Osservatorio delle libertà ed istituzioni religiose

Olir

Osservatorio delle Libertà ed Istituzioni Religiose

Documenti • 27 Agosto 2003

Sentenza 06 luglio 1960, n.58

Corte costituzionale. Sentenza 6 luglio 1960, n. 58: “Giuramento nel processo penale (art. 449 c.p.p.)”.

(Perassi; Gabrieli)

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori:

Presidente: prof. Tomaso PERASSI;

Giudici: avv. Giuseppe CAPPI, prof. Gaspare AMBROSINI, dott. Mario COSATTI, prof. Francesco PANTALEO GABRIELI, prof. Giuseppe CASTELLI AVOLIO, prof. Antonino PAPALDO, prof. Nicola JAEGER, prof. Giovanni CASSANDRO, prof. Biagio PETROCELLI, dott. Antonio MANCA, prof. Aldo SANDULLI, prof. Giuseppe BRANCA,

ha pronunciato la seguente

Sentenza

nel giudizio di legittimità costituzionale dell’att. 449 del Cod. proc. penale, promosso con ordinanza emessa il 27 novembre 1959 dal Pretore di Vicenza nel procedimento penale a carico di Morellato Gino, iscritta al n. 130 del Registro ordinanze 1959 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 316 del 31 dicembre 1959.

Vista la dichiarazione di intervento del Presidente del Consiglio lei Ministri;

udita nell’udienza pubblica del 22 giugno 1960 la relazione del Giudice Francesco Pantaleo Gabrieli;

udito il sostituto avvocato generale dello Stato Franco Chiarotti, per il Presidente del Consiglio dei Ministri.

(omissis)

Considerato in diritto:

La questione sottoposta all’esame della Corte è la seguente: se la formula contenuta nell’art. 449 del Cod. proc. pen. sia in contrasto con la norma dell’art. 21, primo comma, della Costituzione nei confronti della persona che, chiamata a deporre come testimone, si rifiuti di giurare dichiarandosi ateo.

Il testimone davanti al Pretore di Vicenza ha reso la seguente dichiarazione: “mi rifiuto di giurare sulla formula che la S. V. mi dice, perchè in essa vi è un accenno a Dio e, quindi, per le idee religiose che non professo è in contrasto con la mia coscienza”.

Per il combinato disposto degli artt. 142, primo comma, e 449 secondo e terzo comma, del Cod. proc. pen., l’autorità che riceve il giuramento ammonisce preventivamente chi deve prestarlo dell’importanza morale dell’atto, del vincolo religioso che con esso contrae dinanzi a Dio e delle pene stabilite per i colpevoli di falsità in giudizio. Indi la stessa autorità legge la formula: “consapevole della responsabilità che col giuramento assumete davanti a Dio e agli uomini, giurate di dire tutta la verità e null’altro che la verità”. Il giuramento si presta pronunciando le parole “lo giuro”.

Ciò posto, l’offesa alla libertà di pensiero non potrebbe ritenersi esclusa dal fatto che il testimone con le parole “lo giuro” limita il proprio impegno “a dire tutta la verità e null’altro che la verità”, senza manifestare alcun pensiero circa” la consapevolezza della responsabilità che col giuramento si assume davanti a Dio”. Infatti, pur essendo l’intera formula letta dal giudice, le parole “lo giuro” si riferiscono a tutto il contenuto dell’art. 449. Il che si evince dal necessario collegamento tra l’ammonimento del vincolo religioso e la lettura della formula del giuramento, fatte entrambe dal giudice, senza intervallo, e seguite immediatamente dal solenne atto confermativo del giurante. Ove si aderisse alla tesi della scindibilità della formula, da un lato si disconoscerebbe Ia natura del giuramento, come atto formale e solenne da prestarsi con le modalità legislativamente stabilite, che non possono essere mutate né dal giudice che lo riceve, nè dal giurante; dall’altro si verrebbe ad apportare una modificazione alla fattispecie del reato preveduto dal terzo comma dell’art. 366 del Cod. pen., modificazione che potrebbe farsi soltanto con provvedimento legislativo (art. 1 Cod. pen.).

La libertà di pensiero non potrebbe, inoltre, essere garantita con una riserva mentale del giurante, nel senso che la invocazione della Divinità abbia efficacia soltanto per il credente: la riserva importerebbe un atto interiore imposto, che verrebbe a violare, per altro verso, la libertà del pensiero del soggetto della prova.

Ad avviso della Corte, il contenuto della formula del giuramento non viola, nei confronti dell’ateo, la norma del primo comma dell’art. 21 della Costituzione, che garantisce la libera manifestazione del pensiero. A questa conclusione si perviene in base alla interpretazione della norma impugnata per precisarne il contenuto ai fini della legittimità costituzionale.

La su trascritta formula risponde alla coscienza del popolo italiano, costituito nella quasi totalità di credenti e, quindi, pre supponendo nel giurante la credenza in Dio, è adeguata a qualsiasi confessione, anche acattolica. La situazione del non credere è fuori della previsione dell’art. 449, perchè la libertà religiosa, pur costituendo l’aspetto principale della più estesa libertà di coscienza, non esaurisce tutte le manifestazioni della libertà di pensiero: l’ateismo comincia dove finisce la vita religiosa.

A bene considerare le finalità della formula, il soggetto della prova è sostanzialmente invitato ad assumere, mediante il giuramento, l’impegno di dire “la verità”. Ciò discende oltre che dalla ratio della norma, anche dal fatto che il rifiuto di prestare il giuramento, punito come rifiuto di un ufficio legalmente dovuto (art. 366, terzo comma, Cod. pen.), è classificato tra i delitti contro l’amministrazione della giustizia—e precisamente nel capo primo dei “delitti contro l’attività giudiziaria”—, la quale potrebbe essere ostacolata dalla mancanza di una fonte di prova. In tale modo il legislatore ha inteso assicurare il contributo del cittadino all’amministrazione della giustizia e, nel contempo, precisare il prevalente interesse penalmente protetto.

L’impegno, poi, relativo alla veridicità dei fatti, oggetto della prova, è reso solenne da un triplice ammonimento religioso-morale-giuridico; cioè da un insieme di valori atti a vincolare la coscienza del testimone.

Ma a differenza del credente, che è consapevole della responsabilità che col giuramento assume davanti a Dio, l’ateo non viene ad assumere eguale responsabilità verso un Ente Supremo, la cui esistenza egli nega.

Il giuramento non impone all’ateo una confessione religiosa. Le parole “consapevole della responsabilità che col giuramento assumete davanti a Dio” nei confronti di chi faccia professione di ateismo vanno intese nel senso di un richiamo alla responsabilità che il credente, e soltanto lui, assume col giuramento davanti a Dio. Il vincolo, nei riguardi dell’ateo, di dire la verità è perciò rafforzato esclusivamente dalla consapevole responsabilità che assume con l’atto del giuramento davanti agli uomini, responsabilità puramente morale, e dalla minaccia di una sanzione penale; ma non dal senso della Divinità che per lui è irrilevante.

Giova, a tale punto, ricordare che la formula del giuramento appare ispirata ai sentimenti della coscienza comune quale espressione dei valori morali e religiosi, che possono agire sul testimone per spronarne il senso del dovere; mentre la varietà delle formule, nel succedersi delle legislazioni, sta a significare che la scelta degli elementi che la compongono (morali-religiosi ecc.) è fatta dal legislatore, in base alla influenza che i vari elementi, in un dato momento storico, possono esercitare sulla collettività per assicurare la veridicità della prova.

Così alcune legislazioni prescindono dal richiamo ad un Essere soprannaturale, fondando il giuramento sul senso dell’onore; altre stabiliscono che quando la legge richiede un giuramento, possa essere prestato con una semplice “affirmation”; altre, infine, hanno voluto imporre ai fatti esposti dal testimone una solenne garanzia di veridicità con la invocatio nominis divini in testem veritatis (Corpus iuris canonici, can. 1316).

Inoltre, l’art. 299 del Cod. proc. pen. del 1865, che pur stabiliva che il giuramento doveva prestarsi secondo i riti della credenza del giurante, fu modificato dalla legge 30 giugno 1876, n. 3I84, che limitò l’ammonimento del vincolo religioso ai “credenti “. Il Codice di procedura penale del 1913, sciogliendo la formula del giuramento da ogni ritualità religiosa, ne limitò il ontenuto all'”obbligo di dire la verità, null’altro che, la verità” artt. 87, 88, per il testimonio, 90, per il perito, 91, per l’interprete), e rimise al criterio del magistrato la facoltà di adeguare l’ammonimento della importanza religiosa dell’atto alla “qualità lella persona”. (Rel. ministeriale al primo progetto del Cod. proc. pen., pagg. 140-144).

Lo stesso Codice di procedura civile del 1942, nella formula del giuramento del consulente tecnico (art. 193) e dell’interprete art. 122, terzo comma), prescinde da ogni accenno alla Divinità.

Va, infine, rilevato che la Costituzione del 1948 ha accolto istituto del giuramento (artt. 54, 91, 93), ma ne ha rimesso la regolamentazione al legislatore ordinario, indicandone peraltro le direttive, nel senso di fare consistere il vincolo dell’atto solenne “nella fedeltà alla Repubblica e nella osservanza della Costituzione e delle leggi”. Queste direttive sono state tradotte nella legge 11 marzo 1953, n. 87, art. 5; nel D. P. R. 10 gennaio 1957, n. 3, art. 11, ecc.

Dai precedenti storici ora ricordati è dato desumere che, nel sistema adottato dal legislatore italiano, il giuramento non ha quel carattere prevalente di religiosità, che si vorrebbe ad esso attribuire. Se, pertanto, la disposizione dell’art. 449 del Cod. proc. pen. ora impugnato si consideri, come è necessario, in relazione al sistema anzidetto, non si può fondatamente disconoscere che la disposizione stessa non incide nè sulla libertà di pensiero, nè sulla libertà di coscienza, perchè il monito della responsabilità davanti a Dio non può essere inteso, ripetesi, se non nel senso che esso impegna soltanto la coscienza del credente, non già quella dell’ateo.

Pertanto, la disposizione dell’art. 449 del Cod. proc. pen. non è in contrasto con la norma dell’art. 21, primo comma, della Costituzione. Comunque spetta al legislatore ordinario vedere se e come la formula del giuramento possa essere modificata.

PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara non fondata, nel senso indicato nella motivazione, la questione proposta con l’ordinanza del Pretore di Vicenza del 27 novembre 1959 sulla legittimità costituzionale dell’art. 449 Cod. proc. pen., riguardante la formula del giuramento del testimone, in riferimento all’art. 21 della Costituzione.