Osservatorio delle libertà ed istituzioni religiose

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Osservatorio delle Libertà ed Istituzioni Religiose

Documenti • 2 Luglio 2009

Sentenza 07 febbraio 1978, n.16

Corte Costituzionale. Sentenza 7 febbraio 1978, n. 16: “Inammissibilità del referendum abrogativo dell’art. 1 della legge n. 810/1929, limitatamente agli artt. 1, 10, 17 e 23 del Trattato e all’intero contenuto del Concordato”.

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori Giudici:

Prof. Paolo ROSSI, Presidente
Dott. Luigi OGGIONI
Avv. Leonetto AMADEI
Prof. Edoardo VOLTERRA
Prof. Guido ASTUTI
Dott. Michele ROSSANO
Prof. Antonino DE STEFANO
Prof. Leopoldo ELIA
Prof. Guglielmo ROEHRSSEN
Avv. Oronzo REALE
Dott. Brunetto BUCCIARELLI DUCCI
Avv. Alberto MALAGUGINI
Prof. Livio PALADIN
Dott. Arnaldo MACCARONE,

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nei giudizi riuniti sull’ammissibilità, ai sensi dell’art. 75 secondo comma della Costituzione, delle richieste di referendum popolare per l’abrogazione:

1. – dell’art. 1 del regio decreto 20 febbraio 1941, n. 303 (“Codici penali militari di pace e di guerra”) limitatamente alle parole “il testo del codice militare di pace ” (n. 3 reg. ref.);
2. – del regio decreto 9 settembre 1941, n. 1022: “Ordinamento giudiziario militare” (n. 4 reg. ref.);
3. – della legge 2 maggio 1974, n. 195 “Contributo dello Stato al finanziamento dei partiti politici” (n.5 reg. ref.);
4. – dell’art. 1 della legge 27 maggio 1929, n. 810, che dispone “l’esecuzione del Trattato, dei quattro allegati annessi e del Concordato, sottoscritti in Roma, fra la Santa Sede e l’Italia, l’11 febbraio 1929” limitatamente al contenuto degli artt. 1, 10, 17 e 23 dell’allegato Trattato e all’intero contenuto dell’allegato Concordato (n. 6 reg. ref.);
5. – degli artt. 1, 2, 3, 3-bis della legge 14 febbraio 1904, n. 36: “Disposizioni sui manicomi e sugli alienati” e successive modificazioni (n. 7 reg. ref.);
6. – degli artt. 17 primo comma, limitatamente alle parole: “2) l’ergastolo”; 53 primo comma, limitatamente alle parole: “o di vincere una resistenza all’autorità”; 57, 57-bis, 203, 204 secondo comma, limitatamente alle parole: “nei casi espressamente determinati, la qualità di persona socialmente pericolosa é presunta dalla legge”; 205 primo comma, limitatamente alle parole: “o di proscioglimento” e secondo comma (possono essere ordinate con provvedimento successivo: 1) nel caso di condanna, durante la esecuzione della pena o durante il tempo in cui il condannato si sottrae volontariamente all’esecuzione della pena; 2) nel caso di proscioglimento, qualora la qualità di persona socialmente pericolosa sia presunta, e non sia decorso un tempo corrispondente alla durata minima della relativa misura di sicurezza; 3) in ogni tempo, nei casi stabiliti dalla legge); 206, 222, 223, 224, 225, 226, 229, 230, 231, 232, 233, 234, 235, 256, 261, 262, 265, 266, 269, 270, 271, 272, 273, 274, 275, 278, 279, 290, 290-bis, 291, 292, 292-bis, 293, 297, 299, 302, 303, 304, 305, 312, 327, 330, 332, 333, 340, 341, 342, 343, 344, 352, 402, 403, 404, 405, 406, 414 terzo comma (Alla pena stabilità nel n. 1 soggiace anche chi pubblicamente fa l’apologia di uno o più delitti); 415, 503, 504, 505, 506, 507, 508, 510, 511, 512, 527, 528, 529, 565, 571 secondo comma, limitatamente alle parole: “ridotte ad un terzo; se ne deriva la morte, si applica la reclusione da tre a otto anni”; 578, 587, 592, 596-bis, 603, 633 secondo comma (Le pene si applicano congiuntamente, e si procede di ufficio, se il fatto é commesso da più di cinque persone, di cui una almeno palesemente armata, ovvero da più di dieci persone, anche senza armi); 654, 655, 656, 657, 661, 662, 663, 663-bis, 666, 668, 724, 725 e 726 del codice penale approvato con regio decreto 19 ottobre 1930, n. 1398, e successive modificazioni (n. 8 reg. ref.);
7. – della legge 22 maggio 1975, n. 152, recante “Disposizioni a tutela dell’ordine pubblico”, ad eccezione dell’art. 5 (sostituito dall’art. 2 della legge 8 agosto 1977, n. 533) (n. 9 reg. ref.);

8. – degli artt. 3, 4, 5, 6, 7, 8, 9, 11 primo comma, limitatamente alle parole: “alla Commissione inquirente o”; 12 limitatamente alle parole: “il quale ne informa immediatamente la Commissione inquirente”; 13, 14 primo comma, limitatamente alle parole: “la Commissione inquirente o”; 16 primo comma, limitatamente alle parole: “la Commissione inquirente o” della legge 25 gennaio 1962, n. 20: “Norme sui procedimenti e giudizi di accusa” (n. 10 reg. ref.).

Uditi nella camera di consiglio del 17 gennaio 1978 l’avv. Mauro Mellini, per i Comitati promotori dei referendum, e il sostituto avvocato generale dello Stato Giorgio Azzariti, per il Presidente del Consiglio dei ministri;

udito il Giudice relatore Livio Paladin

Ritenuto in fatto

1. – Con ordinanze del 6 dicembre 1977, pervenute a questa Corte il 9 dicembre, l’Ufficio centrale per il referendum, costituito presso la Corte di cassazione, ha dichiarato legittime otto richieste di referendum popolare abrogativo.

La prima e la seconda richiesta, presentate il 30 giugno 1977 dai signori Calderisi Giuseppe, Capuzzo Francesca Romana, Galli Maria Luisa, Mellini Mauro, Aglietta Maria Adelaide, Cristofanelli Laura, Pietrolucci Giuseppe, Pallicca Davide, Spadaccia Gianfranco, riguardano – rispettivamente – l’art. 1 del r.d. 20 febbraio 1941, n. 303 (“Codici penali militari di pace e di guerra”), limitatamente alle parole “il testo del codice militare di pace”, e l’intero r.d. 9 settembre 1941, n. 1022 (“Ordinamento giudiziario militare”).

La terza richiesta, presentata il 30 giugno 1977 dai signori Bises Andrea, Calderisi Giuseppe, Cristofanelli Laura, Pallicca Davide, Vigevano Paolo, Spadaccia Gianfranco, Pietrolucci Giuseppe, attiene all’intera legge 2 maggio 1974, n. 195 (“Contributo dello Stato al finanziamento dei partiti politici”).

La quarta richiesta, presentata il 30 giugno 1977 dai signori Calderisi Giuseppe, Galli Maria Luisa, Pietroletti Glauco, Mellini Mauro, Pallicca Davide, Capuzzo Francesca Romana, Bises Andrea, concerne l’art. 1 della legge 27 maggio 1929, n. 810, che dispone “l’esecuzione del Trattato, dei quattro allegati annessi e del Concordato, sottoscritti in Roma, fra la Santa Sede e l’Italia, l’11 febbraio 1929”, limitatamente al contenuto degli artt. 1, 10, 17 e 23 dell’allegato Trattato e all’intero contenuto dell’allegato Concordato.

La quinta richiesta, presentata il 30 giugno 1977 dai signori Pietroletti Glauco, Capuzzo Francesca Romana, Pallicca Davide, Calderisi Giuseppe, Zeno Zencovich Vincenzo, Vigevano Paolo, si riferisce agli artt. 1, 2, 3 e 3-his della legge 14 febbraio 1904, n. 36 (“Disposizioni sui manicomi e sugli alienati”), e successive modificazioni.

La sesta richiesta, presentata il 30 giugno 1977 dai signori Pietroletti Glauco, Capuzzo Francesca Romana, Pallicca Davide, Calderisi Giuseppe, Zeno Zencovich Vincenzo, Vigevano Paolo, ha per oggetto l’abrogazione – totale o parziale – di 97 articoli del codice penale, approvato con r.d. 19 ottobre 1930, n. 1398, e successive modificazioni. Sono infatti coinvolti gli artt. 17 primo comma (nella parte riguardante la pena dell’ergastolo), 53 primo comma (sull’uso legittimo delle armi per “vincere una resistenza all’autorità”), 57 e 57-bis (sui reati commessi col mezzo della stampa periodica e non periodica), 203, 204 secondo comma, 205 e 206 (sulla “pericolosità sociale”, sulle relative misure di sicurezza e sui provvedimenti che il giudice può adottare in questi casi), 222 e 223 (sul ricovero in un manicomio o in un riformatorio giudiziario), 224, 225 e 226 (sul trattamento dei minori non imputabili, imputabili, delinquenti abituali, professionali o per tendenza), 229, 230, 231 e 232 (sulle varie ipotesi di “libertà vigilata”), 233 (sul divieto di soggiorno in determinate zone), 234 (sul divieto di frequentare pubblici spacci di bevande alcoliche), 235 (in tema di espulsione dello straniero dal territorio dello Stato). Ancora, la stessa richiesta riguarda vari delitti contro la personalità dello Stato: rispettivamente previsti dagli artt. 256 (“procacciamento di notizie concernenti la sicurezza dello Stato”), 261 e 262 (“rivelazione di segreti di Stato” e di “notizie di cui sia stata vietata la divulgazione”), 265 (“disfattismo politico”), 266 (“istigazione di militari a disobbedire alle leggi”), 269 (“attività antinazionale del cittadino all’estero”), 270 e 271 (“associazioni sovversive” ed “antinazionali”), 272 (“propaganda ed apologia sovversiva o antinazionale”), 273 e 274 (“illocita costituzione di associazioni aventi carattere internazionale” e relativa “partecipazione”), 275 (“accettazione di onorificenze o utilità da uno Stato nemico”), 278, 279 e 290-bis (“offesa all’onore o al prestigio” e “lesa prerogativa della irresponsabilità del Presidente della Repubblica” o di chi ne fa le veci), 290, 291, 292, 292-bis e 293 (vilipendio della Repubblica, delle istituzioni costituzionali, delle forze armate, della nazione italiana, della bandiera o di altro emblema dello Stato, con le relative circostanze aggravanti), 297 e 299 (“offesa all’onore dei Capi di Stati esteri” e delle bandiere od emblemi degli Stati stessi), 302 e 303 (istigazione a commettere delitti contro la personalità internazionale ed interna dello Stato ed apologia dei delitti medesimi), 304 e 305 (“cospirazione politica mediante accordo” o “mediante associazione”), 312 (espulsione dello straniero condannato per i delitti in questione). Inoltre, sono messi in gioco alcuni delitti contro la pubblica amministrazione, considerati dagli artt. 327 (“eccitamento al dispregio e vilipendio delle istituzioni, delle leggi o degli atti dell’autorità”), 330, 332 e 333 (sull’abbandono collettivo ed individuale di pubblici uffici, impieghi, servizi o lavori, nonché sulla corrispondente omissione di doveri di ufficio), 340 (“interruzione di un ufficio o servizio pubblico” o “di pubblica necessità”), 341, 342, 343 e 344 (oltraggio a pubblico ufficiale ed a pubblico impiegato, a corpi politici, amministrativi o giudiziari, a magistrati in udienza), 352 (“vendita di stampati dei quali é stato ordinato il sequestro”); l’insieme dei delitti contro la religione dello Stato e i culti ammessi, di cui agli artt. 402-406; i delitti contro l’ordine pubblico, previsti dagli artt. 414 terzo comma (apologia di delitti) e 415 (“istigazione a disobbedire alle leggi”); i delitti contro l’economia pubblica, di cui agli artt. 503, 504, 505 e 506 (reati di serrata e di sciopero), 507 (“boicottaggio”), 508 (arbitraria invasione, occupazione e sabotaggio di aziende), 510, 511 e 512 (quanto alle relative circostanze aggravanti, alle pene per i capi, promotori ed organizzatori e alle pene accessorie). Così pure, vengono in questione – relativamente alle offese al pudore e all’onore sessuale – gli artt. 527, 528 e 529 (atti, pubblicazioni, spettacoli ed oggetti osceni); relativamente ai delitti contro la famiglia, gli artt. 565 (“attentati alla morale famigliare commessi col mezzo della stampa periodica”), e 571 secondo comma (sulle particolari pene previste per le varie ipotesi di abuso dei mezzi di correzione o di disciplina); relativamente ai delitti contro la persona, gli artt. 578, 587 e 592 (infanticidio, omicidio, lesioni personali ed abbandono di neonato per causa di onore), 596-bis (“diffamazione col mezzo della stampa”) e 603 (“plagio”); relativamente ai delitti contro il patrimonio, l’art. 633 secondo comma (sull’invasione di terreni o edifici, commessa da più persone). Finalmente, in tema di contravvenzioni di polizia, la richiesta in esame si estende agli artt. 654 e 655 (grida, manifestazioni, radunate sediziose), 656 e 657 (“pubblicazione o diffusione di notizie false, esagerate o tendenziose, atte a turbare l’ordine pubblico”, “grida o notizie atte a turbare la tranquillità pubblica o privata”), 661 (“abuso della credulità popolare”), 662 (“esercizio abusivo dell’arte tipografica”), 663 (“vendita, distribuzione o affissione abusiva di scritti o disegni”), 663-bis (“divulgazione di stampa clandestina”), 666 e 668 (“spettacoli o trattenimenti pubblici senza licenza” e “rappresentazioni teatrali o cinematografiche abusive”), 724 (“bestemmia e manifestazioni oltraggiose verso i defunti”), 725 e 726 (“commercio di scritti, disegni od altri oggetti”, “atti contrari alla pubblica decenza” e “turpiloquio”).

La settima richiesta, presentata il 30 giugno 1977 dai signori Pietroletti Glauco, Capuzzo Francesca Romana, Pallicca Davide, Calderisi Giuseppe, Zeno Zencovich Vincenzo, Vigevano Paolo, interessa l’intera legge 22 maggio 1975, n. 152 (“Disposizioni a tutela dell’ordine pubblico”).

Infine l’ottava richiesta, presentata il 30 giugno 1977 dai signori Calderisi Giuseppe, Bises Andrea, Cristofanelli Laura, Vigevano Paolo, Pietroletti Glauco, intende sottoporre a referendum gli artt. 3, 4, 5, 6, 7, 8, 9, 11 primo comma, limitatamente alle parole “alla Commissione inquirente o”, 12 limitatamente alle parole “il quale ne informa immediatamente la Commissione inquirente”, 13, 14 primo comma, limitatamente alle parole “la Commissione inquirente o”, 16 primo comma, limitatamente alle parole “la Commissione inquirente o”, della legge 25 gennaio 1962, n. 20 (“Norme sui procedimenti e giudizi di accusa”).

2. – In tutti questi casi l’Ufficio centrale per il referendum ha verificato che il numero delle firme valide prese in esame superava il minimo di 500.000, fissato dall’art. 75 primo comma Cost.; e ha constatato che le richieste erano state regolarmente presentate e concernevano leggi od atti normativi aventi forza di legge, riguardo ai quali non erano intervenute abrogazioni legislative né sentenze di annullamento della Corte costituzionale.

Per altro, l’ordinanza relativa al referendum per l’abrogazione della legge 22 maggio 1975, n. 152, ha rilevato che l’art. 5 della legge stessa era stato integralmente sostituito dall’art. 2 della legge 8 agosto 1977, n. 533; e quindi ne ha dedotto – in base all’art. 39 della legge 25 maggio 1970, n. 352 – che sotto questo profilo la proposta di referendum non poteva avere più corso, con la conseguenza che la formula di proposizione doveva venir modificata eccettuando espressamente la disposizione dell’art. 5.

L’Ufficio centrale ha inoltre preso atto che questa Corte aveva adottato varie sentenze di accoglimento parziale, dichiarative dell’illegittimità costituzionale di norme desumibili dalle disposizioni sulle quali era stato richiesto referendum abrogativo: in particolar modo, nei riguardi degli artt. 224 secondo comma (sent. n. 1 del 1971), 330 primo e secondo comma (sent. n. 31 del 1969), 415 (sent. n. 108 del 1974), 503 (sent. n. 290 del 1974), 506 (sent. n. 222 del 1975), 507 (sent. n. 84 del 1969), 666 del codice penale (sent. n. 56 del 1970); come pure nei riguardi del secondo e del terzo comma dell’art. 2 della legge 14 febbraio 1904, n. 36 (sent. n. 74 del 1968 e n. 223 del 1976). Ma in tutti questi casi l’Ufficio ha rilevato che “dette pronunce non hanno toccato la portata testuale e lessicale di tali disposizioni”, con la conseguenza che “esse vanno ugualmente sottoposte a referendum”. Unicamente in rapporto all’art. 272 cod. pen., il cui secondo comma era stato dichiarato integralmente illegittimo dalla sent. 87 del 1976, l’Ufficio stesso ha seguito una diversa linea di ragionamento: concludendo pur sempre, però, che “la rispettiva proposta di referendum devesi ritenere riferibile e riferita allo stesso articolo 272 nella sua formulazione ridotta”.

Rispondendo implicitamente alle deduzioni di un atto di intervento depositato dall’Avvocatura dello Stato, in rappresentanza del Presidente del Consiglio dei ministri, l’ordinanza concernente la richiesta di referendum per l’abrogazione del codice penale militare di pace ha infine precisato “che é demandato… alla Corte costituzionale il giudizio sull’ammissibilità del referendum ratione materiae, e correlativamente l’individuazione dei limiti di questo giudizio e della sua eventuale estensibilità, oltre le testuali previsioni dell’art. 75 comma secondo Cost., rispetto alle leggi costituzionalmente obbligatorie, ovvero essenziali per il funzionamento dell’ordinamento democratico”. Analoghe precisazioni risultano, d’altronde, anche dalle ordinanze che hanno dichiarato la legittimità delle richieste relative all’ordinamento giudiziario militare ed a 97 articoli del codice penale.

3. – Ricevuta comunicazione delle ordinanze, il Presidente di questa Corte ha fissato per le conseguenti deliberazioni il giorno 17 gennaio 1978, dandone a sua volta comunicazione ai presentatori delle richieste ed al Presidente del Consiglio dei ministri, ai sensi dell’art. 33 secondo comma della legge n. 352 del 1970. Tanto i presentatori quanto l’Avvocatura dello Stato, in rappresentanza del Presidente del Consiglio dei ministri, si sono avvalsi della facoltà di depositare memorie, di cui all’art. 33 terzo comma legge citata.

La memoria dell’Avvocatura dello Stato, depositata il 28 dicembre 1977, assume in via preliminare che l’elencazione contenuta nell’art. 75 secondo comma Cost., quanto alle categorie di leggi non assoggettabili ad abrogazione per referendum, non sarebbe affatto tassativa. Con queste premesse, tutte le richieste in esame – fatta eccezione per quella concernente alcuni articoli della legge manicomiale 14 febbraio 1904, n. 36 – dovrebbero essere dichiarate inammissibili: o perché attinenti a materie difformi ed eterogenee, come nei casi dei referendum per l’abrogazione di 97 articoli del codice penale e della legge 22 maggio 1975, n. 152 (recante “Disposizioni a tutela dell’ordine pubblico”); o perché interessanti leggi “costituzionalmente necessarie”, emanate per dare attuazione a specifiche norme costituzionali, come nei casi dei referendum aventi per oggetto alcuni articoli della legge 25 gennaio 1962, n. 20 (“Norme sui procedimenti e giudizi di accusa”), il codice penale militare di pace e l’ordinamento giudiziario militare, nonché l’art. 1 della legge 27 maggio 1929, n. 810 (sull’esecuzione del Trattato e del Concordato fra la Santa Sede e l’Italia); oppure perché la richiesta riguarderebbe una “legge finanziaria connessa alla legge di bilancio”, quale sarebbe la l. 2 maggio 1974, n. 195 (sul finanziamento pubblico dei partiti).

Per contro, le memorie dei comitati promotori dei referendum in esame, rispettivamente depositate il 5 e il 13 gennaio 1978, sostengono l’ammissibilità di tutte le richieste. Le memorie in questione richiamano anzitutto le precedenti decisioni della Corte (sentt. n. 10 del 1972 e n. 251 del 1975), per dedurne che i giudizi concernenti l’ammissibilità dei referendum abrogativi dovrebbero basarsi sulle sole testuali previsioni dell’art. 75 secondo comma Cost. Conseguentemente, non avrebbe fondamento la tesi che ulteriori cause d’inammissibilità siano desumibili dal carattere costituzionalmente necessario o dal particolare rilievo sociale di determinate leggi ordinarie. Né si potrebbe affermare che siano ammissibili le sole richieste attinenti a questioni omogenee od analoghe, dal momento che la Costituzione avrebbe individuato i limiti delle richieste stesse con criteri strettamente formali, indipendenti da qualsiasi giudizio sull’opportunità politica della formulazione dei relativi quesiti.

Quanto al referendum sulla legge esecutiva del Trattato e del Concordato fra la Santa Sede e l’Italia, il comitato promotore precisa che non potrebbero venire sottoposte ad un voto popolare abrogativo le leggi formalmente costituzionali. Ma la legge esecutiva dei Patti lateranensi non sarebbe stata costituzionalizzata, né condizionerebbe l’attuazione dei Patti nell’ordinamento italiano (comunque garantita, almeno per quanto riguarda il Concordato, dalle leggi n. 847 e n. 848 del 1929); e non andrebbe nemmeno confusa con le leggi di autorizzazione alla ratifica dei trattati internazionali, cui si riferisce l’art. 75 secondo comma Cost.

4. – Ad integrazione del contraddittorio espressamente previsto dall’art. 33 terzo comma della legge n. 352 del 1970, nella camera di consiglio del 17 gennaio 1978 sono stati uditi l’avvocato Mauro Mellini, per i comitati promotori dei referendum, ed il sostituto avvocato generale dello Stato Giorgio Azzariti, per il Presidente del Consiglio dei ministri.

Considerato in diritto

1. – Le varie questioni che la Corte é tenuta a proporsi, per accertare l’ammissibilità delle otto richieste in discussione, sono tanto interferenti che le relative soluzioni si connettono e si condizionano a vicenda, venendo tutte a dipendere da comuni premesse concernenti la definizione dell’istituto del referendum abrogativo, ai sensi dell’art. 75 Cost. Pertanto gli otto giudizi vanno riuniti e decisi con un’unica sentenza.

2. – La novità e la vastità dei problemi, che nella presente occasione si prospettano alla Corte, impongono anzitutto di considerare e di determinare – in via preventiva e generale – i fondamenti, gli scopi, i criteri del giudizio riguardante l’ammissibilità delle richieste di referendum: al fine di tracciare un quadro unitario di riferimento, entro il quale si possano coerentemente effettuare le singole valutazioni che la Corte stessa deve in questa sede svolgere.

Rimane ferma, anche nell’attuale prospettiva, la sistemazione già operata dalla sentenza n. 251 del 1975, quanto ai compiti rispettivamente attribuiti – nel procedimento instaurato dalla legge 25 maggio 1970, n. 352 – a questa Corte ed all’Ufficio centrale per il referendum, costituito presso la Corte di cassazione. Conseguentemente, va riaffermato che spetta all’Ufficio centrale “accertare che la richiesta di referendum sia conforme alle norme di legge, rilevando con ordinanza le eventuali irregolarità e decidendo, con ordinanza definitiva, sulla legittimità della richiesta medesima”; mentre a questa Corte é conferita la sola “cognizione dell’ammissibilità del referendum”, secondo i disposti degli artt. 2 della legge costituzionale n. 1 del 1953, 32 secondo comma e 33 della legge ordinaria n. 352 del 1970. E va ribadito che tale competenza si é aggiunta a quelle previste dall’art. 134 Cost.; atteggiandosi dunque – come precisava la sentenza testé ricordata – “con caratteristiche specifiche ed autonome nei confronti degli altri giudizi riservati a questa Corte, ed in particolare rispetto ai giudizi sulle controversie relative alla legittimità costituzionale delle leggi e degli atti aventi forza di legge”.

Ciò non toglie, però, che si dimostra troppo restrittiva quella configurazione del giudizio di ammissibilità, per cui sarebbe affidato alla Corte il solo compito di verificare se le richieste di referendum abrogativo riguardino materie che l’art. 75 secondo comma Cost. esclude dalla votazione popolare: con espresso ed esclusivo riguardo alle “leggi tributarie e di bilancio, di amnistia e di indulto, di autorizzazione a ratificare trattati internazionali”. Tale interpretazione non ha nessuna altra base, in effetti, al di fuori dell’assunto – postulato più che dimostrato – che la testuale indicazione delle cause d’inammissibilità, contenuta nel capoverso dell’art. 75, sia rigorosamente tassativa; laddove é altrettanto sostenibile – in ipotesi – che essa presuppone una serie di cause inespresse, previamente ricavabili dall’intero ordinamento costituzionale del referendum abrogativo.

Vero é che questa Corte giudica dell’ammissibilità dei referendum – stando alle concordi previsioni della legge costituzionale n. 1 del 1953 e della legge ordinaria n. 352 del 1970 – “ai sensi del secondo comma dell’art. 75 della Costituzione”. Ma non per questo si può sostenere che il secondo comma debba essere isolato, ignorando i nessi che lo ricollegano alle altre componenti la disciplina costituzionale del referendum abrogativo. Il processo interpretativo deve muoversi invece nella direzione opposta. Occorre cioé stabilire, in via preliminare, se non s’impongano altre ragioni, costituzionalmente rilevanti, in nome delle quali si renda indispensabile precludere il ricorso al corpo elettorale, ad integrazione delle ipotesi che la Costituzione ha previsto in maniera puntuale ed espressa. Diversamente, infatti, si determinerebbe la contraddizione consistente nel ritenere – da un lato – che siano presenti, nel nostro ordinamento costituzionale, ipotesi implicite d’inammissibilità, inerenti alle caratteristiche essenziali e necessarie dell’istituto del referendum abrogativo; e che questa Corte non possa – d’altro lato – ricavarne conseguenze di sorta, solo perché il testo dell’art. 75 secondo comma Cost. non le considera specificamente.

Del resto, una testuale conferma di ciò deriva per l’appunto da quell’art. 2 primo comma della legge cost. 11 marzo 1953, n. 1, per cui “spetta alla Corte costituzionale giudicare se le richieste di referendum abrogativo presentate a norma dell’art. 75 della Costituzione siano ammissibili ai sensi del secondo comma dell’articolo stesso”. Chiarendo che deve comunque trattarsi di richieste “presentate a norma dell’articolo 75”, tale disposizione riconosce alla Corte il potere-dovere di valutare l’ammissibilità dei referendum in via sistematica; per verificare in particolar modo, sulla base dell’art. 75 primo comma, se le richieste medesime siano realmente destinate a concretare un “referendum popolare” e se gli atti che ne formano l’oggetto rientrino fra i tipi di leggi costituzionalmente suscettibili di essere abrogate dal corpo elettorale.

3. – Salve le ulteriori indicazioni contenute nel seguito dell’attuale sentenza, ai fini dei singoli giudizi di ammissibilità, questa Corte ritiene che esistono in effetti valori di ordine costituzionale, riferibili alle strutture od ai temi delle richieste referendarie, da tutelare escludendo i relativi referendum, al di la della lettera dell’art. 75 secondo comma Cost. E di qui conseguono, precisamente, non uno ma quattro distinti complessi di ragioni d’inammissibilità.

In primo luogo, cioè, sono inammissibili le richieste così formulate, che ciascun quesito da sottoporre al corpo elettorale contenga una tale pluralità di domande eterogenee, carenti di una matrice razionalmente unitaria, da non poter venire ricondotto alla logica dell’art. 75 Cost.; discostandosi in modo manifesto ed arbitrario dagli scopi in vista dei quali l’istituto del referendum abrogativo é stato introdotto nella Costituzione, come strumento di genuina manifestazione della sovranità popolare.

In secondo luogo, sono inammissibili le richieste che non riguardino atti legislativi dello Stato aventi la forza delle leggi ordinarie, ma tendano ad abrogare – del tutto od in parte – la Costituzione, le leggi di revisione costituzionale, le “altre leggi costituzionali” considerate dall’art. 138 Cost., come pure gli atti legislativi dotati di una forza passiva peculiare (e dunque insuscettibili di essere validamente abrogati da leggi ordinarie successive).

In terzo luogo, vanno del pari preclusi i referendum aventi per oggetto disposizioni legislative ordinarie a contenuto costituzionalmente vincolato, il cui nucleo normativo non possa venire alterato o privato di efficacia, senza che ne risultino lesi i corrispondenti specifici disposti della Costituzione stessa (o di altre leggi costituzionali).

In quarto luogo, valgono infine le cause d’inammissibilità testualmente descritte nell’art. 75 cpv., che diversamente dalle altre sono state esplicitate dalla Costituzione, proprio perché esse rispondevano e rispondono a particolari scelte di politica istituzionale, anziché inerire alla stessa natura dell’istituto in questione. Ma, anche in tal campo, resta inteso che l’interpretazione letterale deve essere integrata – ove occorra – da un’interpretazione logico-sistematica, per cui vanno sottratte al referendum le disposizioni produttive di effetti collegati in modo così stretto all’ambito di operatività delle leggi espressamente indicate dall’art. 75, che la preclusione debba ritenersi sottintesa.

4. – Ciò premesso, la questione che giova affrontare per prima – indipendentemente dall’ordine in cui le otto richieste sono state presentate e poi prese in esame dall’Ufficio centrale – concerne l’ammissibilità del referendum sull’art. 1 della legge 27 maggio 1929, n. 810, nelle parti interessanti l’intero Concordato, nonché gli artt. 1, 10, 17 e 23 del Trattato fra la Santa Sede e l’Italia. Le peculiarità di posizione e di funzione, caratterizzanti questo atto nel sistema delle fonti normative, stanno infatti alla base di un duplice ordine di eccezioni d’inammissibilità – già prospettate in dottrina e quindi riproposte dall’Avvocatura dello Stato – che non trova riscontro nei riguardi delle altre richieste in discussione. Precisamente, si afferma da un lato che l’art. 1 della legge n. 810, in quanto destinato ad assicurare la “piena ed intera esecuzione” dei Patti lateranensi, verrebbe ad integrarsi con la corrispondente disposizione dell’art. 7 secondo comma Cost., sulla quale finirebbe allora per incidere il voto popolare; mentre il referendum abrogativo non potrebbe riferirsi alle norme costituzionali, né ad altri atti legislativi comunque dotati di una specifica resistenza all’abrogazione. E d’altro lato si osserva che la legge n. 810 assolverebbe anche una funzione esecutiva di accordi internazionali, quali il Trattato e il Concordato dell’11 febbraio 1929; sicché la relativa richiesta di referendum dovrebbe venire respinta, allo stesso titolo per cui l’art. 75 secondo comma Cost. esclude l’abrogazione popolare delle leggi “di autorizzazione a ratificare trattati internazionali”.

Sotto entrambi i profili, la richiesta dev’esser dichiarata inammissibile.

Al di là del previo giudizio di legittimità, nel corso del quale l’Ufficio centrale accerta solamente se la richiesta verta su di una qualsiasi legge in senso tecnico (ovvero su di un atto costituzionalmente equiparato), con lo scopo di escludere il referendum riferito ad atti non legislativi, spetta invece a questa Corte di non dare adito all’abrogazione di quelle specie di leggi – riguardate non già per la materia che esse disciplinano, ma dal punto di vista della loro forza o del loro procedimento formativo – che debbano considerarsi sottratte alla sfera di operatività dei voti popolari in esame; senza di che si potrebbero verificare, attraverso il consenso e l’apporto della Corte stessa, effetti abrogativi che la Costituzione ha implicitamente ma sicuramente voluto riservare ad organi ed a procedure ben diversi dal corpo elettorale e dal referendum regolato nell’art. 75 Cost. (con esiti analoghi a quelli che si avrebbero ammettendo che una disposizione di legge ordinaria potesse abrogare – sia pure illegittimamente – un articolo della Costituzione).

Se infatti il referendum abrogativo assumesse ad oggetto qualunque tipo di legge in senso tecnico, ordinaria o costituzionale indifferentemente, la conseguenza sarebbe ben difficilmente compatibile con l’attuale regime di Costituzione rigida. Accanto all’apposito procedimento di revisione e di formazione delle “altre leggi costituzionali”, disciplinato dall’art. 138 Cost., si verrebbe cioè ad inserire un procedimento destinato alla sola abrogazione delle leggi costituzionali nonché – coerentemente – della Costituzione stessa, che in nessun modo potrebbe venire armonizzato con il primo di questi due istituti. Per colmare le lacune dell’iter configurato dall’art. 138 (ad esempio, in tema di iniziativa delle leggi, di promulgazione e di pubblicazione), é possibile ed anzi necessario ricorrere alle norme dettate dagli artt. 71 e seguenti della Costituzione, relativamente alla funzione legislativa ordinaria. Ma la disciplina del referendum abrogativo non attiene affatto all’esercizio di tale funzione da parte delle Camere, e non é comunque utilizzabile per colmare nessuna delle lacune predette. Al contrario, la stessa previsione di uno specifico referendum approvativo, contenuta nel secondo comma dell’articolo 138, contribuisce ad escludere che in tema di revisione e di legislazione costituzionale vi sia posto per un ulteriore referendum abrogativo, nelle medesime forme previste per le leggi ordinarie.

Con ciò non si vuol certo sostenere che i Patti lateranensi siano stati costituzionalizzati ad ogni possibile effetto, in virtù del richiamo contenuto nell’art. 7 Cost. Al contrario, dal capoverso dello stesso art. 7 risulta testualmente che “le modificazioni dei Patti, accettate dalle due parti, non richiedono procedimento di revisione costituzionale” (ma sono apportabili, dunque, nelle forme della legislazione ordinaria). E resta fermo, d’altronde, quanto la Corte ha dichiarato e ribadito più volte (nelle sentenze n. 30 e n. 31 del 1971, n. 12 e n. 195 del 1972, n. 175 del 1973): ossia che l’art. 7 secondo comma Cost. “non preclude il controllo di costituzionalità delle leggi che immisero nell’ordinamento interno le clausole dei Patti lateranensi”, per ciò che riguarda la conformità delle clausole stesse rispetto ai “principi supremi dell’ordinamento costituzionale dello Stato”.

Ma tutto questo non toglie che l’art. 7 contenga una norma “di accoglimento del principio concordatario, nei termini risultanti dai Patti lateranensi”, attribuendo loro una precisa “rilevanza” o “copertura costituzionale” (come questa Corte ha ritenuto – rispettivamente – nelle sentenze n. 12 del 1972, n. 175 del 1973 e n. 1 del 1977). La circostanza che i Patti non abbiano la forza attiva di “negare i principi supremi dell’ordinamento” non esclude affatto, quindi, che sotto il profilo della forza passiva o della resistenza all’abrogazione tali fonti normative siano assimilabili alle norme costituzionali; tanto é vero che esse non possono venire legittimamente contraddette od alterate se non con lo strumento delle leggi di revisione costituzionale, là dove si tratti di modificazioni unilateralmente decise dallo Stato italiano.

Effettivamente, Trattato e Concordato del 1929 non vanno equiparati ad una qualsiasi di quelle tante leggi cui la Carta costituzionale opera generici richiami o rinvii, allo scopo di specificare le proprie disposizioni o di consentirne l’attuazione e la materiale applicazione; ma sono quei due atti normativi, storicamente e giuridicamente individuati, ai quali l’art. 7 allude in maniera diretta e puntuale, attraverso il congiunto riferimento ai Patti lateranensi. Ed un tale dato basta per concludere che il referendum previsto dall’art. 75 Cost., non potendo avere la forza necessaria per produrre l’abrogazione dei Patti, non può essere nemmeno ammissibile in quanto li assuma ad oggetto, sia pure parzialmente e non nella loro interezza.

Né vale obiettare che altro sono i Patti per sé considerati, altro la legge ordinaria che li ha immessi nel nostro ordinamento: con la conseguenza che soltanto i primi, e non la seconda, sarebbero sottratti al referendum. Distinzioni del genere non sono fondate, dal momento che il richiamo costituzionale non ha per tema esclusivo i Patti lateranensi come fonti del diritto internazionale o concordatario, ma si riferisce ad essi – anche e soprattutto – per ciò che interessa alla Costituzione di uno Stato, ossia per la loro incidenza sull’ordinamento interno del nostro Paese. La stessa previsione – implicitamente operata dall’art. 7 – che i Patti siano modificati per volontà unilaterale dell’Italia, ma nella forma d’una legge di revisione costituzionale, sarebbe priva di senso se l’articolo stesso non avesse diretto riguardo a quello che i Patti rappresentano nell’ambito del diritto italiano. E dunque ne discende – secondo la prospettiva che la Corte ha fatto espressamente propria già nella sentenza n. 1 del 1977 – che la “copertura costituzionale fornita dall’art. 7 comma secondo Cost.” garantisce al tempo stesso i Patti lateranensi e quell’art. 1 della legge n. 810 del 1929, che ha dato loro una “piena ed intera esecuzione”.

D’altronde, la richiesta in esame si dimostra egualmente inammissibile, per chi la consideri dal punto di vista del collegamento riscontrabile fra l’autorizzazione alla ratifica e l’esecuzione degli accordi di diritto internazionale (o comunque stipulati fra soggetti “indipendenti e sovrani”), ivi compresi i Patti lateranensi del 1929. La ragion d’essere dell’esplicita esclusione costituzionale, quanto ai referendum incidenti sulla ratifica dei trattati internazionali indicati dall’art. 80 Cost., non si risolve nell’intento di evitare che il corpo elettorale interferisca nel processo formativo dei trattati stessi (tanto più che il lunghissimo procedimento prescritto dalla legge n. 352 del 1970 non offrirebbe nemmeno – di regola – la possibilità materiale che il voto popolare preceda la stipulazione). Ben più largamente la Costituzione ha voluto impedire, una volta perfezionatosi il trattato, che esso venga privato dell’indispensabile fondamento costituzionale (ai sensi dell’art. 80 Cost.), determinandone la disapplicazione e rendendo in tal modo responsabile lo Stato italiano verso gli altri contraenti.

Ma l’esclusione dev’essere quindi riferita – secondo la tesi dominante in dottrina – non solo al momento dell’autorizzazione alla ratifica, ma anche al momento dell’esecuzione strettamente intesa. Ed a questa stregua poco importa che l’ordine di esecuzione rappresenti l’oggetto di un apposito atto legislativo (com’era inevitabile nell’ordinamento statutario, date le norme costituzionali che allora regolavano la formazione dei trattati) o sia contemporaneo e contestuale all’autorizzazione, venendo inserito nella medesima legge che consente la ratifica.

In entrambe le ipotesi, infatti, l’interpretazione logico- sistematica dell’art. 75 secondo comma Cost. impone che vengano respinte le richieste di referendum abrogativo.

5. – Per contestare la legittimità della richiesta di referendum vertente su 97 articoli del codice penale, l’Avvocatura dello Stato ha depositato presso l’Ufficio centrale un atto di intervento, in cui si deduceva l’improponibilità di quesiti referendari congiuntamente riferiti ad un’eterogenea pluralità di disposizioni legislative. Ma l’Ufficio centrale non ha accolto né ha preso in formale considerazione la tesi dell’Avvocatura, limitandosi invece ad osservare che “il principio dell’omogeneità della normativa sottoposta a referendum non comporta la corrispondenza in senso assoluto di ogni singolo referendum ad ogni singolo atto normativo, ma deve ritenersi rispettato anche quando gli atti, pur nella loro pluralità, siano sistematicamente incorporati in un testo legislativo avente unità di oggetto”.

Nella memoria successivamente presentata a questa Corte, l’Avvocatura dello Stato insiste però nell’assunto, sostenendo che richieste del genere sarebbero comunque inammissibili. Di fronte a domande formulate in termini così complessi, gli elettori non potrebbero esprimere risposte consapevoli ed univoche; sicché del referendum si farebbe un uso abnorme, contrastante con i caratteri essenziali di questo istituto.

Ora la Corte deve anzitutto constatare che, sotto i profili indicati dall’Avvocatura dello Stato, l’attuale ordinamento del referendum abrogativo é contraddistinto da gravi insufficienze e da profonde antinomie.

Da una parte, corrisponde alla naturale funzione dell’istituto (aderendo ad alcune importanti indicazioni ricavabili dagli atti dell’Assemblea Costituente) l’esigenza che il quesito da porre agli elettori venga formulato in termini semplici e chiari, con riferimento a problemi affini e ben individuati; e che, nel caso contrario, siano previste la scissione od anche l’integrale reiezione delle richieste non corrispondenti ad un tale modello. In coerenza con questi scopi, la legislazione attuativa dell’art. 75 Cost. doveva e dovrebbe prevedere, dunque, appositi controlli delle singole iniziative, da effettuare – preferibilmente – prima ancora che vengano apposte le firme occorrenti a sostenere ciascuna richiesta; affinché gli stessi sottoscrittori siano messi preventivamente in grado d’intendere con precisione il valore e la portata delle loro manifestazioni di volontà.

D’altra parte, bisogna viceversa riconoscere che la legge n. 352 del 1970 non ha preordinato per nulla i rimedi necessari in tal senso. L’art. 27 primo comma, pur prescrivendo l’indicazione dei “termini del quesito che si intende sottoporre alla votazione popolare”, si limita in sostanza a prevedere che la formula “volete che sia abrogata…” (o “volete voi l’abrogazione…”) sia completata richiamando gli estremi della legge in discussione, citando il numero dell’articolo o degli articoli specificamente interessati, nonché trascrivendo i soli testi dei commi o dei frammenti eventualmente messi in gioco (ma non gli integrali disposti degli articoli stessi). Ciò che più conta, la legge attuativa non chiarisce in nessun modo con quali criteri, da parte di quali organi, in quali momenti, né con quali effetti dovrebbe esercitarsi il controllo sull’omogeneità delle richieste: con la conseguenza che l’introduzione delle necessarie garanzie di semplicità, di univocità, di completezza dei quesiti, presentemente trascurate od ignorate dal legislatore, rimane affidata ad una futura riforma.

Ma il sindacato della Corte non si può arrestare di fronte alla constatazione delle carenze o delle lacune della legge n. 352 del 1970. Diversamente dall’Ufficio centrale, tenuto ad accertare la legittimità delle richieste alla stregua di quella legislazione ordinaria che ha determinato “le modalità di attuazione del referendum”, questa Corte deve infatti giudicare sull’ammissibilità delle richieste stesse, in diretta applicazione delle norme o dei principi di ordine costituzionale che comportino una causa impeditiva – espressa od implicita – dei voti popolari abrogativi. E, su questa base, la richiesta mirante all’abrogazione – totale o parziale – di 97 articoli del codice penale dev’esser dichiarata inammissibile.

Nella disposizione dell’art. 75 primo comma Cost. (“É indetto referendum popolare… quando lo richiedono cinquecentomila elettori…”) é certo ricompresa una vastissima gamma di richieste, indeterminate ed indeterminabili a priori.

Ma nello stesso modo che la cosiddetta discrezionalità legislativa non esclude il sindacato degli arbitri del legislatore, operabile da questa Corte in rapporto ai più vari parametri; così la normativa dettata dall’art. 75 non implica affatto l’ammissibilità di richieste comunque strutturate, comprese quelle eccedenti i limiti esterni ed estremi delle previsioni costituzionali, che conservino soltanto il nome e non la sostanza del referendum abrogativo. Se é vero che il referendum non é fine a se stesso, ma tramite della sovranità popolare, occorre che i quesiti posti agli elettori siano tali da esaltare e non da coartare le loro possibilità di scelta; mentre é manifesto che un voto bloccato su molteplici complessi di questioni, insuscettibili di essere ridotte ad unità, contraddice il principio democratico, incidendo di fatto sulla libertà del voto stesso (in violazione degli artt. 1 e 48 Cost.).

Né giova replicare – come hanno fatto i promotori del referendum in esame – che saranno gli elettori ad esprimere in proposito il loro libero giudizio politico: approvando o respingendo la richiesta, secondo che il quesito sia stato formulato in termini più o meno chiari e precisi. Sia che i cittadini siano convinti dell’opportunità di abrogare certe norme ed a questo fine si rassegnino all’abrogazione di norme del tutto diverse, solo perché coinvolte nel medesimo quesito, pur considerando che meriterebbe mantenerle in vigore; sia che preferiscano orientarsi verso l’astensione, dal voto o nel voto, rinunciando ad influire sull’esito della consultazione, giacché l’inestricabile complessità delle questioni (ciascuna delle quali richiederebbe di essere diversamente e separatamente valutata) non consente loro di esprimersi né in modo affermativo né in modo negativo; sia che decidano di votare “no”, in nome del prevalente interesse di non far cadere determinate discipline, ma pagando il prezzo della mancata abrogazione di altre norme che essi ritengano ormai superate (e vedendosi impedita la possibilità di proporre in questo senso ulteriori referendum, prima che siano trascorsi almeno cinque anni, data la preclusione disposta dall’art. 38 della legge n. 352 del 1970): appare evidente come i risultati dell’esperimento referendario ne vengano falsati alla radice, per l’unico motivo che referendum diversi – e per se stessi ammissibili – sono stati conglobati a forza entro un solo contesto.

Effettivamente, libertà dei promotori delle richieste di referendum e libertà degli elettori chiamati a valutare le richieste stesse non vanno confuse fra loro: in quanto é ben vero che la presentazione delle richieste rappresenta l’avvio necessario del procedimento destinato a concludersi con la consultazione popolare; ma non é meno vero che la sovranità del popolo non comporta la sovranità dei promotori e che il popolo stesso dev’esser garantito, in questa sede, nell’esercizio del suo potere sovrano. Uno strumento essenziale di democrazia diretta, quale il referendum abrogativo, non può essere infatti trasformato – insindacabilmente – in un distorto strumento di democrazia rappresentativa, mediante il quale si vengano in sostanza a proporre plebisciti o voti popolari di fiducia, nei confronti di complessive inscindibili scelte politiche dei partiti o dei gruppi organizzati che abbiano assunto e sostenuto le iniziative referendarie.

Viceversa, proprio questo finisce per essere, in modo esemplare, il caso del referendum vertente su 97 articoli del codice penale.

Per quanti sforzi interpretativi si facciano, da tali disposizioni non si riesce ad estrarre un quesito comune e razionalmente unitario; e ciò fornisce allora la riprova che la richiesta non può venire ammessa, perché incompatibile con le proclamazioni degli artt. 1, 48 e 75 Cost.

6. – Analoghe considerazioni valgono ad escludere l’ammissibilità della richiesta relativa al codice penale militare di pace (approvato dal regio decreto 20 febbraio 1941, n. 303).

Anche a prescindere dalle dimensioni del codice stesso (che pure si compone di ben 433 articoli), é determinante la circostanza che questo atto legislativo implica le più diverse tematiche: dall’individuazione delle categorie di “persone soggette alla legge penale militare” alla determinazione delle specie delle relative pene; dalla parte generale alla parte speciale della legislazione penale militare; dal diritto penale militare sostanziale alla procedura penale militare ed alla giurisdizione dei tribunali militari; dalla definizione dei reati esclusivamente militari, caratteristici dell’ordinamento delle forze armate, fino ad un’amplissima serie di figure criminose che s’innestano sulle parallele previsioni del codice penale comune, aggravando però le sanzioni a causa delle condizioni delle persone che abbiano commesso il fatto.

Ma l’eterogeneità delle disposizioni del codice penale militare di pace risulta ancora più netta, in vista dei loro diversissimi rapporti con la Costituzione. Accanto a molte norme penali o processuali, che possono considerarsi costituzionalmente neutre (prestandosi indifferentemente ad essere abrogate o mantenute in vigore, modificate oppure conservate nei loro contenuti), sussistono altri precetti che, nei loro attuali nuclei normativi, si saldano con le corrispondenti disposizioni costituzionali: come si verifica – ad esempio – nei casi di reati di mancanza alla chiamata alle armi e di diserzione, che stanno indubbiamente in funzione delle previsioni dell’articolo 52 Cost., relative al servizio militare obbligatorio ed all’ordinamento delle forze armate. Il fatto stesso che la richiesta in esame si proponga di abrogare simili figure criminose potrebbe esser dunque motivo sufficiente perché questa Corte la respinga. In ogni caso, però, l’aver voluto coinvolgere in un solo referendum le parti accessorie e le parti essenziali del codice penale militare di pace, comprese le norme a contenuto costituzionalmente vincolato, rappresenta una conferma della irriducibile pluralità delle questioni, su cui l’elettore verrebbe costretto ad esprimere un unico voto.

Perciò ne deriva, mancando alla Corte poteri di scissione o di ridefinizione dei quesiti referendari, l’inammissibilità dell’intera richiesta.

7. – Quanto alla richiesta di referendum avente per oggetto l’ordinamento giudiziario militare, essa determina problemi almeno in parte diversi da quelli concernenti il codice penale militare di pace. Nel caso del regio decreto 9 settembre 1941, n. 1022, non é infatti sostenibile che ci si trovi in presenza di una radicale disomogeneità delle disposizioni da sottoporre al voto popolare, tale che su questo solo dato si debba fondare un giudizio d’inammissibilità. Disciplinando la tipologia e la composizione dei tribunali militari, l’ordinamento in questione considera e configura un ben preciso complesso di organi di giurisdizione speciale (che anzi conservano i loro caratteri essenziali – in virtù della norma generale dell’art. 57 r.d. cit. – sia per il tempo di pace sia per il tempo di guerra).

Nondimeno, é anzitutto riscontrabile un collegamento strettissimo fra il codice penale militare di pace e l’ordinamento giudiziario militare. Da un punto di vista formale, é significativo che entrambi i decreti in questione (n. 303 e n. 1022 del 1941) ritrovino la loro comune matrice nella delegazione legislativa operata dalla legge 25 novembre 1926, n. 2153; tanto più che, nella prima parte dell’art. 2 di tale legge-delega, si prevedeva che a ciò sarebbe bastato un unico atto delegato contenente il “nuovo testo delle disposizioni della legislazione penale militare”. Dal punto di vista sostanziale, poi, é ancora più notevole che la materia dei giudizi penali militari sia stata suddivisa in una parte concernente la procedura penale, che ha trovato posto nel codice penale militare di pace, e nell’altra parte riguardante l’ordinamento giudiziario propriamente inteso; fermo restando, però, che la materia rimane essenzialmente unitaria, come stanno a dimostrare i sistematici richiami ai tribunali militari che si ritrovano nei corrispondenti codici penali.

Allo stesso modo che per il codice penale militare di pace, anche per l’ordinamento giudiziario militare si può dunque ritenere che esso corrisponda – nel suo complesso, piuttosto che nei suoi singoli modificabili disposti – alle comuni esigenze della difesa della Patria, dell’obbligatorietà del servizio militare e dell’indefettibile esistenza delle forze armate, quali sono attualmente affermate e garantite dall’art. 52 Cost. E già da questo nesso potrebbero trarsi, pertanto, argomenti atti a far concludere che i due referendum sul codice penale militare di pace e sull’ordinamento giudiziario militare debbano venire congiuntamente preclusi.

Ma, anche a voler considerare per sé solo il problema dell’ammissibilità di un voto popolare abrogativo dell’ordinamento giudiziario militare, separato dal contesto normativo del quale esso forma una parte integrante, la conclusione ultima non muta. In effetti, non é che il referendum sia stato qui richiesto per privare di efficacia norme riguardanti aspetti determinati, sia pure importantissimi, della giurisdizione militare: con lo scopo di obbligare il legislatore ordinario ad attivarsi tempestivamente per colmare o prevenire le lacune.

Ben diversamente, l’iniziativa in esame si propone di sopprimere l’intera giurisdizione militare, assoggettando all’effetto abrogativo anche quelle disposizioni a contenuto vincolato, sul tipo dell’art. 1 del regio decreto n. 1022 del 1941, che non possono venir modificate o rese inefficaci, senza che ne risultino lese le corrispondenti disposizioni costituzionali.

In altre parole, il tema del quesito sottoposto agli elettori non é tanto formato – in questa come in tutte le ipotesi del genere – dalla serie delle singole disposizioni da abrogare, quanto dal comune principio che se ne ricava; ed il principio sul quale si fonda l’intero ordinamento giudiziario militare consiste appunto nella disposizione dell’art. 1, per cui “la giustizia penale militare é amministrata: dai tribunali militari; dal tribunale supremo militare”. Di conseguenza, il senso che obiettivamente assume la richiesta di cui si discute, quali che fossero gli intendimenti soggettivi dei presentatori e dei sottoscrittori di essa, consiste nella volontà di togliere di mezzo, attraverso la congiunta abrogazione del codice penale militare di pace e dell’ordinamento giudiziario militare, la totalità degli organi della giustizia militare di pace; per ritornare ai concetti ispiratori dell’art. 95 ultimo comma del progetto di Costituzione, elaborato dalla Commissione dei 75, onde i tribunali militari avrebbero potuto “essere istituiti solo in tempo di guerra” (mentre in ogni altra circostanza si sarebbe reso necessario espandere la giurisdizione penale comune). Ma il progetto é stato in questa parte superato irrevocabilmente – salvo il ricorso ad una revisione costituzionale – nell’atto in cui l’Assemblea Costituente ha approvato l’art. 103 terzo comma della Costituzione (“I tribunali militari in tempo di guerra hanno la giurisdizione stabilità dalla legge. In tempo di pace hanno giurisdizione soltanto per i reati militari commessi da appartenenti alle forze armate”), nonché la VI disposizione transitoria (“Entro cinque anni dall’entrata in vigore della Costituzione si procede alla revisione degli organi speciali di giurisdizione attualmente esistenti, salvo le giurisdizioni… dei tribunali militari. Entro un anno dalla stessa data si provvede con legge al riordinamento del tribunale supremo militare in relazione all’articolo 111”).

Pur avvertendo che quest’ultima previsione costituzionale é rimasta inadempiuta, che l’adeguamento della giurisdizione militare ai fondamentali principi informatori della giurisdizione comune tarda da oltre un trentennio, e che questa inerzia del legislatore ha fornito lo spunto ai promotori dei referendum sui regi decreti n. 303 e n. 1022 del 1941, la Corte é tenuta egualmente a dichiarare inammissibile la richiesta referendaria avente per oggetto l’ordinamento giudiziario militare.

8. – Nella memoria depositata dall’Avvocatura dello Stato, si afferma che l’eterogeneità della materia regolata dalla legge 22 maggio 1975, n. 152 (intitolata “Disposizioni a tutela dell’ordine pubblico”), sarebbe tale da precludere l’ammissibilità della relativa richiesta di referendum. Ma l’assunto non può esser condiviso.

Non é contestabile, in vero, la varietà di contenuti normativi della legge n. 152, che riguarda – fra l’altro – i limiti alla concessione della libertà provvisoria, i casi di fermo di indiziati di reato, una serie di modifiche della legge n. 645 del 1952 (sul divieto di ricostituzione del disciolto partito fascista), l’uso delle armi da parte di pubblici ufficiali, la prescrizione dei reati, le misure di prevenzione, l’espulsione degli stranieri, le notificazioni urgenti a mezzo del telefono o del telegrafo. Sennonché la richiesta in questione non concreta un uso così artificioso del referendum abrogativo, da farla considerare eccedente le previsioni dell’art. 75 Cost. Al contrario, tale iniziativa ha per oggetto un particolare complesso di misure legislative eccezionali, se non addirittura provvisorie (non si dimentichi, infatti, che le disposizioni processuali della legge n. 152 cesseranno di avere applicazione all’atto dell’entrata in vigore del nuovo codice di procedura penale, per espressa previsione dell’art. 35 della legge stessa): che il Parlamento ha disposto nel comune intento di fronteggiare la presente situazione di crisi dell’ordine pubblico, con particolare riguardo alla criminalità politica e para-politica. Sotto questo aspetto, anzi, si può ben dire che il titolo della legge enuncia già, nei suoi tratti essenziali, la questione sulla quale il corpo elettorale verrà chiamato a decidere.

Non frapponendosi altri ostacoli di ordine costituzionale, la richiesta di referendum per l’abrogazione della legge n. 152 del 1975 risulta quindi ammissibile (salvo quanto disposto in relazione all’art. 5 – perché sostituito dall’art. 2 della legge 8 agosto 1977, n. 533 – dall’ordinanza 6 dicembre 1977 dell’Ufficio centrale, avverso la quale i promotori del referendum hanno sollevato conflitto di attribuzione davanti a questa Corte).

9. – L’ipotesi che spetti alla Corte di precludere i voti popolari abrogativi sulle “leggi costituzionalmente obbligatorie, ovvero essenziali per il funzionamento dell’ordinamento democratico”, é stata sistematicamente prospettata dall’Ufficio centrale per il referendum, all’atto di dichiarare la legittimità delle richieste miranti all’abrogazione di 97 articoli del codice penale comune, del codice penale militare di pace e dell’ordinamento giudiziario militare. Ma l’Avvocatura dello Stato, riprendendo e sviluppando questo genere di argomentazioni, ha eccepito in tal senso l’inammissibilità della stessa richiesta di referendum avente per oggetto 12 articoli della legge 25 gennaio 1962, n. 20 (intitolata “Norme sui procedimenti e giudizi di accusa”), nelle parti attinenti ai poteri ed ai modi di funzionamento dell’apposita “Commissione inquirente”. La eventuale abrogazione di tali disposti determinerebbe, infatti, l’integrale disapplicazione dell’art. 12 della legge cost. n. 1 del 153, per cui “la messa in istato di accusa del Presidente della Repubblica, del Presidente del Consiglio dei Ministri e dei Ministri é deliberata dal Parlamento in seduta comune su relazione di una Commissione, costituita di dieci deputati e di dieci senatori, eletti da ciascuna delle due Camere…”; con l’ulteriore conseguenza che il legislatore ordinario non potrebbe più porvi rimedio, senza per ciò stesso contraddire la volontà popolare.

Tesi del genere difettano, però, negli stessi presupposti dai quali procedono: in quanto non é sostenibile che siano sottratte al referendum abrogativo tutte le leggi ordinarie comunque costitutive od attuative di istituti, di organi, di procedure, di principi stabiliti o previsti dalla Costituzione. A parte l’ovvia considerazione che il referendum verrebbe in tal modo a subire limitazioni estremamente ampie e mal determinate, il riferimento alle leggi “costituzionalmente obbligatorie” si dimostra viziato da un equivoco di fondo. La formula in questione farebbe infatti pensare che quelle leggi e non altre, con i loro attuali contenuti normativi, siano indispensabili per concretare le corrispondenti previsioni costituzionali. Così invece non é, dal momento che questi atti legislativi – fatta soltanto eccezione per le disposizioni a contenuto costituzionalmente vincolato – non realizzano che una fra le tante soluzioni astrattamente possibili per attuare la Costituzione.

Tale é appunto il caso della legge n. 20 del 1962. In realtà, l’attuale disciplina della “Commissione inquirente” risponde ad una scelta politica del Parlamento, che poteva anche esser diversa, senza per questo violare l’art. 12 della legge cost. n. 1 del 1953. Nell’eventualità di un voto popolare abrogativo, nulla può dunque impedire al legislatore ordinario di colmare in altro modo il conseguente vuoto normativo (o d’intervenire prima ancora che la lacuna sia divenuta effettiva, in virtù di quella previsione dell’art. 37 terzo comma della legge n. 352 del 1970, per cui lo stesso decreto presidenziale dichiarativo dell’avvenuta abrogazione della legge sottoposta al voto popolare può “ritardare” l’effetto abrogativo “per un termine non superiore a 60 giorni dalla data di pubblicazione”).

E questo conferma che la legge n. 20 del 1962, nelle parti coinvolte dalla richiesta in esame, non può essere esclusa dal complesso degli atti legislativi assoggettabili al referendum abrogativo.

10. – Nemmeno é fondata la tesi, problematicamente accennata dall’Avvocatura dello Stato, che la legge 2 maggio 1974, n. 195 (sul “Contributo dello Stato al finanziamento dei partiti politici”), rappresenti una legge finanziaria connessa alla legge di bilancio; sicché la relativa richiesta di referendum potrebbe esser respinta, sulla base di una larga interpretazione dell’art. 75 secondo comma Cost.

Le leggi di bilancio cui si riferisce l’art. 75 – ben individuate come sono, sia per il loro procedimento formativo, sia per la loro tipica struttura, sia per i limiti cui le sottopone l’art. 81 terzo comma Cost. – non vanno infatti confuse con le innumerevoli leggi di spesa, del genere di quella concernente il finanziamento dei partiti politici. E questo stesso atto, d’altra parte, non può neppure esser fatto rientrare fra le leggi finanziarie, intese nel senso più proprio del termine.

In definitiva, anche per la legge n. 195 del 1974, la Corte non rileva ragioni impeditive, che valgano ad escluderne la abrogazione popolare (mentre, per quanto riguarda la legge 16 gennaio 1978, n. 11, sopravvenuta nel corso dell’attuale giudizio a modificare l’art. 3 terzo comma lettera b) della legge n. 195, le eventuali conseguenti valutazioni spettano all’Ufficio centrale per il referendum, ai sensi dell’art. 39 della legge 1 n. 352 del 1970) .

11. – Finalmente, non sono riscontrabili cause d’inammissibilità e nessuna eccezione é stata comunque sollevata dall’Avvocatura dello Stato, circa la richiesta di referendum attinente agli artt. 1, 2, 3 e 3-bis delle norme “sui manicomi e sugli alienati”, dettate dalla legge 14 febbraio 1904, n. 36, e successive modificazioni.

PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSTITUZIONALE

1) dichiara inammissibili le richieste di referendum:

a) per l’abrogazione dell’art. 1 della legge 27 maggio 1929, n. 810 – sull’esecuzione del Trattato, dei quattro allegati annessi e del Concordato, sottoscritti in Roma, fra la Santa Sede e l’Italia, l’11 febbraio 1929 – limitatamente al contenuto degli artt. 1, 10, 17 e 23 del Trattato e all’intero contenuto del Concordato;

b) per l’abrogazione di 97 articoli del codice penale approvato con r.d. 19 ottobre 1930, n. 1398, e successive modificazioni, nei termini indicati in epigrafe;

c) per l’abrogazione dell’art. 1 del r.d. 20 febbraio 1941, n. 303 (“Codici penali militari di pace e di guerra”), limitatamente alle parole “il testo del codice (penale) militare di pace”;

d) per l’abrogazione del r.d. 9 settembre 1941, n. 1022 (“ordinamento giudiziario militare”);

2) dichiara ammissibili le richieste di referendum: a) per l’abrogazione della legge 22 maggio 1975, n. 152, recante “Disposizioni a tutela dell’ordine pubblico”, ad eccezione dell’art. 5 (sostituito dall’art. 2 della legge 8 agosto 1977, n. 533), secondo il quesito modificato dall’Ufficio centrale per il referendum, con ordinanza 6 dicembre 1977; b) per l’abrogazione di 12 articoli della legge 25 gennaio 1962, n. 20 (“Norme sui procedimenti e giudizi di accusa”), nei termini indicati in epigrafe; c) per l’abrogazione della legge 2 maggio 1974, n. 195 (“Contributo dello Stato al finanziamento dei partiti politici”); d) per l’abrogazione degli artt. 1, 2, 3, 3-bis della legge 14 febbraio 1904, n. 36 (“Legge sui manicomi e sugli alienati”), e successive modificazioni.

Così deciso in Roma, in camera di consiglio, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 2 febbraio 1978.

Paolo ROSSI – Luigi OGGIONI – Leonetto AMADEI – Edoardo VOLTERRA – Guido ASTUTI – Michele ROSSANO – Antonino DE STEFANO – Leopoldo ELIA – Guglielmo ROEHRSSEN – Oronzo REALE – Brunetto BUCCIARELLI DUCCI – Alberto MALAGUGINI
Livio PALADIN – Arnaldo MACCARONE

Giovanni VITALE – Cancelliere

Depositata in cancelleria il 7 febbraio 1978.