle croci, che attendono di essere innalzate.
Del pari indubbio significato vilipendioso, se logicamente inserite, come è doveroso, tra le scene più apertamente irriverenti della Passione e Morte di Cristo, hanno le sequenze che in primo piano ritraggono, in una successione di stacchi, i vari collaboratori del regista nell’atto di ripetere l’ordine di allontanare dal campo di ripresa le tre croci, stante la necessità di filmare altre scene.
Il regista dell’équipe aveva, è vero, con voce stanca e sommessa disposto: “via i crocifissi”. Eppure tale legittimo desiderio, ripetuto di volta in volta da facce diverse, si trasforma, atteso il mdo come viene manifestato e l’atteggiamento di chi lo esprime, in un grido, in una istanza corale, in una imperiosa necessità; divenuta il grido e la volontà di una società imbestialita contro il Cristo degli Altari, che deve essere scacciato. Significativo al riguardo è soprattutto il viso arrabbiato e scomposto della donna, l’ultima in ordine di ripresa, che grida “via i crocifissi” e la cui presenza – si noti bene – è assolutamente ingiustificata, non facendo parte dell’équipe.
Ma Pasolini non si contenta di ciò e fa profferire il grido, ormai divenuto blasfemo, persino da un cane lupo, inquadrandone il muso in primo pianoe fornendogli la voce arrochita di un uomo.
Questa sequenza, che l’imputato ha callidamente spiegato con la necessità di fare una gag, di dar vita cioè a un breve intermezzo comico (il che però – rileva il Collegio – si verifica, ogni qualvolta il regista si accosta alle cose sacre), richiama subito, ripreso in guisa tale che la sua corsa diventa una comica fuga alla Ridolini, si fa due volta segno della croce davanti ad una edicola sacra.
Il gesto è fugace, ma lo spettatore attento ben nota queste sequenze, che di per sé non irriverenti, lo diventano per il modo come sono state riprese.
Anche esse ad avviso di Pasolini, sono delle gag; sta di fatto però che l’imputato ha sentito il bisogno di servirsi di intermezzi comici del film, solo quando ha trattato di cose e simboli sacri.
Ora l’aspetto ridicolo e irridente della situazione è questo: che a un cane si fa esprimere un pensiero umano diventa irriverente e blasfemo, e all’uomo, soltanto quando è ritratto come una marionetta, si fa compiere il segno della croce.
E’ dunque di tutta evidenza che tali scene sono assolutamente estranee all’economia del racconto, come estranee ad esso, attese le finalità sbandierate dal prevenuto, sono tutte le sequenze sopra illustrate e commentate. La loro presenza trova però una giustificazione logica, non certo sul piano artistico, che sostanzialmente in esse difetta, ma su quello contenutistico del film, che dunque è e vuole essere un’aperta totalitaria grossolona derisione (solo apparentemente occasionale) della religione, nelle sue fondamentali credenze, nei suoi mistici riti, nella sua essenza.
A questo punto non resta al Collegio che accertare la ricorrenza o meno, attesa la ritenuta materialità del vilipendio, dell’elemento morale del reato, in relazione all’attegiamento psichico dell’agente. Ora, è noto che la più autorevole dottrina e la giurisprudenza del supremo Collegio, non richiedono per la sussistenza del delitto il dolo specifico, necessario e bastevole essendo la volontà cosciente del fatto, la volontà cioè dell’azione rivolta alla produzione dell’evento lesivo, con la piena consapevolezza della idoneità della condotta a produrre tale risultato.
(Cass. sez. III 5 novembre 1959, Cavallaro)
Nel caso di specie, pertanto, anche se si volesse escludere nel Pasolini il fine specifico di vilipendere la religione, devesi riconoscere per quanto fin qui esposto che egli ha avuto piena consapevolezza dell’offesa che alla religione derivava dagli atti di vilipendio deliberatemente commessi.
Già si e’ accennato ai dedotti fini leciti e legittimi cui l’opera cinematografica si sarebbe ispirata; o il fine di cosentire al sottoproletariato nel tempo in cui la storia lo sta cancellando, di far testimonianz di sé, o quella di mettere in risalto l’empietà dei cineasti per trattare argomenti degni dalla massima pieta’ e rispetto; o quello di denunciare, con la volgarità ironica, cinica, ridanciana nel mondo contemporaneo, la sua intima fondamentale incredulità verso una religione, che avrebbe fatto il suo tempo e che per sopravvivere dovrebbe adeguarsi alle nuove esigenze dell’uomo.
Tutti questi fini cui la condotta di Pasolini si sarebbe ispirata, escluderebbero a parere della difesa ed eliderebbero quello di vilipendere la religione cattolica.
Ora, il collegio non nega che specie nei delitti di vilipendio, gli atti, le parole, i gesti di per sé soli possono anche non rivestire il carattere vilipendioso seppur obiettivamente abbiamo “valenza” ad offendere, occorrendo la volontà oltraggiosa che dà calore e vita e significato alle parole, ai gesti, alle immagini.
E’ esatto pertanto sostenere che la volontà’ vilipendiosa del delitto ex art. 402 C. P, si pone come una particolare intenzionalità di circondare di scherno, di ridicolo, di disprezzo il bene prodotto. Questa particolare intenzionalità se è elemento essenziale e costitutivo del delitto e se assegna un ruolo decisivo sull’elemento psicologico del reato, non è però tale da fargli assumere qualifica diversa dal dolo generico, giacché, voluta la condotta vilipendiosa, si integra necessariamente anche l’elemento soggettivo del reato.
Ma nel caso di specie, l’intenzione di Pasolini di deridere e schernire la religione cattolica, che appunto conferisce alle parole, ai gesti, alle situazioni, alle musiche di una o più sequenze cinematografiche carattere vilipendioso, appare manifesta nelle varie scene sopra illustrate nel film incriminato, proprio avuto riguarda al tempo e alla modalità con cui determinate musiche sono state impiegate, alle situazioni in cui alcune scene sono state inquadrate, alla qualità dei destinatari di determinare espressioni ingiuriose, alla tecnica e ai toni con cui determinati fatti sono stati narrati e determinate persone sono state fatte agire e parlare.
Del resto si è detto ampiamente sopra.
Ritenuta quindi in Pasolini la manifesta intenzione di vilipendere, è del tutto irrilevante andare alla ricerca e all’analisi dei moventi (motivi e fini) della sua condotta, che restano del tutto ad di fuori della fattispecie di cui alla norma penale, e che anche se leciti, non possono discriminare l’azione vilipendiosa dell’imputato.
Ma da quanto fin qui esposto devesi pure escludere che Pasolini abbia esercitato il diritto di critica della religione. Si noti bene, Pasolini ha sempre negato di aver voluto fare della polemica religiosa e quindi di aver voluto criticare la religione; mentre è fuori dubbio, ad avviso del Collegio, che tutta la pellicola è articolata sul fenomeno religioso, considerato anche nel suo aspetto sociale, è principio pacifico che le eventuali cause di giustificazione dispiegano la loro efficacia scriminante, oggettivamente e quindi non possono restare precluse da un particolare scopo o motivo di offendere il bene tutelato.
Ora, non ignora in Collegio che le impugnative, motivate o non, di un valore e anche polemici rilievi di disconoscimento di merito dell’ente non costituiscono vilipendio, giacché chi pone seriamente in discussione un valore, non può avere l’intenzionalità di dileggiarlo, di schernirlo, di deriderlo.
Infatti, anche a proposito della religione cattolica è consentito dal nostro ordinamento giuridico la libera discussione e quindi la critica (naturale filiazione del diritto di opinione) e la censura e il biasimo anche se aspri e vivaci (art. 21 della Costituzione; art. 5 legge 24.6.29, n. 1159), sul presupposto appunto della libertà di culto (art. 1 c pav. Legge citata) e quindi della piena libertà di coscienza.
Ma nel film in esame, come si è visto, non c’è dibattito di idee, antitesi motivata di valori. C’è semplicemente una continua inopinata, gratuita messa in ridicolo di simboli e di soggetti sacri, costituenti l’intima essenza della religione, ai quali – ripetesi – l’imputato, con la sua opera, si accosta sempre con animo dispregevole e irriverente.
E il dileggio è istintivo, immediato, plateale soltanto all’apparenza superficiale, ma proprio perciò ancora più subdolamente efficace in quanto recepibile con facilità dagli spettatori meno evoluti e provveduti, portati agevolmente a schernire a irridere alle cose sacre della religione, volutamente immiserite.
Ora, questo atteggiamento di scherno e di disprezzo che Pasolini ostenta verso la religione cattolica, dileggiandola nella sua divinità e nei suoi simboli che in sostanza vale a negare alla stessa la ragione di valore e di pregio riconosciutole invece nel corso dei secoli dalla comunità, esclude che egli abbia legittimamente esercitato il diritto di opinione e di critica. Questa infatti non costituisce vilipendio, coma ha ribadito il Supremo Collegio, quando, alimentandosi onestamente di dati o di rilievi già in precedenza raccolti ed enunciati, si traduca nella espressione motivata e consapevole di un apprezzamento diverso e anche antitetico, risultante da una indagine condotta con serietà di metodo, da persone fornite delle necessarie attidudini e di adeguata preparazione.
Devesi dunque concludere osservando che il vilipendio di cui si fa carico Pasolini non può assurgere a dignità di libera manifestazione del pensiero, ma è una sua degenerazione, deviando da quella che è l’esposizione di un’opinione o di una tesi per divenire gratuita derisione, etranea pertanto alla sfera che in regime di libertà democratiche, è consentito discutere, criticare e magari combattere con la propaganda, ma mai schernire, deridere, oltraggiare.
Atteso il mezzo impiegato da Pasolini per l’attuazione della sua condotta criminosa, sussiste nella specie anche la richiesta condizione obiettiva di punibilità della pubblicità; va dunque affermata la penale responsabilità dell’imputato in ordine al delitto ascrittogli.
Tenendo presenti le circostanze di cui all’art. 133 CP ritiene il Collegio pena congra alla gravità del fatto delittuoso, quella di mesi quattro di reclusione cui si perviene riducendo di un terzo la pena base, per effetto delle circostanze attenuanti generiche.
Queste, come altresì il beneficio della sospensione condizionale della esecuzione della pena inflitta, ritiene il Collegio di poter concedere al prevenuto, in considerazione del suo attuale stato di incesuratezza, quale risulta dal certificato penale, e giacché nutresi fondata fiducia che Pier Paolo Pasolini si asterrà nel futuro dal commettere ulteriori reati.
Quanto precede, avuto riguardo alla spiccata personalità dell’imputato come scrittore e come uomo di cultura, che più degli altri è in grado di comprendere il valore, il significato, la gravità delle proprie azioni e che certamente da questa condanna trarrà per il futuro, utile e meditato insegnamento e quindi sprone a bene operare nella società in cui vive e agisce, ispirando la propria condotta, nei confronti del patrimonio ideologico e religioso della maggioranza degli italiani a quello stesso profondo rispetto di cui meritano di essere circondate le sue opere; quali libere espressioni del pensiero umano, sempreché siano articolate nell’ambito del diritto della legge.
L’imputato è tenuto altresì al pagamento delle spese processuali.

P.Q.M
IL TRIBUNALE

Visti gli art. 483 – 487 – 488 C.P.P. dichiara Pasolini Pier Paolo colpevole del delitto ascrittogli e con le attenuanti generiche lo condanna alla pena di mesi quattro di reclusione e al pagamento delle spese processuali.

Ordina sospendersi l’esecuzione della pena inflitta per anni cinque alle condizioni di legge.

Seguono firme.

E’ copia conforme al suo originale per uso ufficio.

Roma, lì 24/6/1963.

Il cancelliere