Osservatorio delle libertà ed istituzioni religiose

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Osservatorio delle Libertà ed Istituzioni Religiose

Documenti • 16 Gennaio 2010

Sentenza 07 marzo 1963

Tribunale penale di Roma, Sentenza 7 marzo 1963: “Vilipendio della religione dello Stato e opere cinematografiche”
 
(Omissis)
 
Prima di scendere al merito della delicata e interessante fattispecie di che trattasi, reputa utile il Collegio far precedere alcune precisazioni di carattere giuridico circa l'imputazione contestata al prevenuto P. Innanzitutto va osservato che la competenza funzionale e per territorio del Tribunale di Roma deriva dal chiaro disposto dell'articolo 14 della legge 21 aprile 1962, n. 161 in base al quale – è opportuno inoltre sottolineare – la Commissione di primo grado preposta alla revisione dei film (art. 1) può dare, a norma del successivo articolo 6, parere contrario alla loro proiezione al pubblico esclusivamente ove ravvisi in essi, sia nel complesso sia in singole scene o sequenze, offesa al buon costume inteso ai sensi dell'articolo 21 della Costituzione.
Ora, per quanto attiene al film “Rogopag”, la detta Commissione diede parere favorevole alla concessione del nulla osta alla sua proiezione in pubblico, sia pur col divieto per i minori degli anni 18, proprio per non aver riscontrato, nei limiti della propria competenza, estremi di offesa al buon costume. Dal canto suo, con particolare riferimento all'episodio “La ricotta”, il Procuratore della Repubblica ha ritenuto di ravvisarvi elementi di vilipendio della religione dello Stato.
Di qui il promovimento dell'azione penale nei confronti di P. cui è stato addebitato un delitto in merito al quale, ove pur lo avesse rilevato, assolutamente nulla poteva eccepire l'organo amministrativo di controllo.
Ciò posto, rileva il Collegio che l'accusa è pienamente fondata. Preliminarmente non sembra inutile rilevare, circa l'espressione “religione dello Stato” di cui è menzione nel titolo e nel testo dell'articolo 402 del codice penale, che essa era contenuta nell'articolo 1 dello Statuto albertino in cui era scritto che la religione cattolica apostolica romana è la sola religione dello Stato come quella che è professata dalla quasi totalità degli italiani. Tale dichiarazione, implicitamente abrogata dal codice penale del 1889, è stata ripristinata dall'articolo 1 del Trattato politico con la Santa Sede dell'11 febbraio 1929, approvato con legge 27 maggio 1929 n. 810. Il Concordato, poi, contiene, come si dirà qui di seguito, disposizioni che applicano questo principio regolando appunto i rapporti tra lo Stato e la Chiesa.
Ora, potrebbe sembrare, prima facie, esatto, con riguardo all'articolo 7 della legge fondamentale, riconoscere alla regolamentazione, concernente la religione cattolica, il carattere costituzionale per cui essa andrebbe considerata una istituzione costituzionale dello Stato. Sennonché, a parere del Collegio, è essenziale sottolineare, a prescindere dalla validità o meno di siffatta impostazione giuridica e delle conseguenze che agevolmente se ne traggono circa la confessionalità o meno del nostro Stato, che, segnatamente alla stregua degli articoli 3 e19 della legge fondamentale, la locuzione “religione dello Stato” non può non intendersi, atteso l'attuale regime democratico, se non nel significato, alieno da ogni incrostazione confessionista, di religione cui lo Stato italiano attribuisce una posizione di preminenza, in considerazione che essa è professata dalla maggioranza degli italiani: nel significato, cioè, di religione della maggioranza dell'elemento personale dello Stato, vale a dire del suo popolo.
Ciò precisato, devesi tenere presente che il criterio informatore dell'articolo 402 del codice penale del 1930, come degli altri articoli compresi nello stesso capo I (“dei delitti contro la religione dello Stato e dei culti ammessi”) del titolo IV (“dei delitti contro il sentimento religioso e contro la pietà dei defunti”) del libro II dello stesso codice, è diverso da quello a suo tempo adottato in subiecta materia dal codice penale del 1889. Questo mirava infatti a proteggere direttamente non tanto la religione in sé considerata, quanto la libertà religiosa individuale, sicché le relative norme erano collocate sotto il titolo “dei delitti contro la libertà dei culti”; per contro il legislatore del 1930 ha inteso con le norme di cui agli articoli 402 e seguenti del codice penale elevare ad oggetto specifico della tutela penale il sentimento religioso, quale indiscusso patrimonio morale di un popolo, quale forza spirituale operante nella nostra società e concorrente al perseguimento dei fini dello Stato.
È ciò, come appunto si legge nella relazione ministeriale, data l'importanza dell'idea religiosa che trascende l'esercizio di un diritto individuale per costituire uno dei valori non soltanto morali, ma sociali attinenti all'interesse oltre che del singolo della collettività. Si spiega così perché i delitti contro il sentimento religioso, in quanto fenomeno sociale e non già soltanto della coscienza individuale, sono stati considerati dal legislatore come offesa di un interesse collettivo. Va inoltre rimarcato che, mentre il codice del 1889, coerentemente al principio della riconosciuta eguaglianza dei diritti individuali che mirava a proteggere come manifestazione di libertà religiosa, stabiliva le stesse pene per le offese alla libertà di tutti i culti, il codice del 1930 ha indubbiamente posto la religione cattolica (come già si era verificato nel codice sardo italiano del 1859) in una situazione diversa da quella di ogni altra confessione religiosa, stabilendo in suo favore una tutela penale differente dall'altra contemplata dall'articolo 406 in relazione ai culti ammessi.
Ora, questa particolare situazione legislativa della religione cattolica rispetto alle altre confessioni che, come si è visto, va giustificata col fatto della enorme rilevanza storica e sociale che ha avuto ed ha la Chiesa cattolica in ragione dell'antica sentita tradizione del popolo italiano, il quale nella quasi totalità ad essa appartiene, attinge il suo fondamento giuridico – in conseguenza della composizione del pluridecennale dissidio già insorto tra la Chiesa e lo Stato e della risoluzione della cosiddetta questione romana – nei Patti lateranensi (Trattato e Concordato). Con essi infatti si è data attuazione ad un sistema di diversa tutela penale della religione cattolica rispetto agli altri culti, sistema che è stato recepito dal nostro codice e non appare in contrasto con i dettami della Costituzione, segnatamente con riferimento agli articoli 7, 8 e19.
Come già rilevato dalla Corte costituzionale a proposito dell'articolo 404 del codice penale, con sentenza n. 125 del 30 novembre 1957, nessun contrasto infatti può rilevarsi tra i citati articoli 7 e 8, il primo richiamando i Patti lateranensi come fonte regolatrice dei rapporti fra lo Stato e la Chiesa, il secondo regolando i rapporti esistenti fra lo Stato e le altre confessioni religiose, rapporti che non si identificano con i precedenti tanto da ricevere una diversa regolamentazione. Né sussistono incompatibilità di ordine sostanziale fra le norme di cui all'articolo 402 del codice penale e il principio della eguale libertà delle varie religioni sancito nel primo comma dell'articolo 8, secondo cui “tutte le confessioni religiose sono egualmente libere davanti alla legge”, perché la norma penale citata, come le altre che riflettono la religione cattolica, non contiene limitazione al libero esercizio dei culti e alla libertà in genere delle varie confessioni religiose, nè limita o tende a limitare la condizione giuridica di chi professa un culto diverso dal cattolico (articolo 19 della Costituzione).
Va però aggiunto che se tra la religione cattolica e gli altri culti è stato garantito un regime di pari libertà, gli stessi articoli 7 e 8 contengono disposizioni esplicite che, lungi dallo stabilire la parità di essi, ne differenziano invece la situazione giuridica. Mentre infatti il secondo comma dell'articolo 8 detta che “le confessioni religiose diverse dalla cattolica hanno diritto di organizzarsi secondo i propri statuti in quanto non contrastino con l'ordinamento giuridico italiano”, il primo comma dell'articolo 7 dichiara che “lo Stato e la Chiesa sono ciascuno nel proprio ordine indipendenti e sovrani”. Inoltre, il secondo comma dell'articolo 7 dispone che i rapporti con la Chiesa cattolica “sono regolati dai Patti lateranensi” e che “le modificazioni dei Patti accettate dalle due parti non richiedono procedimento di revisione costituzionale”, mentre il terzo comma dell'articolo 8 stabilisce che i rapporti dello Stato con le altre confessioni religiose “sono regolati per legge sulla base di intese con le rispettive rappresentanze”.
Appare quindi chiaro che il sistema di diversa tutela penale della religione cattolica rispetto agli altri culti, così com'è stato adottato dal nostro codice del 1930, non è affatto contrario ai principi dell'ordinamento costituzionale successivamente restaurato (Cass. 6 giugno 1961, Cretarolo).
L'articolo 402 intende dunque assicurare una speciale tutela penale alla religione cattolica per le ragioni sopra evidenziate, per cui l'oggetto specifico della tutela penale in ordine a questa, come alle norme di cui ai successivi articoli 403, 404 e 405, è il pubblico interesse di proteggere la religione cattolica apostolica romana in quanto religione della maggioranza degli italiani, considerata in se stessa, nelle sue credenze fondamentali, indipendentemente dalle sue manifestazioni esteriori.
E se la genericità del carattere del reato in esame si contrappone alla specificità delle altre norme, autonome e indipendenti, poste a tutela della religione cattolica, ciò non esclude la diversità dell'oggetto del delitto ex articolo 402, nel senso che esso si presenta più vasto e più comprensivo degli altri. Nella protezione della religione, quale entità astratta, ideale e non già quale entità o componente di entità tangibili, materiali si ravvisa – è vero – una meno agevole concretizzazione, ma anche la possibilità dell'incriminazione di una più vasta categoria di azioni. E alla religione, secondo lo spirito della norma che la tutela, deve riguardarsi sia nel suo significato etico sociale, sia nel suo valore intrinseco, quale entità ideale e spirituale, quale sintesi di rapporti fra uomini e la divinità che dà luogo al formarsi di credenze, di dogmi, di mezzi soprannaturali e naturali, di organismi, di riti, di manifestazioni che ne rappresentano la proiezione dinamica e completa; nella tutela rientra dunque non soltanto la religione astrattamente considerata, ma la stessa Chiesa cattolica, intesa come societas fidelium, canonicamente distinta dalla religione, i dogmi, i riti, i sacramenti e comunque le istituzioni e gli organi di questa, in una parola tutte le manifestazioni spirituali della vita della Chiesa e dei fedeli.
È noto che il fatto costitutivo del delitto di cui all'articolo 402 consiste nel vilipendere pubblicamente la religione dello Stato. Ora, comunemente per vilipendio va inteso l'offesa grave, sia essa o meno grossolana, volgare, turpe, abbietta che, esprimendosi con atti, gesti, parole, disegni, immagini e suoni o qualsiasi altra forma di manifestazione del pensiero e del sentimento assume il carattere della derisione, del disprezzo, del dileggio, dello scherno, sì che l’agente mostra di tenere a vile l'istituzione tutelata dalla legge.
Per quanto concerne la norma in esame, il vilipendio deve essere diretto contro le credenze fondamentali della religione, come è l'idea di Dio e come sono, in genere, i dogmi della Chiesa, i suoi sacramenti, i suoi riti e i suoi simboli (Cass. 6 giugno 1961, Cretarolo); ed esso sussiste non soltanto quando l'offesa inesta tutta la materia che forma oggetto della fede cattolica, ma altresì quando ne siano investiti uno o più punti (Cass. 20 ottobre 1959, Caronte).
In altri termini la religione dello Stato, cui si riferisce il sentimento della comunità associata, può essere vilipeso nella sua interezza (cioè come istituzione) o nelle sue componenti essenziali (manifestazioni rituali, simboli e affermazioni dogmatiche) ogni qual volta quella o queste l'agente, attraverso un giudizio gratuito e immotivato, in qualsiasi modo ignobilmente, aggredisca, col vituperarle, disprezzarle, deriderle.
Quanto sopra rilevato in linea di diritto, è necessario ora procedere all'esame del film “La ricotta” di cui il Collegio ha preso attenta visione al fine di stabilire se esso, nel complesso e in alcune particolari sequenze, abbia o meno contenuto obiettivamente vilipendioso, nel senso testè delineato, della religione.
Il film racconta la giornata di lavoro di un équipe di attori e di comparse intenta a rappresentare, per la ripresa cinematografica in esterni, alcune scene della passione e morte di Gesù Cristo. L'attenzione dello spettatore è polarizzata sul personaggio principale dell'episodio rappresentato da un certo Stracci, povero, misero individuo che nel film è destinato formalmente a impersonare il buon ladrone e che nella vita reale costituisce il simbolo cristallino di quel sottoproletariato senza mezzi e senza educazione che la società costringe ai margini del vivere civile e lo Stato non aiuta e non tutela; di quel sottoproletariato, cioè, che campa alla giornata, è totalmente privo dei mezzi necessari per la propria elevazione fisica e spirituale e che lavora, suo malgrado, sol quando sporadicamente ne ha l'occasione.
“La ricotta” è dunque la storia di Stracci, un uomo disgraziato, indifeso, abbandonato a se stesso ma fondamentalmente buono e generoso, che è costretto a lavorare anche quando è malato, che cede il cibo, datogli dà chi lo ha precariamente ingaggiato come comparsa, alla sua numerosa povera famiglia, che sopporta il duro lavoro sotto i morsi feroci della fame dalla quale mai è riuscito riscattarsi; e se un espediente escogitato e attuato fra una pausa e l'altra del lavoro gli consente di disporre di 1000 lire, egli non esiterà a impiegarle interamente nell'acquisto di ricotta.
Sarà proprio l'ossessivo, avido e assurdo ingugitamento di questa e degli altri cibi doviziosamente offertigli dai suoi compagni, sia pure per scherno e derisione, che lo condurrà di là a poco a morte quando, inchiodato sulla croce innalzata con le altre sulla collina che dovrebbe significare il Calvario, sta per dare vita cinematograficamente alla scena della passione e morte del Cristo e dei ladroni. Il film si chiude col commento sul tragico fatto profferito dal regista dell’équipe: “povero Stracci, la sua morte è stata il solo modo di fare la rivoluzione”.
Questa per sommi capi la trama del film che di per sé non appare vilipendioosa della religione cattolica cui, del resto, è estranea, pur se è dato cogliere un significato vagamente religioso nella morte in croce del protagonista il quale, con le sue sofferenze, induce facilmente a pensare alla morte di Cristo pure condannato da una società ottusa e sorda ad una fine ignominiosa. Al riguardo si potrebbe aggiungere che è nel significato e nell'essenza della religione cattolica, per chi accettandola e riconoscendone il valore transumano e trascendente ravvisi nel Cristo del Calvario l'uomo-Dio che si fece crocifiggere per la salvezza delle anime, accostare le vicissitudini dell'uomo che soffre a quelle del Salvatore, per trarre da questo raffronto conforto e forza di sopportazione e di rassegnazione nella speranza di una vita ultraterrena che ricompensi da tutti i mali e le disgrazie patite.
Nulla dunque da osservare o da eccepire sulla trama del film e in definitiva sul significato del messaggio sociale in esso contenuto così come lo ha inteso profilare e materializzare P. dando vita al suo personaggio protestatario. Del resto non ignora il Collegio le precedenti opere dell'imputato come scrittore e come regista cinematografico.
Non è la prima volta che egli affronta con la sua cultura e la sua educazione, sia pur condizionata dalle personali vedute che costituiscono ad un tempo, sotto il profilo artistico, l'essenza e i limiti delle sue opere, il tema del sottoproletariato in genere. D'altra parte l'imputato è stato esplicito, quando dichiarato che Stracci vuole essere il simbolo del sottoproletariato da tutti ignorato e che la sua morte è un modo di dimostrare la sua esistenza, di porre cioè il problema della sua esistenza.
Ciò non contrasta, poi, con quanto assunto dal produttore B. secondo cui, se il filone centrale dei quattro episodi del film “Rogopag” è costituito dal vaglio critico dei diversi aspetti di uno stesso fenomeno, il condizionamento cioè dell'uomo nel mondo moderno, nell'episodio “La ricotta” P. ha inteso occuparsi proprio di quella parte di umanità non ancora assoggettata a tale stato di condizionamento.
L'imputato ha però escluso che fosse sua intenzione, sia pure recondita o inconscia, vilipendere la religione cattolica, ha anzi aggiunto che proprio sotto il profilo obiettivo il film non conteneva alcunché che potesse vilipendere la religione, precisando che la parte religiosa era soltanto “la cornice dell'opera” e ancora che il senso del film non era una polemica religiosa, o almeno non era questa una componente essenziale del racconto. Il Collegio è di avviso nettamente contrario nel senso che se la trama del film e il messaggio che se ne ricava ha contenuto certamente sociale, essa è però articolata nelle sue scene, nelle sue inquadrature, nelle sue sequenze e nei commenti musicali e verbali che queste di volta in volta accompagnano, in guisa tale che oltre Stracci, simbolo dell'uomo vittima della società, un'altra ben più nobile e più degna entità viene gratuitamente immolata allo spirito negatore e al sentimento distruggitore di P., la religione cattolica, nel film apertamente dileggiata, schernita, derisa, immiserita nei suoi simboli e nelle sue manifestazioni più intime ed essenziali. P. ha spiegato quale è stata l’occasione e quale la causa profonda perché Stracci, simbolo del sottoproletariato, è stato accostato alla passione di Cristo, nelle vicende della lavorazione di un film su tale argomento. Secondo l’imputato lo spunto del racconto gli è stato offerto dal fatto di cronaca della morte di una comparsa durante la ripresa cinematografica dell’eclisse di sole del 1961.
La causa vera di tale accostamento tra Stracci e la passione di Cristo, sempre a dire di P., si giustificherebbe artisticamente perché questa “veniva ad essere la proiezione fantastica, concreta, visiva di un elemento ideale, intimo del personaggio di cui sarebbe palese la profonda, seppur istintiva e primitiva religiosità”. Ora, è un dato in effetti obiettivo che P. ha volutamente inquadrato il suo simbolo nella visuale da lui artisticamente sentita, cogliendolo cioè nella rappresentazione cinematografica della passione e morte di Cristo.
Ciò posto, nessuno dubita che il regista ha trattato il suo personaggio simbolo con estrema pietà e religiosità, se con quest'ultima parola s'intende il rispetto, la venerazione ostentata verso la sua creatura, da tutti derisa e dileggiata e in definitiva verso chiunque si debba nello Stracci riconoscere.
Allo spettatore non sfugge davvero la mistica sacralità delle scene che inquadrano Stracci che mangia, i suoi familiari che mangiano, Stracci che è alla ricerca disperata di cibo: mistica della fame, del bisogno, accentuata da una particolare musica sacra (“Il Dies irae”); mistica mai dileggiata, mai derisa, mai ridicolizzata come purtroppo accadrà invece ogni qualvolta il regista tratterà le parti veramente sacre del film, ogni qualvolta egli si accosterà a Cristo e ai personaggi della tradizione cristiana. Tale religiosità il regista ha evidenziato quando a mano a mano, sequenza per sequenza, ha innalzato Stracci, che pure nel film doveva impersonare il buon ladrone, alla dignità del vero Cristo terreno, dell'uomo singolo che, morendo in croce, dileggiato e deriso, soltanto nella morte trova il mezzo di dimostrare la propria esistenza.
In questi sensi e con questi limiti può accettarsi la tesi del prevenuto circa la religiosità del film e del suo personaggio e in definitiva circa la propria religiosità. Trattasi però di una religiosità particolare, propria del soggetto che la evidenzia e come tale mai elevata e spiritualizzata. Invero, per rendere atrocemente evidente la sofferenza del Cristo terreno inchiodato sulla croce, P., fedele alle sue impostazioni ideologiche, non può non fare subire a Stracci il supplizio dei cibi e delle bevande offertegli e poi negategli da altri sottoproletari; il tormento e il desiderio della donna formosa che gli si mostra nuda e che egli non può avere; tutto si riduce per P. ad una questione di primordiali esigenze fisiche non soddisfatte ed è per questa ingiustificata negazione di beni materiali che Stracci morirà sulla croce.
La religiosità che P. connatura al suo personaggio è dunque una religiosità che, rispetto all'entità cui è stata volutamente contrapposta, è in verità chiaramente antireligiosa, in quanto concretantesi in azioni vilipendiose del bene tutelato al quale si pone col suo racconto in antitesi.
In altri termini P., proprio per servire, illustrare, evidenziare la religiosità del racconto di Stracci e quindi la propria concezione della religiosità, ha voluto immotivatamente aggredire una entità artatamente presentata come del tutto antitetica al proprio sentimento di religiosità e, cioè, la fede cattolica nelle sue manifestazioni più mistiche che attingono alle tragiche vicende terrene dell'uomo-Dio e quindi nei suoi simboli essenziali. Nessuno, credente o meno, che guardi con spirito sereno la pellicola può negare che le immagini di alcune sequenze, nella situazione in cui di fatto vengono inquadrate e nel loro accoppiamento ora a musiche, ora a parole, siano vilipendiose della religione cattolica.
Va precisato che nel film, in bianco e nero, alcune sequenze ritraggono gli attori e le comparse in libertà, quando cioè non sono impegnati ad agire sotto la macchina da presa, altre invece li ritraggono nell'atto in cui danno vita alle scene cinematografiche della passione e morte di Cristo.
Ora, è agevole rilevare innanzitutto che il materiale della pellicola, qualitativamente e quantitativamente più consistente ai fini della nostra indagine, è fuori – si badi bene – dall'economia dei fini, pur così chiaramente messi avanti dal regista, per giustificare la sua opera; e, ancora, che esso è proteso più sfrontatamente verso il fine delittuoso di prendersi di volta in volta beffa e lazzo della religione.
Basti pensare alle belle scene che il regista ha voluto a colori – armonici, limpidi, perfetti – rappresentanti la Deposizione di Gesù.
Trattasi di due quadri viventi realizzati in maniera pregevole, copie artistiche di due opere pittoresche rinascimentali rispettivamente del Rosso Fiorentino e del Pontormo.
Senza volersi indugiare nell'esame circa il valore intrinseco dei dipinti, nella ricerca della corrente artistica cui appartenevano gli autori in relazione all'epoca in cui le opere furono compiute e senza abbandonarsi alla non necessaria quanto sottile indagine diretta a cercare le più o meno recondite sfumature di espressione che in esse è consentito ai critici e agli iniziati di cogliere, sta il fatto che le due Deposizioni, pur nella loro tormentata umanità, emanano un calore profondamente religioso almeno per chi, credente o non, le osservi con occhio sereno, scevro da riserve, da pregiudizi e da rancori ideologici, sia per la purezza dei colori e delle immagini, sia per il loro contenuto altamente religioso, in quanto afferenti al momento in cui Cristo, immolatosi per la redenzione degli uomini, viene staccato dalla croce e mestamente composto dalle pie donne che già amaramente avevano pianto ai suoi piedi.
È indubitabile che con questi quadri viventi il regista è riuscito a dar vita ad alcune sequenze idonee a provocare un profondo sentimento di religiosità e un profondo, seppur semplice, misticismo. Lo spettatore è quasi portato in quest'atmosfera intima che promana dalla pellicola a partecipare alla passione della crocifissione che rivive sulla scena, spiritualmente sollevato da un empito di venerazione e di rispetto. Eppure, proprio questa atmosfera artatamente creata dal regista viene ripetutamente profanata, distrutta, irrisa in maniera tanto turpe quanto inopinata e immotivata, in guisa tale da offendere la più parte degli spettatori che non guardino con occhi e spirito irriverenti.
È quanto accade per il quadro vivente della deposizione del Rosso Fiorentino. Ad esso viene prima accoppiato, come commento musicale, un “twist” e poi un “cha cha cha”, musiche che irrompono nella loro irriverente profondità sulla croce, sul viso dei santi, del Cristo morto, della Madonna. In una successiva sequenza il bel volto del Cristo, incorniciato da fulva capigliatura e serenamente composto nell'immagine della morte, proprio nel momento di più profonda e mesta religiosità della scena si contrae inopinatamente in un riso sguaiato, quando cioè la Madonna, con voce dolente e straziata, ha finito di profferire ai suoi piedi le antiche, semplici, purissime parole: “figlio, l’alma t’è uscita, figlio della spaurita, figlio della smarrita, attossicato, figlio bianco e vermiglio”. All'intensa religiosità della scena, al profondo misticismo che da essa si effonde, corrisponde dunque di volta in volta con pari intensità il dileggio gratuito, lo scherno, l'irrisione immotivata.
Raramente ad avviso del Collegio potrebbesi con tanta irriverenza irridere alla croce, al Cristo, alla sua passione e morte.
Ma non basta. Anche in una successiva sequenza, che pregevolmente ritrae in un quadro vivente la “Passione” del Pontormo”, pure a colori, P. ha voluto e saputo dar vita ad una religiosa atmosfera, analoga a quella di cui sopra si è parlato.
Ebbene, anche su questa sequenza irrompe, prima irriverente, quale commento musicale, un ballabile; la religiosità della scena, già così turbata, sarà poi definitivamente distrutta quando, essendo il Cristo che doveva essere ritratto nell'alto della sua deposizione malauguratamente rovinato a terra tra le sguaiate risate delle altre comparse che interpretavano i vari personaggi sacri del quadro, sferzante e ingiurioso sul crocifisso, sulla Madonna, sui santi ritratti di volta in volta in piano, si alza il grido di una voce fuoricampo “cornuti, cornuti, cornuti”.
Può seriamente attendersi la giustificazione, per quanto concerne le musiche, che trattasi di incresciosi ma non voluti errori di esecuzione, per quanto concerne la sguaiata risata del Cristo, che non questi ma la comparsa che le interpreta intende irridere ai suoi compagni di lavoro e specialmente alla donna che interpreta la madre di Dio, nell'udire per di più ripetutamente le strane incomprensibili parole che dettò l'animo ispirato di Jacopone da Todi?
Ci si può acquietare pensando che il grido “cornuti” fosse diretto soltanto a colpire le comparse le quali avevano in sostanza rovinato una scena? In altre parole, può accettarsi la tesi che tutto quanto avviene nel film, per ciò che riguarda le scene sacre e religiose, attiene alle comparse che agiscono e che, in definitiva, il film è la fedele documentazione della condotta ignorante, altamente irriverente e irreligiosa di individui chiamati ad interpretare parti di contenuto sacro cui essi sono spiritualmente estranei?
A tali interrogativi devesi ad avviso del Collegio rispondere negativamente.
Invero, con il ripetuto oltraggio della musica, con la risata sguaiata del Cristo-comparsa, di cui al dipinto del Rosso Fiorentino, gli insulti rivolti ai personaggi sacri della passione del Pontormo è in realtà il Cristo degli altari, il Cristo della tradizione a essere dileggiato, schernito, deriso. Consegue che gravemente offeso ne risulta il sentimento religioso della maggioranza degli italiani che nel Cristo, di cui è dileggiata la passione e morte in croce, riconoscono, più che il simbolo, l'essenza o l'intima sostanza della loro religione.
Davvero puerili, seppure apparentemente esaurienti, appaiono dunque siffatte giustificazioni, come quelle dirette a far risalire ai personaggi del film la responsabilità delle loro azioni, nel senso che essi sono ritratti come sono soliti pensare ed agire e quindi a distinguere tra attori e comparse, da un lato e personaggi divini o comunque sacri da essi rappresentati, dall'altro.
La realtà è ben altra ed essa non sfugge, nonostante le abili elucubrazioni giustificative del pervenuto, al Collegio. Può convenirsi con P. quando egli afferma che la parte religiosa del film fa da cornice all'opera, giacché in effetti la vicenda narrata è inquadrata nel fenomeno religioso in cui di volta in volta si rispecchia, con modalità però senz'altro vilipendiose per la religione. È un fatto che il cinema è stato il mezzo scelto da P. per manifestare il proprio pensiero, per diffondere le proprie istanze e tutti sanno che il cinema è un mezzo efficacissimo di comunicazioni di massa. Ora, con la sua opera P. non si rivolge soltanto a un'elite di intellettuali perché nella loro sufficienza traggano da essa motivi per disquisire e sofisticare su cose e sentimenti sacri di cui magari nella loro evoluta incredulità hanno maturato il superamento.
È neppure l'opera del P. è destinata soltanto alla meditazione di chi, con la propria cultura e la propria educazione religiosa, non si sente affatto scalfito nella sua fede ragionata dalla grossolana aggressione ai propri sentimenti religiosi.
L'opera del P. è destinata a tutti e cioè anche alla massa compatta del popolo italiano, ancora sana e gelosa del proprio patrimonio spirituale, ma appunto per questo meno difesa e più soggetta a subire gli attacchi ideologici di chi, con disinvoltura ed abilità, riesca a mettere in ridicolo e a immiserire le componenti essenziali della sua credenza.
Ora, se è vero che la libertà di opinione e di creazione è garantita dalla Costituzione, per cui P. è liberissimo di pensarla come crede in materia religiosa, anche perché questo fatto della coscienza individuale è indifferente al mondo esterno, al medesimo è però assolutamente interdetto di vilipendere la religione cattolica, perché la libertà di pensiero incontra limiti nella sua manifestazione e tra questi il diritto positivo ha posto il divieto di schernire e dileggiare la religione dello Stato proprio in quanto, quale patrimonio della maggioranza degli italiani, rispecchia un sentimento collettivo meritevole da parte di chicchessia del più alto e riverente rispetto. Che P. abbia dileggiato la religione non può revocarsi in dubbio alla luce di quanto evidenziato.
Basterà qui aggiungere che è proprio lo spirito del film ad essere improntato a questa aperta quanto immotivata derisione della religione, ora schernita, ora disprezzata, ora insozzata. Al riguardo può ricordarsi, circa il mistico quadro vivente del Rosso Fiorentino, la sequenza in cui una voce fuoricampo ingiunge ad una comparsa, che sulla croce raffigurava un santo, di togliere le dita dal naso.
Gioverà pure ricordare i vari bivacchi delle comparse durante le pause del lavoro, sulle croci poggiate a terra che, pur pezzi di legno, strumenti di lavoro rimangono tuttavia sacre espressioni della religione, destinate di lì a poco a far rivivere la passione e morte del Cristo; le sequenze in cui Stracci, in croce, contrapposto al vero Cristo, biascicherà voglioso “ho fame”; e ancora lo strip tease di una redenta peccatrice che finisce per mostrare, discinta, i seni nudi alle tre comparse inchiodate sulle croci che attendono di essere innalzate.
Del pari indubbio significato vilipendioso, sé logicamente inserite, come è doveroso, tra le scene più apertamente irriverenti della passione e morte di Cristo, hanno le sequenze che in primo piano ritraggono, in una successione di stacchi, i vari collaboratori del regista nell'atto di ripetere l'ordine di allontanare dal campo di ripresa le tre croci, stante la necessità di filmare altre scene. Il regista dell'équipe aveva, è vero, con voce stanca, sommessa, disposto: “via i crocifissi”. Eppure tale legittimo desiderio, ripetuto di volta in volta da facce diverse, si trasforma, atteso il modo come viene manifestato e l'atteggiamento di chi lo esprime, in un grido, in una istanza corale, in una imperiosa necessità; diventa il grido della volontà di una società imbestialita contro il Cristo degli altari che deve essere scacciato.
Significativo al riguardo è soprattutto il viso arrabbiato è scomposto della donna, l'ultima in ordine di ripresa, che grida “via i crocifissi” e la cui presenza, si noti bene, è assolutamente ingiustificata, non facendo parte dell'équipe.
Ma P. non si contenta di ciò e fa profferire il grido, ormai divenuto blasfemo, persino da un cane lupo, inquadrandone il muso in primo piano e fornendogli la voce arrochita di un uomo. Questa sequenza, che l'imputato ha candidamente spiegato con la necessità di fare gag, di dare vita cioè a un breve intermezzo comico (il che però rileva il Collegio si verifica ogni qualvolta il regista si accosta alle cose sacre), richiama subito, in contrasto, quelle in cui Stracci, ripreso in guisa tale che la sua corsa diventa una comica fuga alla Ridolini, si fa due volte il segno della croce davanti ad un'edicola sacra. Il gesto è fugace, ma lo spettatore attento ben nota queste sequenze, che di per sé non irriverenti, lo diventano per il modo come sono state riprese. Anche esse, ad avviso di P., sono gag, sta di fatto però che l'imputato ha sentito il bisogno di servirsi di intermezzi comici nel film solo quando ha trattato di cose e simboli sacri.
Ora, l'aspetto ridicolo e irridente della situazione è questo: che a un cane si fa esprimere un pensiero umano divenuto irriverente e blasfemo e all'uomo, soltanto quando è ritratto come una marionetta, si fa compiere il segno della croce. È dunque di tutta evidenza che tali scene sono assolutamente estranee all'economia del racconto, come estranee ad esso, attese le finalità sbandierate dal prevenuto, sono tutte le altre sequenze sopra illustrate e commentate.
La loro presenza trova però una giustificazione logica, non certo sul piano artistico che sostanzialmente in esse difetta, ma su quello contenutistico del film, che dunque è e vuole essere una aperta, totalitaria, grossolana derisione (solo apparentemente occasionale) della religione nelle sue fondamentali credenze nei suoi mistici riti nella sua essenza.
A questo punto non resta al Collegio che accertare la ricorrenza o meno, attesa la ritenuta materialità del vilipendio, dell'elemento morale del reato in relazione all'atteggiamento psichico dell’agente.
Ora, è noto che la più autorevole dottrina e la giurisprudenza del Supremo collegio non richiedono per la sussistenza del delitto il dolo specifico, necessario e bastevole essendo una volontà cosciente del fatto, la volontà cioè dell'azione rivolta alla produzione dell'evento lesivo con la piena consapevolezza delle idoneità della condotta a produrre tale risultato (Cass. 5 novembre 1959, Cavallero).
Nel caso di specie, pertanto, anche se si volesse escludere per il P. il fine specifico di vilipendere la religione, si deve riconoscere, per quanto fin qui esposto, che egli ha avuto piena consapevolezza dell'offesa che alla religione derivava dagli atti di vilipendio deliberatamente commessi. Già si è accennato ai dedotti fini leciti e legittimi cui l'opera cinematografica si sarebbe ispirata; o il fine di consentire al sottoproletariato, nel tempo in cui la storia lo sta cancellando, di far testimonianza di sé; o quello di mettere in risalto l'empietà dei cineasti nel trattare argomenti degni della massima pietà e di rispetto; o quello di denunciare, con la volgarità ironica, cinica, ridanciana del mondo contemporaneo, la sua intima fondamentale incredulità verso una religione che avrebbe fatto il suo tempo e che per sopravvivere dovrebbe adeguarsi alle nuove esigenze dell'uomo.
Tutti questi fini cui la condotta di P. si sarebbe ispirata escluderebbero, a parere della difesa, ed eliderebbero quello di vilipendere la religione cattolica.
Ora, il Collegio non nega che, specie nei delitti di vilipendio, gli atti e le parole e i gesti di per sé possono anche non rivestire il carattere vilipendioso, seppure obiettivamente abbiano “valenza” ad offendere, occorrendo la volontà oltraggiosa che dà calore e vita e significato alla parola, ai gesti, alle immagini.
È esatto pertanto sostenere che la volontà vilipendiosa del delitto ex articolo 402 del codice penale si pone come una particolare intenzionalità di circondare di scherno, di ridicolo, di disprezzo il bene protetto. Questa particolare intenzionalità, se è elemento essenziale e costitutivo del delitto e se assegna un ruolo decisivo all'elemento psicologico del reato, non è però tale da fargli assumere qualifica diversa dal dolo generico, giacché, voluta la condotta vilipendiosa, si integra necessariamente anche l'elemento soggettivo del reato.
Ma, nel caso di specie, l'intenzione di P. di deridere o schernire la religione cattolica, il che appunto conferisce alle parole, ai gesti, alle situazioni, alle musiche di una o più sequenze cinematografiche carattere vilipendioso, appare manifesta nelle varie scene sopra illustrate del film incriminato, proprio avuto riguardo al tempo e alle modalità con cui determinate musiche sono state impiegate, alle situazioni in cui alcune scene sono state inquadrate, alla qualità dei destinatari di determinate espressioni ingiuriose, alla tecnica e ai toni con cui determinati fatti sono stati narrati e determinate persone sono state fatte agire e parlare.
Del che si è detto ampiamente sopra.
Ritenuta dunque in P. la manifesta intenzione di vilipendere, è del tutto irrilevante andare alla ricerca e all'analisi dei movimenti (motivi e fini) della sua condotta che restano del tutto al di fuori della fattispecie di cui alla norma penale e che, anche se leciti, non possono discriminare l'azione vilipendiosa dell'imputato. Ma da quanto fin qui esposto devesi pure escludere che P. abbia esercitato il diritto di critica della religione.
Si noti bene, P. ha sempre negato di aver voluto fare della polemica religiosa e quindi di aver voluto criticare la religione; mentre però è fuori dubbio, ad avviso del Collegio, che tutta la pellicola è articolata sul fenomeno religioso, considerato anche nel suo aspetto sociale, ed è principio pacifico che le eventuali cause di giustificazione dispiegano la loro efficacia scriminante oggettivamente e quindi non possono restar precluse da un particolare scopo o motivo di offendere il bene tutelato. Ora, non ignora il Collegio che le impugnative, motivate o non, di valore e anche polemici rilievi di disconoscimento di merito dell'ente non costituiscono vilipendio, giacché chi pone seriamente in discussione un valore non può avere l’intenzionalità di dileggiarlo, di schernirlo, di deriderlo.
Infatti, anche a proposito della religione cattolica è consentita nel nostro ordinamento giuridico la libera discussione e quindi la critica (naturale filiazione del diritto di opinione) e la cesura e il biasimo, anche se aspri e vivaci (articolo 21 della Costituzione, articolo 5 legge 24 giugno 1929 n. 159), sul presupposto appunto della libertà di culto (art. 1 capov. legge citata) e quindi della piena libertà di coscienza.
Ma nel film in esame, come si è visto, non c'è dibattito di idee, antitesi motivate da valori. C'è semplicemente una continua inopinata gratuita messa in ridicolo di simboli e di soggetti sacri, costituenti l'intima essenza della religione, ai quali – si ripete – l'imputato con la sua opera si accosta sempre con animo dispregevole e irriverente.
E il dileggio è istintivo, immediato, plateale, soltanto all'apparenza superficiale, ma perciò ancora più subdolamente efficace in quanto recepibile con facilità dagli spettatori meno evoluti e provveduti, portati agevolmente a schernire e irridere alle cose sacre della religione volutamente immiserite.
Ora, questo atteggiamento di scherno e di disprezzo che P. ostenta verso la religione cattolica, dileggiandola nella sua divinità e nei suoi simboli, che in sostanza vale a negare alla stessa le ragioni di valore e di pregio riconosciutele invece nel corso dei secoli dalla comunità, esclude che egli abbia legittimamente esercitato il diritto di opinione e di critica.
Questa, infatti, non costituisce vilipendio, come ha ribadito il Supremo collegio, quando, alimentandosi onestamente di dati o di rilievi già in precedenza raccolti o enunciati, si traduca nella espressione motiva e consapevole di un apprezzamento diverso e anche antitetico, risultante da una indagine condotta con serietà di metodo da persona fornita delle necessarie attitudini e di adeguata preparazione.
Devesi dunque concludere osservando che il vilipendio di cui si fa carico al P. non può assurgere a dignità di libera manifestazione del pensiero, ma è una sua degenerazione, deviando da quella che è l'esposizione di una opinione o di una tesi per divenire gratuita derisione, estranea pertanto alla sfera di liceità dell'esercizio del diritto, per investire una entità che in regime di libertà democratiche è consentito discutere, criticare e magari combattere con la propaganda, ma mai schernire deridere oltraggiare.
Atteso il mezzo impiegato da P. per l'attuazione della sua condotta criminosa, sussiste nella specie anche la richiesta condizione obiettiva di punibilità della pubblicità; va dunque affermata la penale responsabilità dell'imputato in ordine al delitto ascrittogli.
Tenendo presenti le circostanze di cui all'articolo 133 del codice penale, ritiene il Collegio pena congrua alla gravità del fatto delittuoso quella di mesi quattro di reclusione cui si perviene riducendo di un terzo la pena base per effetto delle circostanze attenuanti generiche.
Queste, come altresì il beneficio della sospensione condizionale della esecuzione della pena inflitta, ritiene il Collegio di poter concedere al prevenuto in considerazione del suo attuale stato di incensuratezza, quale risulta dal certificato penale, giacché nutresi fondata fiducia che P.P.P. si asterrà nel futuro dal commettere ulteriori reati.
Quanto precede, avuto riguardo alla spiccata personalità dell'imputato come scrittore e come uomo di cultura che più degli altri, appunto, è in grado di comprendere il valore, il significato, la gravità delle proprie azioni e che certamente da questa condanna trarrà per il futuro utile e meditato insegnamento e quindi sprone a bene operare nella società in cui vive ed agisce, ispirando la propria condotta, nei confronti del patrimonio ideologico e religioso della maggioranza degli italiani, a quello stesso profondo rispetto di cui meritano di essere circondate le sue opere, quali libera espressione del pensiero umano, sempre che siano articolate nell'ambito del diritto e della legge.
L'imputato è tenuto al pagamento delle spese processuali.
 
(Omissis)