Osservatorio delle libertà ed istituzioni religiose

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Osservatorio delle Libertà ed Istituzioni Religiose

Documenti • 20 Febbraio 2004

Sentenza 07 gennaio 1995, n.14

Tribunale civile di Padova. Sentenza 7 gennaio 1995, n. 14.

(Pozzan; Giacomelli)

(omissis)

Motivi della decisione

1. Pronunciando in sede di regolamento preventivo di giurisdizione, con la sentenza n. 1824 del 13 febbraio 1993 (v. in Foro it. 1993, 1, 722 ss.; in Giur. it. 1993, 330 ss., 877 ss., 1477 ss.) le Sezioni unite della Suprema Corte di cassazione hanno statuito che, a seguito dell’Accordo di Revisione del Concordato lateranense stipulato il 18 febbraio 1984 tra lo Stato italiano e la Santa Sede (ratificato e reso esecutivo con la l. 25 marzo 1985 n. 121) non è stata conservata la riserva di giurisdizione esclusiva dei tribunali ecclesiastici nelle cause di nullità dei matrimoni canonici, contratti da cittadini italiani, con la conseguenza che per la competenza processuale a conoscere di tali nullità sussiste il concorso della giurisdizione italiana e di quella ecclesiastica, da risolvere mediante il criterio della prevenzione. Pertanto essendo stata abrogata la riserva di giurisdizione a favore dei tribunali ecclesiastici, il giudice italiano, in quanto preventivamente adito, può giudicare sulla domanda di nullità di un matrimonio concordatario.

L’art. 34, 4º comma, del Concordato del 1929 stabiliva che le cause concernenti le nullità del matrimonio erano riservate alla competenza dei tribunali ecclesiastici; lo Stato italiano – che solennemente riconosceva la religione cattolica come “la sola religione dello Stato” (art. 1 del Trattato) – si rimetteva all’ordinamento canonico “per quanto riguarda sia la natura del vincolo matrimoniale, sia la celebrazione, sia il rapporto che ne derivava, con una totale rinuncia, in materia, alla sua sovranità, e, quindi, all’esercizio della giurisdizione, che della sovranità rappresenta una delle componenti essenziali” (cfr. Cass. cit. § III.1).

Nel nuovo assetto costituzionale dello Stato, venuta meno – per effetto dell’introduzione del divorzio, la cui disciplina è stata ritenuta conforme ai precetti costituzionali (cfr. Corte cost. 11 dicembre 1973 n. 176) – l’uniformità tra lo stato coniugale canonico e quello civile, era stata in un primo tempo dichiarata non fondata la questione di legittimità costituzionale della riserva alla giurisdizione dei tribunali ecclesiastici delle controversie in materia di nullità dei matrimoni canonici trascritti (v. Corte cost. 2 febbraio 1982 n. 18) essendosi rilevato che tale riserva non poteva ritenersi incompatibile con l’ordinamento costituzionale italiano – sotto il profilo del diritto alla tutela giurisdizionale, annoverato tra i principi supremi del nostro ordinamento – “quale coerente corollario dell’attribuzione della competenza giurisdizionale sulla validità del matrimonio canonico a quello stesso ordinamento cui spetta la disciplina sostanziale dei requisiti di validità, in ciò dovendosi ravvisare la giustificazione razionale e politica della deroga alla giurisdizione statale costituente uno dei cardini del sistema matrimoniale concordatario”. Tuttavia, come ha osservato la Suprema Corte, il fatto che “la riserva fosse un corollario coerente all’attribuzione della disciplina sostanziale dei requisiti di validità del matrimonio all’ordinamento canonico, è argomento idoneo a giustificare la riserva prevista dall’art. 34, 4º comma, del Concordato del 1929 (che considerava sacramento il matrimonio, come tale recepito dallo Stato italiano) e potrebbe essere utilizzato per giustificare la riserva se fosse prevista nell’Accordo del 1984 (che peraltro non ribadisce il carattere sacramentale del matrimonio), ma non potrebbe essere invocato per desumerne una riserva che nell’Accordo non fosse stata mantenuta” invero, se “l’attribuzione ad uno stesso ordinamento della disciplina sostanziale e della competenza processuale” non era in contrasto con la Costituzione, “ciò non vuol dire che la “riserva” fosse un corollario, oltre che coerente, anche necessario e che non potesse concordarsi un mutamento degli impegni dello Stato, con la previsione di un concorso della competenza statale con quella dei tribunali ecclesiastici, in modo da non implicare una totale abdicazione dello Stato all’esercizio della giurisdizione” (cfr. cit. Cass., Sez. un. 13 febbraio 1993 n. 1824, § III.2).

Con l’art 13 dell’Accordo, nella parte in cui stabilisce che le disposizioni del concordato del 1929 non riprodotte nel nuovo testo sono abrogate, si è quindi inteso significare che “il massimo del sacrificio delle proprie prerogative, consentito da ciascuna parte, è quello che risulta espressamente dall’Accordo, oltre il quale non è possibile ammetterne altri”, per cui dalla mancata riproduzione nel nuovo testo discende l’abrogazione delle disposizioni precedenti: “poiché l’art. 8.2 dell’Accordo di revisione riproduce, sia pure con rilevanti modificazioni, le disposizioni dell’art. 34 relative alla delibazione, ma non anche quella contenente la riserva di giurisdizione d tribunali ecclesiastici delle cause concernenti la nullità del matrimonio, quest’ultima disposizione è rimasta abrogata ai sensi dell’art. 13”, con la conseguenza del concorso tra giurisdizione italiana e giurisdizione ecclesiastica, “da risolvere mediante il criterio della prevenzione” (cfr. § III.3, ibidem).

La Corte ha infine ritenuto opportuno precisare che, con l’abrogazione della riserva ecclesiastica la giurisdizione del giudice italiano si è estesa dalle cause sulla nullità della trascrizione del matrimonio – già devolute alla cognizione del giudice italiano nella vigenza del Concordato del 1929 – alle cause concernenti la nullità del matrimonio canonico. Invero, se al giudice italiano “fosse ancora inibito giudicare sulla nullità del matrimonio, il venir meno della “riserva” non avrebbe significato, derivando la giurisdizione italiana, una volta abolita la “riserva”, non tanto dalle norme dell’Accordo, che pongono le sentenze ittiche su un piano analogo a quello delle sentenze straniere da delibare, e dal richiamo dei nn. 5 e 6 dell’art. 797 c.p.c. (che è soltanto confermativo della giurisdizione italiana), quanto dalle norme – costituzionali e processuali – che ne costituiscono il fondamento” (v. § III.4, ibidem).

La sussistenza della giurisdizione del giudice italiano sulle domande di nullità del matrimonio canonico – già sostanzialmente affermata in due precedenti pronunce della Suprema Corte di cassazione (v. Cass. 5 febbraio 1988 n. 1212 e Cass 1º marzo 1988 n. 2164; per una recente decisione di merito in tal senso cfr. Trib. Cremona 17 febbraio 1994, Foro it., 1576) – non sembra tuttavia costituire un dato del tutto incontestato, considerato che, successivamente alla ricordata sentenza delle elezioni unite n. 1824 del 13 febbraio 1993 e costituzionale – chiamata a verificare se la riserva di giurisdizione espressa dall’art. 1 l. 27 maggio 1929 n. 810, in relazione all’art. 34 del Concordato del 1929, fosse in contrasto con l’art. 7, 1º comma, Cost. (v. ord. App. Torino 9 luglio 1992, Foro it. 1992, I, 3102 ss.) – nella sentenza n. 421 del 1º dicembre 1993, con la quale ha dichiarato ammissibile la predetta questione di legittimità costituzionale – riconoscendo la fondatezza dell’eccezione proposta dall’Avvocatura dello Stato, sul rilievo che “le modificazioni del Concordato espresse dall’Accordo del 1984 disciplinano l’intera materia e impediscono, quindi, di fare ricorso a testi normativi precedenti” – ha affermato che, nella nuova disciplina derivante dall’Accordo del 1984, “coerentemente con il principio di laicità dello Stato, in presenza di un matrimonio che ha avuto origine nell’ordinamento canonico e che resta disciplinato da quel diritto, il giudice civile non esprime la propria giurisdizione nell’atto di matrimonio, caratterizzato da una disciplina conformata nella sua sostanta all’elemento religioso, in ordine alla quale opera la competenza del giudice ecclesiastico”, permanendo pienamente, invece, “la giurisdizione dello Stato sugli effetti civili” (v. C. cost. cit. § 4).

Tale orientamento – che la stessa Corte costituzionale riconosce essere costruito “sul fondamento di considerazioni di principio non ancorate a meri riferimenti testuali” (cfr. C. cost. cit. § 4), e successivamente fatto proprio dal giudice rimettente, nella sentenza pronunciata a seguito della decisione della Consulta (cfr. App. Torino 29 aprile 1994, in Foro it; 1994, 1, 2502 ss, ove si afferma che, anche dopo l’Accordo del 1984, sussiste la giurisdizione esclusiva dei tribunali ecclesiastici nelle cause di invalidità del matrimonio concordatario; in precedenza cfr. Trib. Catania 13 ottobre 1987, Dir famiglia 1988, 369, e Trib. Napoli 27 gennaio 1989, Rass. dir. civ. 1990, 153) – non può tuttavia essere condiviso, laddove si rilevi, secondo quanto è stato osservato in dottrina, che “la tesi della persistenza della riserva si infrange sull’argomento perentorio tratto dall’art. 13 dell’Accordo il quale abroga le norme del Concordato del 1929 non piú riprodotte”, argomento che si impone con l’immediata evidenza del sillogismo l’art. 34, 4º comma del Concordato prevedeva espressamente la riserva di giurisdizione a favore dai tribunali ecclesiastici; l’art. 8 del nuovo Accordo, invece, disciplinando ex novo il riconoscimento civile de matrimonio canonico e delle sentenze di nullità, non menziona piú tale riserva di giurisdizione; dunque, è palese che il 4º comma dell’art. 34 del Concordato lateranense risulta abrogato, e con esso è venuto meno il riconoscimento della riserva.

E’ stato opportunamente sottolineato, in proposito, che “il silenzio di un accordo internazionale sulla giurisdizione dello Stato in ordine ai rapporti facenti capo a suoi cittadini non è affatto “equivoco” o “neutrale”; quel silenzio, al contrario, non può che essere inteso come conferma dell’ovvia regola – suscettibile soltanto di espressa eccezione – per cui lo Stato ha giurisdizione su tali rapporti”, e, in mancanza di una riserva esplicita, implicita è la giurisdizione dello Stato, la quale – in quanto espressione caratteristica della sovranità (v. C. cost. 11 dicembre 1973 n. 175) – trova fondamento nelle norme costituzionali e processuali contenute negli artt. 24, 1º comma, 25, 1º comma, 101, 102, 1º e 2º comma, Cost. e 1 e 112 c.p.c.

Nel caso in esame, poiché la domanda di nullità del matrimonio concordatario proposta dall’attrice davanti al Tribunale di Padova non è stata preceduta dall’anteriore proposizione di analoga domanda davanti al giudice ecclesiastico, deve affermarsi la giurisdizione del giudice adìto.

Appare tuttavia opportuno osservare che, sebbene la Suprema Corte abbia subordinato la giurisdizione del giudice italiano al criterio della prevenzione – criterio che, indubbiamente, viene in considerazione nel caso della delibazione delle sentenze straniere, a norma dell’art. 797 n. 5 e 6 c.p.c., per effetto del richiamo contenuto nell’art. 4 b) dell’Accordo, ma che non trova analogo fondamento testuale per quanto riguarda la cognizione diretta dal giudice italiano sulle domande di nullità del matrimonio – la giurisdizione italiana non può comunque ritenersi esclusa, in via di principio, dalla pendenza, davanti ad un giudice straniero connessa, della medesima causa o di altra con questa secondo quanto espressamente stabilisce l’art. 3 c.p.c.

2. Una volta affermata la giurisdizione del giudice italiano sulle domande di nullità del matrimonio canonico, sorge il problema dell’individuazione delle norme sostanziali in base alle quali la nullità deve essere accertata e dichiarata.

Invero, superata la questione dell’applicabilità del diritto italiano in ordine ai requisiti di validità dell’autonomo atto di scelta tra matrimonio canonico e matrimonio civile, atto che precede la celebrazione matrimoniale (v. C. cost. 1º marzo 1971 n. 32), rimane il problema del diritto applicabile nel giudizio – proposto davanti al giudice italiano – sulla nullità non dell’atto di scelta bensì del matrimonio canonico.

Il dibattito dottrinale ha portato a sostenere ora la tesi dell’applicabilità del diritto canonico, ora la tesi contrapposta dell’esclusiva applicazione del diritto civile.

Nella richiamata pronuncia delle Sezioni unite del 13 febbraio 1993 n. 1824 si rinviene soltanto un breve cenno alla questione. Infatti, la Corte di cassazione, dopo aver osservato che “l’attribuzione all’ordinamento canonico della disciplina sostanziale del matrimonio” non implica necessariamente che la competenza processuale debba del pari attribuirsi esclusivamente ai tribunali ecclesiastici e non anche, concorrentemente, ai giudici dello Stato, “in quanto – si dice – questi ultimi sarebbero comunque chiamati ad applicare le norme del diritto canonico”, rileva che “se anche ciò fosse vero – e non è questa la fase del processo in cui il dubbio debba essere sciolto – il giudice italiano si troverebbe nella stessa situazione in cui, in virtù degli artt. 17/27 disp. prel. c.c. o in applicazione di norme di diritto internazionale privato convenzionale, debba applicare la legge straniera regolatrice del rapporto sostanziale, pur rimanendo disciplinate la competenza e la forma del processo dalla legge italiana” (cfr. § III.2).

La diretta applicabilità del diritto canonico nei giudizi di nullità proposti davanti al giudice italiano sembra discendere dall’art. 8.1 dell’Accordo, che riconosce effetti civili “ai matrimoni contratti secondo le norme del diritto canonico”, e parrebbe astrattamente trovare conferma nella previsione del punto 4 b) del Protocollo addizionale, che impone di tener conto – ai fini, peraltro, dell’applicazione degli art. 796 e 797 c.p.c. – “della specificità dell’ordinamento canonico dal quale è regolato il vincolo matrimoniale, che in esso ha avuto origine”. Il giudice italiano viene quindi a trovarsi nella medesima situazione che si verifica in ogni altro caso in cui debba trovare applicazione la legge straniera regolatrice del rapporto sostanziale, a norma dell’art. 17 disp. prel. c.c., ove il richiamo alla legge dello Stato cui le parti appartengono deve intendersi riferito al diritto canonico.

Tuttavia, come è stato puntualmente osservato in dottrina, la circostanza che le norme pattizie menzionino espressamente quale legge regolatrice il diritto canonico, non esclude – ed anzi presuppone, trattandosi di matrimonio civilmente efficace – che la legge regolatrice sia anche il diritto dello Stato, che in forza dell’Accordo concorre a formare la disciplina matrimoniale (cfr. il disposto dell’art. 8.1 dell’Accordo e dell’art. 4 lett. a del Protocollo addizionale, concernenti i requisiti di età e l’assenza di taluni impedimenti, ai fini della trascrivibilità dell’atto). Secondo tale prospettiva, il giudice statale, non potendo limitarsi a dare applicazione diretta al diritto canonico, dovrebbe invece applicare le norme canoniche filtrate attraverso le norme civili regolanti la medesima materia, nel rispetto del limite dell’ordine pubblico internazionale fissato dall’art. 31 disp. prel. c.c.

Ciò in quanto varie cause di nullità, proprie dell’ordinamento canonico, vengono ad incontrare i limiti dell’ordine pubblico propri di uno Stato laico – in dottrina è richiamata, ad esempio, l’ipotesi di nullità per incapacità di sostenere gli oneri coniugali o per esclusione del bonum sacramenti (corrispondente all’indissolubilità, che sostanzialmente contrasta con i principi dello Stato che ammettono il divorzio (cfr., sul punto, App. Trento 3 agosto 1982, Dir. fam. 1982, 889; v. invece Cass. 17 febbraio 1983 n. 1225, Cass. 18 aprile 1984 n. 2543 Cass. 13 giugno 1984 n. 3535, Cass. 9 dicembre 1993 n. 12144) – senza che, tra l’altro, possa trovare applicazione, nel giudizio di nullità direttamente instaurato davanti al giudice statale, quella valutazione della “specificità dell’ordinamento canonico” espressamente imposta – in funzione adeguatrice e di contemperamento (v. ad es. Cass. 27 novembre 1991 n. 12671, Cass. 19 febbraio 1991 n. 1709) – dal punto 4 b) Prot. add per la sola ipotesi della delibazione delle sentenze ecclesiastiche di nullità (cfr., con riferimento al limite dell’ordine pubblico nei procedimenti di delibazione iniziati anteriormente all’Accordo del 1984: Cass. 6 dicembre 1985 n. 6128 e n. 6129, Cass. 18 febbraio 1985 D. 1376, Cass. 1º agosto 1986 n. 4910, Cass. 13 gennaio 1987 n. 142, Cass. 15 gennaio 1987 n. 241, Cass. 12 marzo 1987 n.2552, Cass. 26 maggio 1987 n. 4707, Cass. 24 luglio 1987 n. 6444, Cass. 28 novembre 1987 n. 8851, Cass. 8 agosto 1988 n. 4875).

Sul diverso versante dei sostenitori dall’esclusiva applicazione del diritto civile, è stato osservato che – volendo inquadrare il problema della giurisdizione sul matrimonio concordatario nella nuova intesa tra lo Stato italiano e la Chiesa cattolica – per rispetto del principio della libertà religiosa non avrebbe senso che il giudice giudicasse della validità del matrimonio secondo il diritto confessionale. Da parte dell’ordinamento statuale, la libertà religiosa, quale libertà civile garantita dall’art. 19 Cost., impone l’assoluta liceità di ogni cambiamento nella posizione dei singoli, per cui lo scambio dei consensi nella formazione del matrimonio canonico – come non vale a radicare definitivamente la giurisdizione dei tribunali ecclesiastici in vista dell’eventuale giudizio di nullità del vincolo – così non può portare a fissare il diritto canonico come disciplina esclusiva della validità. Si è quindi affermato che, quando la parte si rivolga al giudice civile perché accerti l’invalidità del matrimonio canonico, dimostra di essersi allontanata dall’ordinamento della Chiesa, e di non tenere in considerazione le norme confessionali imporre al giudice dello Stato di giudicare a norma dell’ordinamento confessionale costituirebbe violazione della libertà religiosa non solo dell’attore, ma anche del convenuto, il quale, se fosse rimasto legato alla Chiesa, in coscienza non potrebbe comunque accettare che il giudice civile pronunci sulla validità del matrimonio canonico.

In una prospettiva ancor più ampia, si è infine osservato che il giudicare della validità del matrimonio canonico con esclusivo riferimento alle norme del diritto civile conduce, come necessaria conseguenza, ad intendere il matrimonio concordatario quale semplice forma di celebrazione del matrimonio civile, non diversamente da quanto già avviene per i matrimoni celebrati con i riti delle confessioni religiose diverse dalla cattolica (v. ad es. l’art. 11 dell’Intesa con la Tavola valdese del 21 febbraio 1984 e della relativa l. 11 agosto 1984 n. 449, e l’art. 14 della l. 8 marzo 1989 n. 101 per i matrimoni di rito ebraico).

Prendendo spunto da questi ultimi rilievi, appare opportuno sottolineare che la soluzione del problema del diritto applicabile, tracciata nel citato obiter dictum della richiamata sentenza delle Sezioni unite, appare indubbiamente la piú idonea a garantire l’osservanza dei principi disciplinanti i rapporti tra fonti normative provenienti da diversi ordinamenti primari.

Tuttavia, il richiamo alle norme di diritto internazionale privato importa, nei giudizi civili di nullità dei matrimoni concordatari, non soltanto l’applicazione delle norme di diritto canonico – seppure vagliate, come si è accennato, attraverso i limiti derivanti dai principi dell’ordine, pubblico, di cui all’art 31 disp. prel. c.c. – secondo quanto si verifica in ogni altro caso di applicazione della legge “straniera” regolatrice del rapporto sostanziale, a norma dell’art 17 disp. prel. c.c., ma sembra altresì consentire la diretta applicazione del diritto civile statuale, richiamato dall’art. 17 cit. quale legge dello Stato cui appartengono le persone nei cui confronti la pronuncia sulla nullità è stata invocata.

Invero, se il diritto canonico viene a ricevere applicazione da parte del giudice italiano in quanto legge regolatrice del rapporto sostanziale, ciò accade – per effetto della disposizione di cui all’art. 17 disp. prel. c.c. – perché nel matrimonio canonico le parti, al fine di giungere alla formazione del vincolo secondo la propria fede religiosa – ma senza per questo cessare di essere, nel contempo, soggetti all’ordinamento dello Stato – contraggono il matrimonio come fedeli della Chiesa cattolica, e quindi come appartenenti ad un altro ordinamento.

Ciò non esclude, tuttavia, che il matrimonio concordatario – preso in considerazione dal punto di vista dell’ordinamento statuale italiano – debba ritenersi celebrato, ai sensi dell’art. 26 disp. prel. c.c., secondo una delle forme ammesse dalla lex loci actus, in concorso cumulativo, dalla communis lex patriae – coincidente, per i matrimoni celebrati in Italia tra cittadini italiani, con la “lex loci – che, quale legge nazionale dei contraenti, disciplina altresì i requisiti sostanziali di validità dell’atto a norma dell’art. 17 disp. prel. c.c., in quanto lex substantiae (cfr. ad es. Cass. 28 aprile 1990 n. 3599, Foro it. 1990, 2177, ove è affermato – con riferimento alla diversa ipotesi del matrimonio celebrato all’estero in forma religiosa tra cittadini italiani – che le norme di diritto internazionale privato sanciscono, con gli artt. 26 e 17 disp prel. c.c., la piena validità in Italia degli atti che risultino compiuti secondo le forme prescritte dalla legge del luogo, e perciò anche del matrimonio che abbia effetti civili nell’ordinamento interno dello Stato in cui è avvenuta la celebrazione).

Di conseguenza, il matrimonio contratto secondo le norme del diritto canonico, celebrato in Italia tra cittadini italiani – avente effetti civili ai sensi dell’art. 8.1 dell’Accordo del 1984 tra lo Stato italiano e la Santa Sede e sempre comunque un matrimonio disciplinato, in via concorrente, anche dalla legge statuale comune ad entrambi i coniugi (e quindi dalla legge italiana), che a norma dell’art. 17 disp. prel. c.c. regola i requisiti sostanziali di validità del matrimonio con effetti civili. Il perfezionamento della fattispecie costitutiva del matrimonio concordatario (con la trascrizione, disciplinata dall’art. 81 dell’Accordo) rappresenta, pertanto, la condizione per l’applicazione delle norme del diritto italiano che regolano non soltanto gli effetti civili conseguenti al matrimonio, ma altresì, ed ancor prima, la validità del vincolo matrimoniale.

Deve infine osservarsi che l’operatività dell’art. 17 disp. prel. c.c. anche in favore della legge italiana, quale lex substantiae regolatrice del rapporto, non sembra trovare ostacolo in alcuna norma di diritto internazionale privato convenzionale, ed in particolare nelle norme pattizie dell’Accordo del 1984, laddove l’impegno dello Stato italiano di tener conto della disciplina canonica del vincolo matrimoniale – impegno previsto dal punto 4 b) prot. add. – è stato assunto, come si è già accennato, con esclusivo riferimento alla diversa ipotesi (regolata dall’art. 8.2 dell’Accordo) della delibazione delle sentenze ecclesiastiche, ai fini dell’applicazione degli artt. 796 e 797 c.p.c. (v. § 111.5 in Cass., Sez. un., 13 febbraio 1993 n. 1824 cit.), mentre l’espressione contenuta nell’art 8.1 – “sono riconosciuti gli effetti civili ai matrimoni contratti secondo le norme del diritto canonico” – appare del tutto ininfluente al fine della ricostruzione di un’ipotetica “riserva” convenzionale in ordine alle disposizioni sostanziali da applicare nei giudizi civili di nullità.

Nel proporre davanti al giudice italiano la domanda di nullità del matrimonio concordatario, la parte interessata può quindi elettivamente dedurre, in via alternativa o cumulativa l’applicazione delle norme disciplinanti la validità del vincolo matrimoniale alla stregua dell’uno o dell’altro ordinamento, con il limite – per quanto riguarda il diritto canonico – derivante dal disposto dell’art. 31 disp. prel. c.c.

Può quindi affermarsi che al riconoscimento della giurisdizione del giudice italiano sulle domande di nullità dei matrimoni concordatari consegue il completo assoggettamento del momento genetico del matrimonio al diritto civile statuale, ove l’applicazione eventuale delle norme canoniche che dettano la disciplina sostanziale del matrimonio può avvenire – se ed in quanto invocata dalla parte interessata – soltanto per effetto e nei limiti consentiti dalle norme italiane di diritto internazionale privato.

Con riferimento al caso concreto sottoposto all’esame del Collegio, deve osservarsi che l’attrice ha proposto la domanda di nullità ai sensi dell’art. 122 c.c., con esclusivo riferimento alla fattispecie civilistica dell’errore essenziale sulle qualità personali dell’altro coniuge.

Per le ragioni ora esposte, la domanda appare pertanto ammissibile, sotto il profilo accennato, e deve dunque essere esaminata nel merito.

3. Venendo ora alle questioni concernenti l’accertamento dei presupposti per l’annullamento del matrimonio a norma dell’art. 122, 2º e 3º comma n. 1, c.c., si osserva che la presenza nel coniuge di una malattia fisica o psichica o di una anomalia (o deviazione) sessuale – tra cui rientra anche l’impotentia coeundi – è causa di invalidità del matrimonio non di per sé, ma solo in quanto oggetto di errore essenziale, che abbia inficiato il consenso prestato dall’altro coniuge. Va rilevato che, piú correttamente, nella fattispecie di cui al n. 1 dell’art. 122, 3º comma, c.c. – così come nelle altre ipotesi indicate dal 3º comma dell’articolo citato, con la sola esclusione del n. 5 – si tratta non di errore (inteso quale falsa rappresentazione della realtà) bensì di ignoranza (quale assenza di rappresentazioni), ove la determinazione al consenso non è riconducibile ad un motivo prodotto dall’inesatta percezione della realtà, bensì “alla mancanza di cognizione o rappresentazione di una data realtà”, per cui l’errore è essenziale quando risulta che il consenso non sarebbe stato prestato se le qualità “negative” del coniuge fossero state conosciute dall’altro coniuge al momento del matrimonio.

In tale prospettiva, la non conoscenza del fatto ignorato – per poter essere considerata determinante del consenso, ai sensi dell’art. 122 c.c., laddove prevede che “l’errore sulle qualità personali è essenziale qualora, tenute presenti le condizioni dell’altro coniuge, si accerti che lo stesso non avrebbe prestato il suo consenso se le avesse esattamente conosciute” – deve costituire un contromotivo, idoneo in concreto ad inibire le ragioni che avevano indotto al matrimonio. In particolare, si ritiene necessario che le condizioni personali del coniuge siano tali da giustificare – secondo l’id quod plerumque accidit – un atteggiamento di rifiuto nei confronti della controparte.

La fattispecie di cui all’art. 122, 3º comma n. 1, c.c. presuppone, quindi, che sussista oggettivamente una malattia fisica o psichica o un’anomalia o deviazione sessuale e che lo stato patologico sia tale “da impedire lo svolgimento della vita coniugale”, nonché richiede l’accertamento che il coniuge “in errore” non sarebbe addivenuto al matrimonio se avesse conosciuto la reale situazione dell’altro coniuge (v. Trib. Napoli 7 marzo 1986, Giur. merito 1987, 932; Trib. Napoli 9 maggio 1986, Giust. civ. 1987, 971; Trib. Belluno 9 marzo 1993, Giur. merito 1993, 911, Trib. Bari 1º ottobre 1993, Foro it. 1994, 1963; cfr. altresì Cass. 14 aprile 1994 n. 3508, secondo cui “il fatto costitutivo dell’annullabilità del matrimonio prefigurata dal n. 1 dell’art. 122 c.c. non è la malattia in sé, ma l’errore del coniuge che, per averla ignorata o non esattamente conosciuta – nel senso che non la conosceva o che, pur conoscendola, ne ignorava l’attitudine ad influire negativamente, in ragione delle sue caratteristiche, nello svolgimento della vita coniugale – si è indotto al matrimonio senza la consapevolezza dell’oggettivo impedimento, tenuto conto del fatto che nella materia l’esattezza della conoscenza non deve intendersi necessariamente riferita alla diagnosi tecnica – patogenica e strutturale – della malattia, essendo invece riferibile anche alle sue manifestazioni esteriori socialmente percepibili e da chiunque mediamente valutabili quanto al loro tasso di incidenza sulle relazioni intersoggettive in generale e sulla vita coniugale in particolare”).

Con riferimento al primo elemento della fattispecie, va osservato che l’impotenza, quale incapacità al completo congiungimento carnale, non è configurata nella disciplina vigente quale autonoma causa di nullità – a differenza di quanto prevedeva l’art. 123, 1º comma, c.c. nel testo anteriore alla l. 19 maggio 1975 n. 151 di riforma del diritto di famiglia, secondo cui “l’impotenza perpetua, così assoluta come relativa, quando è anteriore al matrimonio, può essere proposta come causa di nullità dall’uno e dall’altro coniuge” – ma è ora suscettibile di venire in considerazione soltanto come elemento costitutivo della fattispecie dell’errore previsto dall’art. 122, 3º comma n. 1, c.c. in quanto non conosciuta dall’altro coniuge all’atto della prestazione del consenso. Il requisito della perpetuità dell’impedimento, non espressamente riprodotto nel testo dell’art. 122 c.c., sembra essere stato diversamente considerato laddove si richiede che l’anomalia sia tale “da impedire lo svolgimento della vita coniugale”, mentre l’anteriorità continua ad essere presupposta, in relazione alla natura di vizio invalidante ab origine il consenso matrimoniale.

L’impotentia coeundi – anche se soltanto relativa alla persona del coniuge – costituisce di per sé un impedimento al compiuto svolgimento della vita coniugale, il cui rilievo, in ipotesi di mancata conoscenza da parte dell’altro contraente, è indubbiamente essenziale e determinante del consenso – con riferimento alla normale funzione del matrimonio ed all’assolvimento dei doveri che dallo stesso derivano a norma dell’art. 143 c.c. – potendo presumersi, in via generale, che il consenso non sarebbe prestato se la predetta condizione fosse conosciuta dall’altro coniuge al momento del matrimonio.

Deve infine osservarsi che – sotto il profilo probatorio – la sussistenza dello stato di impotenza, nonché della mancata conoscenza da parte dell’altro coniuge all’atto della prestazione del consenso, non possono desumersi dalle sole conformi dichiarazioni dei coniugi, ben potendo peraltro il giudice, in mancanza di ulteriori elementi di prova, pervenire all’accertamento dei presupposti di cui all’art. 122, 3º comma n. 1, c.c. anche sulla base di presunzioni, purché gravi, precise e concordanti (cfr., ad es., con riferimento alla prova della mancata consumazione del matrimonio: Trib. Napoli 16 maggio 1984, Foro it. 1984, 1975 e Giust. civ. 1984, 3437; Trib. Napoli 24 febbraio 1984, Giur. merito 1985, 548; Trib. Firenze 4 novembre 1985, Dir. fam. 1986, 159).

Nel caso in esame, le affermazioni dell’attrice circa la sussistenza dello stato di impotenza del coniuge sin dalla prima notte di matrimonio e circa il protrarsi di tale stato in epoca successiva – affermazioni non contestate, ed anzi espressamente confermate dal convenuto – risultano innanzitutto confortate dal certificato sanitario attestante che Renato Morello è stato sottoposto, in data 7 ottobre 1991 – a pochi giorni dal matrimonio, celebrato il 14 settembre 1991 – ad intervento chirurgico di circoncisione e frenuloplastica per fimosi (cfr. certificato USL n. 13 datato 22 febbraio 1992, doc. 2, fasc. attrice), anomalia organica che nella prevalenza dei casi preclude il normale esplicarsi della funzione sessuale; e l’eliminazione dell’imperfezione fisica, a seguito dell’intervento, non determina necessariamente l’acquisto della funzione, allorquando permanga nel soggetto una condizione psichica che – come ha affermato lo stesso convenuto – non consenta di “superare l’iniziale trauma della mancata consumazione”.

Il permanere dello stato di impotenza del Morello – anche dopo l’intervento chirurgico – risulta, invero, indirettamente confermato dall’esito della perizia disposta in sede di procedimento ecclesiastico per dispensa dal matrimonio, laddove il medico incaricato dell’accertamento ha rilevato che “la signora Nerina all’esame obiettivo vaginale è intatta e priva di esiti recenti e remoti di pregressi tentativi di coito” (cfr relazione del dott. G. Pizzolon in data 5 aprile 1992, prodotta in giudizio in allegato alla memoria istruttoria congiunta del 15 settembre 1993). Dalla mancata consumazione del matrimonio – circostanza che, in quanto accertata storicamente, rappresenta un fatto noto dal quale possono trarsi conseguenze in via presuntiva a norma dell’art. 2727 c.c. – appare quindi possibile risalire – mediante l’inferenza logica, propria della prova critica, e sul fondamento degli elementi gravi, precisi e concordanti ora esposti – al fatto ignoto consistente nella causa dell’inconsumazione del matrimonio: nella specie, dunque, l’inconsumazione può univocabilmente presumersi derivare dall’impotentia coeundi del convenuto, assoluta o, quantomeno, relativa alla persona della moglie.

L’attrice ha inoltre affermato di essere venuta a conoscenza dell’impotenza del marito dopo le nozze, e di aver concretamente percepito la rilevanza del problema soltanto a seguito degli infruttuosi tentativi di consumare il matrimonio; lo stesso convenuto ha precisato, dal canto suo, di aver ritenuto che la propria incapacità, non prospettatasi prima del matrimonio per mancanza di rapporti sessuali, potesse comunque essere superata mediante l’esperienza derivante dal matrimonio, con ciò confermando che la Zardo, sino al momento della prestazione del consenso, non aveva avuto modo di rappresentarsi la reale condizione del Morello. Sembra quindi potersi ragionevolmente presumere che, qualora la Zardo avesse avuto consapevolezza dell’oggettivo e peculiare stato personale del Morello, non avrebbe prestato il suo consenso al matrimonio.

Non può inoltre dubitarsi che tale condizione del Morello costituisse per sua natura, ed in concreto un reale impedimento al normale svolgimento della vita coniugale, comprovato dal repentino allontanamento della Zardo dalla casa coniugale – avvenuto in data 22 gennaio 1992, a poco piú di quattro mesi dalle nozze, secondo quanto ha riferito l’attrice, non smentita dal convenuto – sia dal complessivo comportamento dei coniugi, che hanno insistito nel chiedere la dichiarazione di nullità del matrimonio, sull’implicito presupposto della perdurante impossibilità di un’unione coniugale.

Da queste ultime considerazioni emerge, infine, che successivamente alla manifestazione dell’anomalia del Morello la coabitazione non si è protratta per oltre un anno, per cui non si è verificata la decadenza prevista dall’ultimo comma dell’art. 122 c.c.

La domanda proposta dall’attrice va pertanto accolta, dovendosi dichiarare la nullità del matrimonio concordatario celebrato tra le parti in data 14 settembre 1991.

4. Appare opportuno, a questo punto, accennare brevemente alle ulteriori questioni derivanti dalla particolarità della fattispecie in esame.

A seguito della sentenza della Corte costituzionale n. 18 del 2 febbraio 1982, che ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 1 della l. 27 maggio 1929 n. 810, limitatamente all’esecuzione data all’art. 34, 4º e 5º comma, del Concordato del 1929, e dell’art 17 della l. 27 maggio 1929 n. 847, è venuta meno la possibilità di rendere esecutivo nell’ordinamento italiano il provvedimento dell’autorità ecclesiastica di dispensa dal matrimonio rato e non consumato; di conseguenza, la pretesa di far valere agli effetti civili tale causa di scioglimento del matrimonio canonico non ha piú tutela giudiziale, sicché la relativa domanda è assolutamente improponibile (cfr. Cass. 3 dicembre 1984 n. 6296, Cass. 24 maggio 1984 n. 3186, Cass. 1º febbraio 1984 n. 779).

La dispensa pontifica super rato er non consummato – che comporta lo scioglimento ex nunc del vincolo matrimoniale nell’ambito dell’ordinamento canonico – si fonda sulla prova della mancata consumazione del matrimonio, indipendentemente dalla dimostrazione di un’impotenza assoluta o relativa anteriore al matrimonio stesso, che implicherebbe, invece, la nullità del vincolo (cfr. Cass. 16 gennaio 1982 n. 270). Venuta meno la possibilità di riconoscere efficacia civile alla dispensa super rato, la mancata consumazione del matrimonio concordatario assume specifico ed autonomo rilievo, nell’ambito dell’ordinamento statuale soltanto quale motivo di cessazione degli effetti civili del matrimonio, secondo l’espressa previsione dell’art. 3, n. 2 lett. f della l. 1º dicembre 1970 n. 898, modificata dalla l. 6 marzo 1987 n. 74 ove l’inconsumazione rileva di per sé, qualunque ne sia la causa, in quanto rientra nella tipologia dell’inesistenza della comunione di vita materiale e spirituale, venendo a mancare la realizzazione della normale attività sessuale reputata essenziale alla funzionalità del matrimonio (cfr. Trib. Vicenza 20 giugno 1972; Trib. Lecce 25 maggio 1979; Trib. Napoli 16 maggio 1984 cit.; Trib. Napoli 24 febbraio 1984 cit.; App. Torino 30 novembre 1984, Foro it. 1986, 1054; Trib. Monza 20 novembre 1987; Trib. Napoli 3 aprile 1989, Giust. civ. 1989, 2715).

Qualora, tuttavia, la mancata consumazione dipenda da una causa cui l’ordinamento attribuisca rilevanza, nell’ambito di una fattispecie complessa risalente al momento costitutivo del vincolo (ad es. impotenza, con riferimento all’ipotesi di errore ai sensi dell’art. 122 n. 1 c.c.; simulazione, prevista dall’art. 123 c.c.), il coniuge interessato può ottenere direttamente dal giudice civile – a seguito dell’abrogazione della riserva di giurisdizione dei tribunali ecclesiastici – la dichiarazione di nullità del matrimonio concordatario.

Pertanto, nel caso in cui l’inconsumazione del matrimonio sia riconducibile a una causa di nullità è possibile ricorrere a due distinti rimedi per far venir meno il vincolo matrimoniale, dei quali il primo consiste nel dedurre l’invalidità del matrimonio, nel termine di decadenza eventualmente previsto (v. art. 122, ultimo comma, c.c., e art. 123, 2º comma, c.c.), ed il secondo consiste nel richiedere il divorzio per inconsumazione, a norma dell’art. 3 n. 2 lett. f), della l. 1º dicembre 1970 n. 898, rimedio, quest’ultimo, che può essere fatto valere anche quando sia già maturato il termine di decadenza previsto per l’azione di nullità (cfr., in tema di simulazione, App. Firenze 22 agosto 1988, Dir. fam. 1989, 629).

Nel caso in esame, poiché all’origine della mancata consumazione del matrimonio sussisteva l’impotentia coeundi del marito, ignorata dalla moglie al momento della prestazione del consenso, fondatamente è stata domandata la dichiarazione della nullità originaria del vincolo matrimoniale, e non invece la mera pronuncia della cessazione degli effetti civili del matrimonio.

Sul fondamento delle considerazioni che precedono, la domanda proposta da Nerina Zardo nei confronti di Renato Morello va pertanto accolta dovendosi dichiarare la nullità del matrimonio concordatario contratto dalle parti in data 14 settembre 1991, e trascritto nei Registri dello Stato Civile del Comune di Altivole al n. 24, parte II, serie A, anno 1991. Va conseguentemente ordinato all’Ufficiale dello Stato civile del Comune di Altivole (TV) di provvedere alle necessarie annotazioni della presente sentenza nei registri dello Stato civile.

(omissis)