Sentenza 06 agosto 2004, n.15241
Corte di cassazione
Sezione I civile
Sentenza 6 agosto 2004, n. 15241
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Con ricorso depositato il 9 dicembre 1994, Milena C. chiedeva al Tribunale di Padova di pronunciare la separazione personale dal marito, Giuseppe C., addebitando la separazione stessa a quest’ultimo ed impartendo le conseguenziali statuizioni.
Si costituiva il convenuto, contestando le affermazioni della ricorrente e, segnatamente, l’avversa domanda di addebito.
Il giudice adito, con sentenza del 12-30 novembre 1998, pronunciando la separazione dei coniugi, affidava le due figlie minori alla madre e disponeva che il padre contribuisse al mantenimento di queste ultime versando alla moglie l’assegno mensile di lire 2.000.000, da rivalutarsi secondo gli indici Istat dal 1° marzo 1996.
Avverso la decisione, proponeva appello il C., chiedendo che il suddetto assegno fosse ridotto a lire 1.500.000, tenuto conto, comparativamente, dei redditi dei coniugi e dell’obbligo anche della madre di contribuire al mantenimento delle figlie in proporzione al proprio, nonché, in subordine, che venisse fissata la decorrenza dell’assegno e la sua rivalutazione dalla data della sentenza.
Resisteva nel grado l’appellata, instando per il rigetto dell’avverso gravame sul rilievo che la disparità tra i rispettivi redditi dei genitori e le crescenti, obiettive necessità delle figlie stesse imponessero l’operata quantificazione del contributo in oggetto, nonché spiegando a sua volta appello incidentale con il quale chiedeva che venisse pronunciata l’addebitabilità della separazione al marito, affiliatosi ad una setta religiosa ed allontanatosi dalla casa familiare in preda ad una vera e propria esaltazione religiosa.
La Corte di appello di Venezia, con sentenza del 30 luglio-6 settembre 2000, rigettava il gravame incidentale, accoglieva quello principale ed, in parziale riforma della pronuncia impugnata, determinava in lire 1.500.000 l’assegno dovuto dal C. a titolo di contributo per il mantenimento delle figlie, assumendo: a) che non sussistessero valide ragioni per addebitare la separazione al C., il quale, nella scelta di appartenenza ad una confessione religiosa e nella conseguente rinuncia alla convivenza, aveva esercitato un diritto senza avere posto in essere atti di per sé lesivi dei doveri coniugali e paterni, stanti le negative conclusioni in proposito della svolta consulenza tecnica d’Ufficio; b) che fosse contraddittoria l’affermazione del Tribunale relativa alla necessità di un adeguamento del contributo in questione, il quale era già stato congruamente determinato, in sede di adozione dei provvedimenti presidenziali temporanei ed urgenti, in lire 1.500.000 mensili, onde tale contributo doveva essere confermato nella misura stabilita in quella sede, là dove cioè le necessità delle figlie erano già state valutate, senza che l’esame comparato dei redditi e della complessiva situazione economica delle parti consentisse di superare la suindicata quantificazione.
Avverso detta sentenza, ricorre per cassazione la C., deducendo tre motivi di gravarne ai quali resiste il C. con controricorso.
MOTIVI DELLA DECISIONE
Debbono, innanzi tutto, essere disattese le eccezioni di inammissibilità del ricorso sollevate dal controricorrente in relazione al duplice profilo dell’erroneo richiamo dell’articolo impugnato (l’art. 156 c.c., cioè, laddove alla C. è stato riconosciuto l’assegno di cui all’art. 155, secondo comma, c.c.) e della censura, ad opera della ricorrente, della mancata considerazione, da parte della Corte territoriale, di elementi di fatto la cui valutazione compete al giudice di merito restando preclusa al giudice di legittimità.
Premesso, infatti, come le riferite eccezioni attengano esclusivamente al primo dei tre motivi posti a base del ricorso, si osserva:
a) per un verso, che l’indicazione, ai sensi dell’art. 366, n. 4, c.p.c., delle norme che si assumono violate non si pone come requisito autonomo ed imprescindibile ai fini dell’ammissibilità del ricorso per cassazione, ma come elemento richiesto allo scopo di chiarire il contenuto delle censure formulate e di identificare i limiti dell’impugnazione, sicché la mancata od erronea indicazione delle disposizioni di legge non comporta l’inammissibilità del gravame là dove, come nella specie, gli argomenti addotti dal ricorrente, valutati nel loro complesso, consentano di individuare le norme o i principi di diritto che si assumono violati e rendano possibile la delimitazione del quid disputandum (Cassazione 11202/2003);
b) per altro verso, che le doglianze di cui al motivo sopra indicato, secondo quanto traspare dalla stessa rubrica, ineriscono altresì alla lamentata omissione o insufficienza della motivazione su un punto decisivo prospettato dalla parte, ovvero esattamente a quei profili sotto i quali è pur sempre consentita, ex art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c., la censura in sede di legittimità degli apprezzamenti di fatto del giudice di merito.
Con il primo motivo di impugnazione, dunque, lamenta la ricorrente violazione e falsa applicazione dell’art. 156 c.c., nonché omessa o insufficiente motivazione su un punto decisivo prospettato dalla parte, deducendo:
a) che la Corte territoriale, riformando la pronuncia del Tribunale, ha ridotto a lire 1.500.000 l’importo del contributo dovuto dal Cipollone per il mantenimento delle figlie, già fissato in lire 2.000.000 dal giudice di primo grado;
b) che nessuna esplicitazione è dato trovare nella motivazione della sentenza gravata riguardo all’asserita “contraddittorietà” dell’affermazione della necessità di un adeguamento del contributo in oggetto, come pure riguardo al pensiero dei giudici veneziani in ordine alla “congruità” della misura del contributo medesimo, quale determinata nei provvedimenti provvisori;
c) che, nella specie, neppure può parlarsi di motivazione per relationem, atteso che, nei provvedimenti provvisori anzidetti, sia del presidente sia del giudice istruttore, alcuna motivazione è data in ordine all’adeguatezza del contributo, che viene solo apoditticamente affermata;
d) che il giudice di secondo grado ha del tutto pretermesso l’indicazione degli elementi dai quali ha tratto il proprio convincimento ed il ragionamento logico-giuridico posto a base della decisione, essendosi limitato ad affermare che la determinazione del medesimo contributo, fatta in sede di provvedimenti provvisori, appariva congrua e che le necessità delle figlie erano già state valutate al momento della pronuncia presidenziale.
Il motivo è fondato.
Vale premettere come la Corte territoriale abbia al riguardo affermato:
a) che ha errato il Tribunale nel determinare il contributo paterno a favore delle figlie conviventi con la madre nella somma di lire 2.000.000 mensili;
b) che è contraddittoria l’affermazione della necessità di un adeguamento del contributo stesso, contenuta nella sentenza di primo grado, laddove tale contributo già era stato congruamente determinato, in fase di provvedimenti provvisori, in lire 1.500.000 mensili;
c) che l’esame comparato dei redditi e della complessiva situazione economica delle parti non consente di superare l’anzidetta quantificazione del contributo al mantenimento delle figlie, le cui necessità sono già state valutate al momento della pronuncia presidenziale.
Tanto premesso, si osserva come nessuno degli argomenti addotti dalla Corte territoriale a fondamento della decisione di ridurre da lire 2.000.000 a lire 1.500.000 mensili la misura del contributo in argomento rechi l’indicazione di ragioni che siano obiettivamente sufficienti ed adeguate, sul piano logico, a suffragare il convincimento espresso sul punto da detto giudice, onde il riconoscimento della sussistenza del vizio di motivazione denunziato dalla ricorrente.
Giova, infatti, considerare al riguardo:
1) che non è affatto contraddittoria l’affermazione, contenuta nella sentenza di primo grado, della necessità di un adeguamento del suindicato contributo rispetto a quello determinato (nella misura di lire 1.500.000 mensili) “in fase di provvedimenti provvisori”, atteso che, anzi, proprio il lasso di tempo intercorso tra l’epoca dei riferiti provvedimenti presidenziali (14 febbraio 1995) e l’epoca della decisione del Tribunale (12-30 novembre 1998), lungi dall’escluderlo, postulava semmai il riesame, sulla base della situazione “attuale”, vuoi delle condizioni economiche delle parti vuoi delle necessità delle figlie;
2) che a nulla rileva, quindi, secondo quanto ritenuto invece dalla Corte territoriale, né il fatto che tali necessità fossero “già state valutate al momento della pronuncia presidenziale”, né la considerazione, in termini assoluti, delle anzidette condizioni, occorrendo, piuttosto, a quest’ultimo riguardo, che il giudice di appello, al fine di dare adeguato fondamento alla decisione, avesse apprezzato le variazioni sopravvenute a far tempo dall’epoca degli indicati provvedimenti provvisori, così da accertare sia eventuali diminuzioni delle capacità economiche del marito sia eventuali incrementi di quelle della moglie.
Con il secondo e con il terzo motivo di impugnazione, del cui esame congiunto si palesa l’opportunità involgendo ambedue l’esame di questioni strettamente connesse, la ricorrente lamenta rispettivamente:
a) violazione e falsa applicazione degli artt. 19 Cost. e 143-147 c.c., nonché omessa, errata e contraddittoria motivazione circa un punto decisivo della controversia, deducendo che la Corte territoriale ha ritenuto l’insussistenza di valide ragioni per porre l’addebito della separazione a carico del C. sul rilievo che questo, nella scelta di appartenenza ad una confessione religiosa e nella conseguente rinuncia alla convivenza, ha esercitato un diritto costituzionalmente garantito, mentre, invece, il comportamento dello stesso C. costituisce palese violazione dei doveri coniugali imposti dall’art. 143 c.c.;
b) violazione e falsa applicazione dell’art. 116 c.p.c., nonché contraddittoria motivazione circa un punto decisivo della controversia, deducendo che la Corte territoriale, nel rigettare l’appello incidentale proposto dalla C., ha affermato che il C. non risulta avere posto in essere atti di per sé lesivi dei doveri coniugali e paterni, stanti le negative conclusioni in proposito della svolta c.t.u., laddove, in corso di causa, non è stata espletata alcuna consulenza di ufficio risultando la presenza in atti di una mera perizia di parte prodotta dal medesimo C., onde l’impugnata sentenza, oltre ad essere fondata sull’erroneo presupposto che sia stata disposta una simile consulenza, non è sufficientemente motivata dal momento che la stessa Corte ha ritenuto insussistenti i motivi di addebito indicati dalla moglie aderendo acriticamente alle conclusioni del consulente di parte e senza specificare le ragioni di tale adesione, laddove nella motivazione della sentenza sopra indicata non è fatto alcun cenno alle risultanze probatorie ed, in particolare, alle testimonianze assunte nel corso del giudizio, dalle quali emerge in tutta evidenza il comportamento contrario ai doveri di coniuge e di padre tenuto dal C..
I due motivi sono fondati.
Premesso, infatti, come non possano di per sé trovare ingresso le censure da ultimo illustrate difettando queste del necessario requisito dell’autosufficienza e non essendo stati, in particolare, riportati analiticamente nel ricorso gli elementi istruttori sopra accennati, si osserva tuttavia:
a) che la Corte territoriale, sulla base dell’incensurato apprezzamento di fatto secondo cui la “scelta di appartenenza ad una confessione religiosa” ha determinato (“conseguente”) “rinuncia alla convivenza” (onde, comunque, risulta intervenuta una simile “rinuncia”), è incorsa in violazione di legge là dove ha ritenuto di poter argomentare da ciò che “non sussistono… valide ragioni per porre l’addebito della separazione a carico del C.”, avendo quest’ultimo, in tal modo, “esercitato un diritto costituzionalmente garantito”, dal momento che il comportamento di un coniuge, consistente nel mutamento di fede religiosa e nella partecipazione alle pratiche collettive del nuovo culto, si connette all’esercizio dei diritti garantiti dall’art. 19 Cost. e, nonostante la sua inevitabile incidenza sull’armonia della coppia, non può essere considerato come ragione di addebito della separazione “se ed in quanto” non superi i limiti di compatibilità con i concorrenti doveri di coniuge e di genitore fissati dagli artt. 143 e 147 c.c. e non determini, quindi, con la violazione di tali doveri (come appunto quello della coabitazione di cui al secondo comma del richiamato art. 143), una situazione di improseguibilità della convivenza o di grave pregiudizio per la prole (Cassazione 4498/1985; 5397/1989);
b) che la medesima Corte è altresì incorsa nel denunziato vizio di motivazione, là dove ha preteso di ricavare la conclusione circa il fatto che il C. “non risulta avere posto in essere atti di per sé lesivi dei doveri coniugali e paterni” argomentando dalle “negative conclusioni in proposito della svolta c.t.u.” ovvero sulla base di un elemento (la “svolta c.t.u.” appunto) non altrimenti esplicitato quanto al suo reale contenuto e, comunque, specificatamente censurato dalla ricorrente quanto alla sua stessa raccolta in corso di causa.
Il ricorso, pertanto, merita accoglimento, onde la sentenza impugnata va cassata in relazione ai motivi accolti, con rinvio, anche ai fini delle spese del giudizio di cassazione, ad altra sezione della Corte di appello di Venezia, affinché detto giudice provveda a statuire sul gravame rimesso alla sua cognizione facendo applicazione, in punto di diritto, dei principi sopra enunciati ed esprimendo, in punto di fatto, apprezzamenti fondati sopra adeguata motivazione.
Da ultimo, vale notare come il controricorso del C., ritualmente e tempestivamente notificato e depositato, rechi delle specifiche “conclusioni subordinate” con le quali si chiede che questa Corte, “in caso di accoglimento del ricorso e di rinvio” voglia addivenire alla cassazione parziale della pronuncia del giudice di appello stabilendo che la somma dovuta a titolo di mantenimento, se meramente adeguata, sia dovuta dalla sentenza e soggetta a rivalutazione, priva di effetto retroattivo, a partire da una data successiva alla sentenza medesima.
Appare, quindi, palese come, da parte del C. stesso, sia stato in realtà proposto, assieme al controricorso, un ricorso incidentale condizionato, il quale, ancorché non risulti formalmente iscritto a ruolo, deve essere ugualmente esaminato, stante l’accoglimento del ricorso della C., cui va evidentemente riconosciuta natura sostanziale di ricorso principale, dichiarandosene peraltro l’assorbimento, dal momento che involge una questione, come sopra illustrata, la quale dipende da quella che forma oggetto del primo motivo del ricorso della medesima Cadei e dalle relative statuizioni che, sul punto, riterrà di adottare il giudice del rinvio, cui, pertanto, siffatta questione potrà essere nuovamente sottoposta.
P.Q.M.
La Corte accoglie il ricorso, cassa la sentenza impugnata in relazione ai motivi accolti e rinvia, anche ai fini delle spese del giudizio di cassazione, ad altra sezione della Corte di appello di Venezia.
Autore:
Corte di Cassazione - Civile
Dossier:
Libertà religiosa
Nazione:
Italia
Parole chiave:
Affidamento, Mutamento, Doveri coniugali, Figlie, Esaltazione religiosa, Addebitabilità, Setta, Fede religiosa, Violazione, Confessione religiosa, Matrimonio, Convivenza, Appartenenza, Separazione, Culto
Natura:
Sentenza