Osservatorio delle libertà ed istituzioni religiose

Olir

Osservatorio delle Libertà ed Istituzioni Religiose

Documenti • 16 Gennaio 2010

Sentenza 07 dicembre 1960

Pretura di Trecastagni Sentenza 7 dicembre 1960: “Turbamento di funzione religiosa per motivi politici”
 
(Omissis)
 
Fatto
 
Nella mattinata del 7 giugno 1959, giorno destinato alla votazione per l'elezione dei deputati all'Assemblea della regione siciliana, si presentò al maresciallo comandante la Stazione dei carabinieri di Zafferana Etnea il sacerdote R.S., denunciando che, nel corso della Santa Messa celebrata alle ore 8.30 dello stesso giorno nella Chiesa della frazione di Sarro, allorché teneva una predica ai fedeli illustrando il contenuto di un decreto del Sant'Uffizio, venne bruscamente interrotto da tale D.B.G., abitante del luogo, con la frase “la smetta di fare comizi, dica la Messa”. Interrogato dal maresciallo J., D.B. dichiarò che, mentre si trovava nella quarta sezione elettorale della frazione Sarro del comune di Zafferana Etnea quale rappresentante di lista del P.S.I., sebbene militante comunista, venne avvertito da alcune persone che nella Chiesa di Sarro un sacerdote teneva un comizio. Ritenendo opportuno intervenire per evitare che il sacerdote influenzasse la volontà degli elettori, tenendo nei pressi della sezione elettorale un comizio a favore di determinate liste e contro altre, D.B. si recò nella chiesa ove trovò il sacerdote il quale dall'altare parlava di politica a circa 50 fedeli dicendo, fra l'altro, che chi votava contro la D.C. avrebbe votato contro Gesù Cristo e pertanto i fedeli avrebbero dovuto votare per lo scudo crociato per il bene della Chiesa e del popolo. Constatato ciò D.B. interruppe il sacerdote dicendogli “reverendo non è giusto che lei eserciti pubblici comizi in chiesa, non inasprisca il popolo e si limiti a dire la Messa o altri riti religiosi”. Il fatto non ebbe seguito perché appena il sacerdote chiese a D.B. il suo nome questi si allontanò dicendo che avrebbe risposto delle proprie azioni.
Su tale fatto il Comando Stazione carabinieri di Zafferana Etnea riferì a questa Pretura, con rapporto n. 48 del 14 settembre 1959, denunciando D.B. quale responsabile del delitto di turbamento di funzione religiosa del culto cattolico a norma dell'articolo 405 del codice penale.
Iniziatosi contro D.B. procedimento penale, vennero sentiti in istruttoria numerosi fedeli indicati a testi dal sacerdote officiante, molti dei quali dichiararono di non aver assistito all'episodio o per non essersi recati a Messa quella domenica, o per essere arrivati in chiesa dopo la predica. Tutti i testi che dichiararono di essersi trovati in chiesa allorché si verificò l'episodio affermarono che D.B. interruppe il sacerdote mentre leggeva le lettere episcopali dicendogli la frase riferita da padre R. Dichiararono invece di non ricordare il contenuto delle lettere episcopali, né del commento fatto dal sacerdote. Esaurita la sommaria istruzione D.B. venne citato a giudizio davanti a questo Pretore per rispondere del delitto in epigrafe. All'udienza del 26 luglio 1960 la difesa dell'imputato sollevò preliminarmente questione di legittimità costituzionale sulla disposizione contenuta nell'articolo 405 del codice penale in relazione a quella di cui all'articolo 406 del codice penale, in quanto le sue disposizioni prevedono una pena diversa a seconda che trattisi di cerimonie, pratiche e funzioni del culto cattolico o di cerimonie, pratiche e funzioni di un qualsiasi altro culto ammesso. Più grave la pena nel primo caso, diminuita di un terzo nel secondo caso in base ad una distinzione di preminenza della Chiesa cattolica rispetto agli altri culti che non troverebbe riscontro con l'articolo 8 della Costituzione italiana che sancisce il principio che “tutte le confessioni religiose sono egualmente libere davanti alla legge”. Poiché la questione formò oggetto della sentenza n. 125 della Corte costituzionale in data 28-30 novembre 1957, sia pure nei riguardi della disposizione contenuta nell'articolo 404 del codice penale, per la quale la questione di legittimità costituzionale era stata proposta con la medesima motivazione, e la Corte costituzionale dichiarò infondata la questione affermando che “la diversità di tutela penale della religione cattolica rispetto alle altre confessioni religiose disposta dall'articolo 404 del codice penale non contrasta con gli articoli 7 e 8 della Costituzione poiché essa non limita affatto la libertà dell'esercizio dei culti e la libertà delle varie confessioni religiose, né incide sulla condizione giuridica di chi professi un culto diverso dal cattolico, ma anzi risponde alle disposizioni costituzionali che non stabiliscono la parità fra la Chiesa cattolica e le altre confessioni religiose, ma ne differenziano invece la situazione giuridica che è di uguale libertà, ma non di identità di regolamento dei rapporti con lo Stato”, il decidente dichiarò – con ordinanza in atti – manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell'articolo 405 del codice penale per il principio della irreiterabilità del sindacato costituzionale, non sussistendo motivi incontrario.
Celebratosi il dibattimento nelle udienze del 26 luglio, 25 novembre e 7 dicembre 1960, il pubblico ministero concluse chiedendo affermarsi la colpevolezza di D.B. con la sua condanna alla pena di giorni 20 di reclusione. La difesa chiese l'assoluzione dell'imputato trattandosi di persona non punibile perché il fatto non costituisce reato.
 
Diritto
 
Nel dibattimento l'imputato D.B. ha ampliato il contenuto dell'originario interrogatorio reso al maresciallo dei carabinieri, affermando che il sacerdote non si limitò, durante la predica, a comunicare ai fedeli le lettere episcopali e a commentarle, ma indusse i fedeli a votare per la Democrazia Cristiana promettendo loro l'acquisto di un televisore in arredamento del circolo parrocchiale e la sistemazione di una piazzetta nella frazione Sarro per la quale opera, affermò, erano stati già stanziati dei milioni. Viceversa, deponendo davanti al maresciallo dei carabinieri, affermò sì che il sacerdote aveva detto ai fedeli di votare per la D.C., ma non parlò di promesse fatte per indurre i fedeli a votare secondo le sue direttive, vincolando ad esse i loro suffragi. Il sacerdote, dal canto suo, ha negato sia di avere invitato i fedeli a votare per la D.C., sia di avere fatto loro le promesse riferite da D.B. I numerosi fedeli sentiti come testi non hanno deposto in verità nel migliore dei modi, apparendo anzi la loro deposizione non molto attendibile. La quasi totalità non avrebbe addirittura compreso niente del contenuto delle lettere episcopali, malgrado il commento illustrativo fatto dal sacerdote secondo sua ripetuta asserzione.
Fra i fedeli c'era anche un’insegnante elementare dell'età di 36 anni (teste Z.M.) la quale ha dichiarato di non ricordare cosa esattamente disse il sacerdote e se, a conclusione del suo dire, invitò i fedeli a votare per un determinato partito politico. Non è azzardato, pertanto, dubitare che tutti i testi hanno deposto in questo modo per paura di pregiudicare, con le loro risposte, la posizione del sacerdote, anche dichiarando semplicemente – se le cose andarono così – che il sacerdote si limitò a leggere le lettere pastorali e a commentarle in aderenza al loro contenuto.
Comunque, dalla deposizione dei testi assunti, non è emerso alcun elemento a riscontro delle affermazioni di D.B. e questo è quanto occorre precisare per la ricostruzione del fatto. È da notare poi che le affermazioni di D.B. si presentano anch'esse di per sé inattendibili, oltre che per mancanza di qualsiasi serio e coordinato riscontro subbiettivo, anche per essere state fatte in dibattimento per la prima volta, mentre la più semplice logica suggerisce che avrebbe dovuto farle nell'immediatezza del fatto, cioè, nell'interrogatorio reso ai carabinieri, quando più vicina era la percezione delle parole e prepotente l'interesse ad accusare il sacerdote per difendere se stesso. Pertanto, anche se manca del tutto la prova che il sacerdote non indusse i fedeli a votare per la D.C., manca del pari ogni prova che il sacerdote tale induzione fece e conseguentemente il fatto da esaminare rimane circoscritto alla comunicazione delle lettere episcopali e al relativo commento, senza alcun conclusivo invito a votare per la D.C. o per determinate persone.
La difesa dell'imputato ha tacciato di illegittimità l'operato del sacerdote, sia per affermare che il sacerdote faceva propaganda politica e non celebrava la Messa, sia per affermare che non D.B. avrebbe dovuto essere tratto a giudizio, ma il sacerdote per violazione della disposizione contenuta nell'articolo 81 del Testo Unico delle leggi per l'elezione dei Consigli comunali 5 aprile 1951, n. 203 che vieta lo svolgimento di ogni propaganda elettorale nei giorni della votazione entro un raggio di 200 metri dalla sezione elettorale e per violazione della disposizione contenuta nell'articolo 79 dello stesso Testo Unico 5 aprile 1951, n. 203 che punisce il ministro di qualsiasi culto che, abusando delle proprie attribuzioni e nell'esercizio di esse, si adopera a vincolare i suffragi degli elettori a favore o in pregiudizio di determinate liste o di determinati candidati.
Sotto il primo profilo mancherebbe l'oggetto specifico della tutela penale, predisposta dall'articolo 405 del codice penale, che è costituito da una funzione pratica o cerimonia religiosa e pertanto l'imputato non sarebbe punibile perché il fatto non costituisce reato. Per il secondo e il terzo rilievo il sacerdote avrebbe dovuto essere sottoposto a procedimento penale sia per avere vincolato con promesse i suffragi dei fedeli quali elettori e sia per avere comunque svolto propaganda elettorale nel giorno della votazione entro il raggio di 200 metri dalla sezione elettorale.
Occorre a questo punto, al fine di valutare il fondamento di tali rilievi, esaminare il contenuto delle lettere pastorali comunicate dal sacerdote ai fedeli e accluse in copia al rapporto dei carabinieri.
Si tratta di un decreto del Sant'Uffizio sul comunismo datato Roma, 1° luglio 1949, di un comunicato della Conferenza Episcopale Italiana datato Roma, 3 maggio 1958, di un decreto del Sant'Uffizio del 4 aprile 1959, di una dichiarazione dell'Episcopato siciliano datato Bagheria, 9 aprile 1959 e di una comunicazione del Vescovado di Agrigento senza data, ma presumibilmente del 1959. Col primo decreto, rispondendo ad analoghi quesiti proposti da fedeli, il Sant'Uffizio afferma non essere lecito per i cattolici iscriversi al Partito Comunista, perché materialista e anticristiano, dargli appoggio, leggere scritti improntati a propaganda comunista; non potere i cattolici ricevere i sacramenti qualora violassero tali precetti, essendo anzi passibili di scomunica. Con il comunicato della Conferenza Episcopale del 1958 si rivolge ai fedeli l'invito a votare ed a essere uniti nel voto per costituire un valido argine ai gravissimi pericoli gravanti sulla vita cristiana del paese. La dichiarazione dell'episcopato siciliano e gli altri due documenti affermano il principio che non è lecito ai cattolici dare il voto a quei partiti e a quei candidati i quali, quantunque non professanti principi in contrasto con la religione cattolica, tuttavia di fatto si uniscono con i comunisti.
Delle predette comunicazioni il sacerdote diede lettura ai fedeli in chiesa durante la Messa al Vangelo. Rientra tale attività nel contenuto della Messa – che è funzione religiosa – o se ne discosta per costituire una parentesi di pura e semplice propaganda elettorale che con la funzione religiosa nulla ha a che fare? Questo interrogativo pone un grave problema in quanto il legislatore non ha specificato il contenuto dell'oggetto della tutela penale accordata con la norma dell'articolo 405 del codice penale, omettendo di dare la definizione dei concetti di pratica, funzione e cerimonia religiosa. Dottrina e giurisprudenza sono d'accordo, però, nel ritenere che si tratti di una voluta astensione del legislatore, dovendosi trarre il contenuto di tali concetti dall'ordinamento della Chiesa cattolica. Lo Stato italiano riconosce l'esistenza di tale ordinamento a mezzo del Concordato con la Santa sede e con l'articolo 7 della Costituzione.
L'articolo 1 del Concordato “assicura alla Chiesa il libero esercizio del potere spirituale, il libero e pubblico esercizio del culto, nonché della sua giurisdizione in materia ecclesiastica”.
Nell'articolo 2 del Concordato è “assicurata ai Vescovi la libertà di corrispondere e comunicare con il clero e con i fedeli e di pubblicare e anche affiggere, nell'interno e alle porte esterne degli edifici destinati al culto o ad uffici del loro ministero, le istruzioni, ordinanze, lettere pastorali, bollettini diocesani e altri atti riguardanti il governo spirituale dei fedeli che crederanno di emanare nell'ambito della loro competenza”.
L'articolo 7 della Costituzione italiana afferma sua volta che “lo Stato e la Chiesa cattolica sono ciascuno nel proprio ordine indipendenti e sovrani”.
È così affermato il principio del libero svolgimento, da parte della Chiesa cattolica, di tutte le funzioni e cerimonie religiose secondo i canoni ecclesiastici e del potere spirituale sui cattolici. Per definire pertanto il contenuto delle pratiche, funzioni e cerimonie religiose bisogna necessariamente rifarsi alla liturgia religiosa e a tutte le disposizioni interne dell'ordinamento della Chiesa cattolica, quale inevitabile presupposto della norma statuale in questione.
Per quanto riguarda la fattispecie occorre esaminare se la “predica” durante la Messa costituisca funzione religiosa e se tale natura conservi anche se il sacerdote, anziché trattare argomenti puramente religiosi, svolga dissertazioni attinenti alla politica.
Il canone 1344 del Codex Juris Canonici recita: “Diebus dominicis ceterisque per annum festis de praecepto proprium cuiusque parochi officium est, consueta homilia, praesertim intra Missam in qua maior soleat, esse populi frequentia, verbum Dei populo nuntiare. Parochus huic obligationi nequit per alium habitualiter satisfacere, nisi ob iustam causam ab Ordinario probatam. Potest Ordinarius permitte ut solemnioribus quibusdam festis aut etiam, ex iusta causa, aliquibus diebus dominicis concio omittatur”. Il canone 1347 dello stesso codice e recita: “In sacris concionibus exponenda in primis sunt quae fideles credere et facere ad salutem oportet. Divini verbi praeconis abstineant profanis aut abtrusis argumentis communem auduentium captum excedentibus; et evangelicum ministerium non in persuasibilibus humanae sapientiae verbis, non in profano inanis et ambitiosae eloquentiae apparatus et lenocinio, sed in ostensione spiritus et virtutis exerceant, non semetipsos, sed Christum crucifixum praedicantes”.
Da tali disposizioni si evince che il parroco ha l'obbligo di intrattenere i fedeli durante la Messa domenicale catechizzandoli sulla parola di Dio e sulle buone regole di condotta morale e religiosa, astenendosi però dal trattare argomenti profani. Tra gli argomenti profani rientra evidentemente la propaganda elettorale, la polemica politica ed ogni contesa in genere legata al gioco politico.
Oltre che dal canone 1347 le limitazioni ai discostamenti dal tema religioso nella predica sono disposte da numerosi documenti canonici vecchi e recenti. Si cita, da ultimo, la più recente Esortazione ai quaresimalisti fatta da Pio XII il 12 marzo 1948: “quando sul pulpito adempite l'alto e santo uffizio di predicare la parola di Dio, guardatevi dallo scendere a meschine questioni di partiti politici, ad aspre contese di parte”. Anche secondo i canoni e le direttive ecclesiastiche è pertanto vietato dare alla predica un contenuto politico e il sacerdote non deve trascendere il tema religioso trattando questioni di partiti ed uomini politici.
Se però si afferma questo da un lato, altri documenti canonici, pur vietando ai predicatori di trattare argomenti politici nel senso sopra precisato, li invitano a controbattere i “sistemi politici che avversano la religione cattolica”.
Si cita, quale documento più importante, il decreto del Concilio provinciale bisturicense dove si dice: “idcirco verbi Dei praecones ullatenus de poliiticis tractare omnimodo vetamus; sed non interdicimus quin cum omni prudentia et caritate sistemata fidei documenta adversantia confutent”. La Chiesa cattolica, in altri termini, afferma la sua estraneità dalla politica quale contesa di uomini e di idee per il reggimento della cosa pubblica, ma afferma nel contempo il proprio diritto di difendersi da quei “sistemi politici” che prendono posizione contro la religione cattolica facendo affermazioni di ateismo e di materialismo e programmando lo scardinamento di tutte le istituzioni ecclesiastiche. Espressione di tale atteggiamento è il decreto del Sant'Uffizio del 1° luglio 1949 sul comunismo nel quale si afferma non essere lecito ai cattolici iscriversi al Partito Comunista perché materialista e anticristiano, leggere e diffondere libri e giornali che sostengono la dottrina comunista ed essere negati i sacramenti a coloro che professano e difendono tali idee. Il decreto del Sant'Uffizio del 4 aprile 1959, ricalcando le stesse affermazioni, dichiara “non essere lecito ai cattolici dare il voto a quei partiti politici o a quei candidati i quali, quantunque non professando i principi contrari alla dottrina cattolica, tuttavia si uniscono ai comunisti e con la loro azione li favoriscono”.
Il comunismo non è un movimento politico confessionale o, quanto meno, agnostico: anzi, fa aperta affermazione di ateismo e di materialismo ed ha come programma la rivoluzione mondiale per attuare, anche con la violenza, la propria supremazia su tutti gli altri ordinamenti esistenti, che annulla o rende succubi. Lo scardinamento di tutte le attuali strutture della Chiesa cattolica è nel suo programma, riconoscendo in essa un pericoloso nemico che ostacola dovunque la sua azione. È palese, pertanto, il grave dissidio tra l'ideologia comunista e la religione cattolica e poiché il comunismo non è un'ideologia di un ristretto circolo di pensatori, ma si presenta dovunque come partito politico interno, partecipante, quindi, al gioco politico, il pericolo per la Chiesa cattolica è sempre attuale in ogni paese e devesi riconoscere, pertanto, alla Chiesa cattolica il diritto di rappresentare ai fedeli il dissidio ideologico con il comunismo, nonché il pericolo che il trionfo politico del comunismo rappresenterebbe per la conservazione dei valori spirituali affermati dal cristianesimo. Se pertanto il sacerdote nella sua predica limita il tema al dissidio ideologico fra cattolicesimo e comunismo invitando i fedeli a non dare il loro appoggio al partito comunista e agli altri schieramenti politici che direttamente lo sostengono, evidentemente non trascende la materia religiosa, cadendo nella politica in senso tecnico, perché ogni dissertazione limitata al contrasto fra le due ideologie non ha carattere politico, ma religioso, alla pari di una dissertazione avente per oggetto una qualsiasi eresia. Ragionare diversamente significherebbe togliere ogni valore ai principi del Concordato e della Costituzione svuotando di qualsiasi contenuto le affermazioni di libertà e sovranità fatte in favore della Chiesa cattolica.
A diversa conclusione devesi pervenire, invece, quando il sacerdote, superando i limiti delle necessità di trattazione di tale argomento, scende sul terreno politico vero e proprio, cioè, in senso tecnico, inducendo i fedeli a votare per un determinato partito o per determinati candidati. In questo caso cade in quelle meschine questioni di partiti politici deprecate da Papa Pio XII.
I confini tra la materia politica, quale anche espressione di un atteggiamento ideologico nei confronti della religione e della politica in senso tecnico, non sono certamente ben definiti ed è pertanto facile camuffare un argomento nettamente politico con capziose velature di dissertazione religiosa. Male fa in tal caso il sacerdote e il suo operato costituisce certamente un abuso delle sue attribuzioni che lo mette al di fuori delle garanzie concordatarie e costituzionali, passibile, al pari di qualsiasi cittadino, delle sanzioni penali previste dall'ordinamento statuale.
Nella specie, posto che nessuna prova è emersa a riscontro delle affermazioni di D.B., la materia trattata dal sacerdote deve ritenersi limitata al commento delle lettere episcopali che, come sopra si è detto, non hanno trasceso i limiti del dissidio fra cattolicesimo e comunismo, affermando solo che il comunismo è anticristiano e che i fedeli non devono pertanto appoggiare né il partito comunista, né quelli che lo sostengono. Nessun invito a votare per un determinato partito di destra o di centro o per persone esponenti di tali partiti, nessuna propaganda diretta a tale scopo a loro favore. Pertanto i fedeli rimanevano liberi di dare il loro appoggio a qualsiasi partito non nemico della Chiesa e, qualora avessero voluto votare per il partito comunista, ciò avrebbero fatto consapevoli di violare i principi della religione da loro professata.
Questi rilievi consentono di confutare – sebbene non occorre, mancando un'imputazione a carico del sacerdote – le altre due argomentazioni della difesa. Nessuna violazione dell'articolo 79 del Testo Unico 5 aprile 1951, n. 203 perché mancò, da parte del sacerdote, l'abuso delle sue attribuzioni, né si adoperò il sacerdote a vincolare i suffragi dei fedeli elettori a favore o contro un determinato partito, limitandosi invece a consigliare ai fedeli – e solo in quanto tali – a non dare appoggio al Partito Comunista e a quelli ad esso collegati. Nessuna violazione dell'articolo 81, stesso Testo Unico, perché il sermone del sacerdote, pur trattando materia politica, fu limitato a ricordare ai fedeli il dissidio ideologico fra cattolicesimo è comunismo come sopra detto.
A questo punto ritiene il decidente che vada adeguatamente esaminato il comportamento dell'imputato per una migliore valutazione dell'elemento psicologico. Il dolo richiesto dal reato in esame consiste nella coscienza e volontà dell'impedimento o turbamento della funzione religiosa, nel senso che l'agente deve agire consapevolmente con l'intenzione di cagionare l'evento, turbamento o impedimento. D.B., rappresentante di lista del P.S.I., ma militante comunista, si trovava nella sezione elettorale allorché fu messo conoscenza che padre R. teneva un comizio entro la Chiesa di Sarro, posta entro il raggio di 200 metri dalla sezione elettorale (teste M.J.). Recatosi in chiesa trovò il sacerdote intento a parlare ai fedeli nel senso precisato sopra. Gli si rivolse allora dicendo: “la smetta di fare comizi, dica la Messa”. Nessun'altra parola, nessun atteggiamento minaccioso! E’ chiaramente palese nelle parole di D.B. l'intendimento non di turbare o impedire la funzione della Messa alla cui celebrazione intese, anzi, a modo suo, richiamare il sacerdote, ma quello di fargli presente l'illiceità del suo comportamento, facendo propaganda politica in giorno di votazione e in luogo aperto al pubblico entro il raggio di duecento metri dalla sezione elettorale. Questa giustificazione non è dell'ultima ora, ma fu prospettata in questi termini nel primo interrogatorio reso al maresciallo dei carabinieri e lascia fondatamente supporre che in altro giorno, diverso da quello della votazione, D.B. non sarebbe intervenuto.
Non si può pertanto affermare che si abbia prova del dolo richiesto dal reato in esame, avendosi anzi elementi sufficienti per ritenere il contrario. Il sacerdote fece uso di una facoltà, riconosciutagli dall'ordinamento statuale, esercitandola secondo le direttive degli organi ecclesiastici, ma non si può negare che, proprio nel giorno della votazione e in una chiesa vicina alla sezione elettorale, l'esercizio di tale facoltà non poteva non apparire un abuso e un espediente che consentiva al sacerdote di parlare di politica mentre ad altri ciò era vietato! Non mancano ai sacerdoti occasioni migliori per fare uso di quella libertà di propaganda elettorale che in regime democratico è riconosciuta incondizionatamente a tutti i cittadini e sarebbe senza dubbio più saggio e conforme al sereno equilibrio della dottrina di Cristo che il sacerdote evitasse, con migliore senso di opportunità, di ricordare ai fedeli il dissidio ideologico fra il comunismo e cattolicesimo proprio nel giorno della votazione, in una chiesa vicina alla sezione elettorale, quando a tutti i partiti, compreso il P.C.I. antagonista, e, comunque, a qualsiasi cittadino, è vietata ogni forma di propaganda elettorale. D.B. ritenne in buona fede che il sacerdote stesse violando le disposizioni in materia di propaganda elettorale e volle richiamarlo alla celebrazione della Messa. Non volle turbare o impedire questa funzione ritenendo che con essa le dissertazioni del sacerdote nulla avessero a che fare. Se il suo comportamento fu irriguardoso – tenendo presenti la persona, il momento e il luogo – nei confronti del sacerdote, ben potendo intervenire diversamente, finita la Messa, interpellando il sacerdote in sacrestia, o riferendo al vescovo che certamente avrebbe dovuto rilevare l'inopportunità dell'iniziativa del sacerdote, o denunciandolo ai carabinieri, lasciando così alle autorità competenti ogni sindacato di loro competenza, tuttavia tale comportamento non integra il reato di turbamento di funzione religiosa per difetto dell'elemento psicologico di questo reato.
A sostegno del particolare modo di intendere il dolo, cioè, come consapevole intendimento di cagionare l'evento, si riportano due decisioni della Suprema Corte che affermano tale principio, sia pure in tema di diffamazione:
“A concretizzare l'elemento soggettivo del delitto di diffamazione occorre il dolo di volontà consistente nel compiere atti con la coscienza della loro attitudine lesiva e nell'intenzione di arrecare con essi un'offesa” (Cass. Pen. 10 febbraio 1953).
“Nel reato di diffamazione sussistono gli estremi della comunicazione a più persone e l’elemento soggettivo consistente oltre che nella coscienza e volontà dell'azione nella volontà dell'evento diffamatorio nel caso in cui…omissis” (Cass. Pen. 16 maggio 1958).
Nella specie, manca del tutto la prova che D.B. intendesse turbare la celebrazione della Messa e, anzi, per le superiori osservazioni, si ha fondato motivo di ritenere provata la inesistenza di qualsiasi volontà consapevole in tal senso. L'azione materiale ebbe come spinta psicologica non il turbamento della funzione religiosa, ma unicamente la cessazione di quell'attività del sacerdote che D.B. ritenne illecita nei confronti delle disposizioni statuali regolanti le operazioni e la campagna elettorale e non rientrante come tale nel contenuto rituale della Messa.
L'imputato deve essere pertanto assolto trattandosi di persona non punibile perché il fatto non costituisce reato.
 
(Omissis)