Osservatorio delle libertà ed istituzioni religiose

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Osservatorio delle Libertà ed Istituzioni Religiose

Documenti • 18 Ottobre 2012

Sentenza 05 settembre 2012

Corte di Giustizia dell'Unione Europea. Grande Sezione: "Concessione dello status di rifugiato nel caso di persecuzioni per motivi religiosi".

Nelle cause riunite C‑71/11 e C‑99/11,
aventi ad oggetto le domande di pronuncia pregiudiziale proposte alla Corte, ai sensi dell’articolo 267 TFUE, dal Bundesverwaltungsgericht (Germania), con decisioni del 9 dicembre 2010, pervenute in cancelleria, rispettivamente, il 18 febbraio ed il 2 marzo 2011, nei procedimenti
Bundesrepublik Deutschland
contro
Y (C‑71/11),
Z (C‑99/11),
con l’intervento di:
Vertreter des Bundesinteresses beim Bundesverwaltungsgericht,
Bundesbeauftragter für Asylangelegenheiten beim Bundesamt für Migration und Flüchtlinge,
LA CORTE (Grande Sezione),
composta dal sig. V. Skouris, presidente, dai sigg. A. Tizzano, J. N. Cunha Rodrigues, K. Lenaerts e J.-C. Bonichot, presidenti di sezione, dal sig. A. Rosas, dalla sig.ra R. Silva de Lapuerta, dai sigg. E. Levits, A. Ó Caoimh, L. Bay Larsen (relatore), T. von Danwitz, A. Arabadjiev e C. G. Fernlund, giudici,
avvocato generale: sig. Y. Bot
cancelliere: sig.ra L. Hewlett, amministratore principale
vista la fase scritta del procedimento e in seguito all’udienza del 28 febbraio 2012,
considerate le osservazioni presentate:
–        per Y e Z, da C. Borschberg e R. Marx, Rechtsanwälte;
–        per il governo tedesco, da T. Henze, N. Graf Vitzthum e K. Petersen, in qualità di agenti;
–        per il governo francese, da G. de Bergues e B. Beaupère-Manokha, in qualità di agenti;
–        per il governo olandese, da C. M. Wissels e B. Koopman, in qualità di agenti;
–        per la Commissione europea, da M. Condou-Durande e W. Bogensberger, in qualità di agenti,
sentite le conclusioni dell’avvocato generale, presentate all’udienza del 19 aprile 2012,
ha pronunciato la seguente
Sentenza
        Le domande di pronuncia pregiudiziale vertono sull’interpretazione degli articoli 2, lettera c), e 9, paragrafo 1, lettera a), della direttiva 2004/83/CE del Consiglio, del 29 aprile 2004, recante norme minime sull’attribuzione, a cittadini di paesi terzi o apolidi, della qualifica di rifugiato o di persona altrimenti bisognosa di protezione internazionale, nonché norme minime sul contenuto della protezione riconosciuta (GU L 304, pag. 12; in prosieguo: la «direttiva»).
        Tali domande sono state presentate nell’ambito di controversie che vedono la Bundesrepublik Deutschland (Repubblica federale di Germania) – rappresentata dal Bundesministerium des Innern (Ministero federale degli Interni), a sua volta rappresentato dal Bundesamt für Migration und Flüchtlinge (Ufficio federale per la migrazione e i rifugiati; in prosieguo: il «Bundesamt») – opposta a Y e Z, cittadini pachistani, relativamente al rigetto da parte del Bundesamt delle domande di asilo e di riconoscimento dello status di rifugiato presentate da questi ultimi.
 Contesto normativo
 Il diritto internazionale
 La Convenzione relativa allo status dei rifugiati
        La Convenzione relativa allo status dei rifugiati, firmata a Ginevra il 28 luglio 1951 [Recueil des traités des Nations unies, vol. 189, pag. 150, n. 2545 (1954)], è entrata in vigore il 22 aprile 1954. Essa è stata completata dal protocollo relativo allo status dei rifugiati, concluso a New York il 31 gennaio 1967, entrato in vigore il 4 ottobre 1967 (in prosieguo: la «Convenzione di Ginevra»).
        Ai sensi dell’articolo 1, sezione A, paragrafo 2, primo comma, della Convenzione di Ginevra, il termine «rifugiato» si applica a chiunque, «temendo a ragione di essere perseguitato per motivi di razza, religione, nazionalità, appartenenza ad un determinato gruppo sociale o per le sue opinioni politiche, si trova fuori dal Paese di cui è cittadino e non può o non vuole, a causa di questo timore, avvalersi della protezione di questo Paese; oppure [a chiunque], non avendo la cittadinanza e trovandosi fuori dal Paese in cui aveva residenza abituale a seguito di tali avvenimenti, non può o non vuole tornarvi per il timore di cui sopra».
 La Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali
        La Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, firmata a Roma il 4 novembre 1950 (in prosieguo: la «CEDU»), all’articolo 9, intitolato «Libertà di pensiero, di coscienza e di religione», prevede quanto segue:
«1.      Ogni persona ha diritto alla libertà di pensiero, di coscienza e di religione; tale diritto include la libertà di cambiare religione o credo, così come la libertà di manifestare la propria religione o il proprio credo individualmente o collettivamente, in pubblico o in privato, mediante il culto, l’insegnamento, le pratiche e l’osservanza dei riti.
2.      La libertà di manifestare la propria religione o il proprio credo non può essere oggetto di restrizioni diverse da quelle che sono stabilite dalla legge e che costituiscono misure necessarie, in una società democratica, alla pubblica sicurezza, alla protezione dell’ordine, della salute o della morale pubblica, o alla protezione dei diritti e della libertà altrui».
        L’articolo 15 della CEDU, intitolato «Deroga in caso di stato d’urgenza», così recita:
«1.      In caso di guerra o in caso di altro pericolo pubblico che minacci la vita della nazione, ogni Alta Parte contraente può adottare delle misure in deroga agli obblighi previsti dalla presente Convenzione, nella stretta misura in cui la situazione lo richieda e a condizione che tali misure non siano in conflitto con gli altri obblighi derivanti dal diritto internazionale.
2.      La disposizione precedente non autorizza alcuna deroga all’articolo 2 [“Diritto alla vita”], salvo il caso di decesso causato da legittimi atti di guerra, e agli articoli 3 [“Proibizione della tortura”], 4 § 1 [“Proibizione della schiavitù”] e 7 [“Nulla poena sine lege”].
(…)».
 Il diritto dell’Unione
 La Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea
        L’articolo 10 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (in prosieguo: la «Carta»), rubricato «Libertà di pensiero, di coscienza e di religione», contiene un paragrafo 1 redatto in termini identici a quelli dell’articolo 9, paragrafo 1, della CEDU.
        I diritti per i quali, a norma dell’articolo 15, paragrafo 2, della CEDU, non è autorizzata alcuna deroga sono sanciti agli articoli 2, 4, 5, paragrafo 1, e 49 della Carta.
 La direttiva
        Ai sensi del considerando 3 della direttiva, la Convenzione di Ginevra costituisce la pietra angolare della disciplina giuridica internazionale relativa alla protezione dei rifugiati.
      Come emerge dal considerando 10 della direttiva, letto alla luce dell’articolo 6, paragrafo 1, TUE, essa rispetta i diritti, le libertà ed i principi enunciati dalla Carta. Essa mira in particolare ad assicurare, sul fondamento degli articoli 1 e 18 della Carta, il pieno rispetto della dignità umana e il diritto di asilo dei richiedenti asilo.
      I considerando 16 e 17 della direttiva sono così formulati:
«(16) Dovrebbero essere stabilite norme minime per la definizione ed il contenuto dello status di rifugiato, al fine di orientare le competenti autorità nazionali degli Stati membri nell’applicazione della convenzione di Ginevra.
(17)      È necessario introdurre dei criteri comuni per l’attribuzione ai richiedenti asilo della qualifica di rifugiati ai sensi dell’articolo 1 della convenzione di Ginevra».
      Ai sensi del suo articolo 1, la direttiva ha lo scopo di stabilire norme minime, da un lato, sull’attribuzione ai cittadini di paesi terzi o apolidi della qualifica di beneficiario di protezione internazionale e, dall’altro, sul contenuto della protezione riconosciuta.
      A tenore dell’articolo 2 della direttiva, ai fini della stessa si intende per:
«a) “protezione internazionale”: lo status di rifugiato e di protezione sussidiaria quale definito alle lettere d) e f);
(…)
c)      “rifugiato”: cittadino di un paese terzo il quale, per il timore fondato di essere perseguitato per motivi di razza, religione, nazionalità, opinione politica o appartenenza ad un determinato gruppo sociale, si trova fuori dal paese di cui ha la cittadinanza e non può o, a causa di tale timore, non vuole avvalersi della protezione di detto paese (…);
d)      “status di rifugiato”: il riconoscimento, da parte di uno Stato membro, di un cittadino di un paese terzo o di un apolide quale rifugiato;
(…)».
      L’articolo 3 della direttiva consente agli Stati membri di introdurre o mantenere in vigore disposizioni più favorevoli in ordine alla determinazione dei soggetti che possono essere considerati rifugiati nonché in ordine alla definizione degli elementi sostanziali della protezione internazionale, purché siano compatibili con le disposizioni della direttiva.
      L’articolo 4 della direttiva, figurante al Capo II della stessa, intitolato «Valutazione delle domande di protezione internazionale», definisce le condizioni per l’esame dei fatti e delle circostanze e dispone, al paragrafo 3, quanto segue:
«L’esame della domanda di protezione internazionale deve essere effettuato su base individuale e prevede la valutazione:
a)      di tutti i fatti pertinenti che riguardano il paese d’origine al momento dell’adozione della decisione in merito alla domanda, comprese le disposizioni legislative e regolamentari del paese d’origine e relative modalità di applicazione;
b)      della dichiarazione e della documentazione pertinenti presentate dal richiedente che deve anche render noto se ha già subito o rischia di subire persecuzioni (…)
c)      della situazione individuale e delle circostanze personali del richiedente, in particolare l’estrazione, il sesso e l’età, al fine di valutare se, in base alle circostanze personali del richiedente, gli atti a cui è stato o potrebbe essere esposto si configurino come persecuzione (…);
(…)».
      A norma dell’articolo 4, paragrafo 4, della direttiva, il fatto che un richiedente abbia già subito persecuzioni o minacce dirette di siffatte persecuzioni costituisce «un serio indizio della fondatezza del timore del richiedente di subire persecuzioni» a meno che vi siano buoni motivi per ritenere che tali persecuzioni non si ripeteranno.
      L’articolo 6 della direttiva, figurante al citato Capo II ed intitolato «Responsabili della persecuzione o del danno grave», stabilisce quanto segue:
«I responsabili della persecuzione o del danno grave possono essere:
a)      lo Stato;
b)      i partiti o le organizzazioni che controllano lo Stato o una parte consistente del suo territorio;
c)      soggetti non statuali, se può essere dimostrato che i responsabili di cui alle lettere a) e b), comprese le organizzazioni internazionali, non possono o non vogliono fornire protezione contro persecuzioni o danni gravi come definito all’articolo 7».
      L’articolo 9, paragrafi 1 e 2, della direttiva, contenuto nel Capo III di quest’ultima e rubricato «Requisiti per essere considerato rifugiato», definisce gli atti di persecuzione nei seguenti termini:
«1.      Gli atti di persecuzione ai sensi dell’articolo 1A della convenzione di Ginevra devono:
a)      essere sufficientemente gravi, per loro natura o frequenza, da rappresentare una violazione grave dei diritti umani fondamentali, in particolare dei diritti per cui qualsiasi deroga è esclusa a norma dell’articolo 15, paragrafo 2, della [CEDU]; oppure
b)      costituire la somma di diverse misure, tra cui violazioni dei diritti umani, il cui impatto sia sufficientemente grave da esercitare sulla persona un effetto analogo a quello di cui alla lettera a).
2.      Gli atti di persecuzione che rientrano nella definizione di cui al paragrafo 1 possono, tra l’altro, assumere la forma di:
a)      atti di violenza fisica o psichica (…);
b)      provvedimenti legislativi, amministrativi, di polizia e/o giudiziari, discriminatori per loro stessa natura o attuati in modo discriminatorio;
c)      azioni giudiziarie o sanzioni penali sproporzionate o discriminatorie;
(…)».
      L’articolo 9, paragrafo 3, della direttiva richiede che esista un collegamento tra i motivi di persecuzione di cui all’articolo 10 di essa e tali atti di persecuzione.
      L’articolo 10 della direttiva, rubricato «Motivi di persecuzione» e anch’esso contenuto nel Capo III di quest’ultima, al paragrafo 1 prevede quanto segue:
«Nel valutare i motivi di persecuzione, gli Stati membri tengono conto dei seguenti elementi:
(…)
b)      il termine “religione” include, in particolare, le convinzioni teiste, non teiste e ateiste, la partecipazione a, o l’astensione da, riti di culto celebrati in privato o in pubblico, sia singolarmente sia in comunità, altri atti religiosi o professioni di fede, nonché le forme di comportamento personale o sociale fondate su un credo religioso o da esso prescritte.
(…)».
      Ai sensi dell’articolo 13 della direttiva, lo Stato membro riconosce lo status di rifugiato al richiedente che soddisfa, in particolare, i requisiti previsti dagli articoli 9 e 10 della direttiva.
 Il diritto tedesco
      L’articolo 16 bis, paragrafo 1, della legge fondamentale (Grundgesetz) dispone quanto segue:
«I perseguitati politici beneficiano del diritto di asilo».
      L’articolo 1 della legge sulla procedura d’asilo (Asylverfahrensgesetz), nella versione pubblicata il 2 settembre 2008 (BGBl. 2008 I, pag. 1798; in prosieguo: l’«AsylVfG»), dispone che tale legge si applica agli stranieri che chiedono protezione in quanto perseguitati politici ai sensi dell’articolo 16 bis, paragrafo 1, della legge fondamentale o la protezione contro le persecuzioni ai sensi della Convenzione di Ginevra.
      L’articolo 2 dell’AsylVfG prevede che i beneficiari del diritto d’asilo godano, nel territorio nazionale, dello status definito dalla Convenzione di Ginevra.
      Lo status di rifugiato era inizialmente disciplinato dall’articolo 51 della legge sull’ingresso e sul soggiorno degli stranieri nel territorio federale (Gesetz über die Einreise und den Aufenthalt von Ausländern im Bundesgebiet).
      Con la legge che recepisce le direttive dell’Unione europea in materia di diritto di soggiorno e d’asilo (Gesetz zur Umsetzung aufenthalts- und asylrechtlicher Richtlinien der Europäischen Union), del 19 agosto 2007 (BGBl. 2007 I, pag. 1970), entrata in vigore il 28 agosto 2007, la Repubblica federale di Germania ha trasposto, fra le altre, la direttiva.
      Attualmente i requisiti per essere considerato rifugiato sono sanciti all’articolo 3 dell’AsylVfG. Ai sensi del paragrafo 1 di tale articolo:
«Uno straniero è un rifugiato a norma della [Convenzione di Ginevra] se è esposto a minacce ai sensi dell’articolo 60, paragrafo 1, della legge [in materia di soggiorno, lavoro e integrazione degli stranieri nel territorio federale (Gesetz über den Aufenthalt, die Erwerbstätigkeit und die Integration von Ausländern im Bundesgebiet), nella versione pubblicata il 25 febbraio 2008 (BGBl. 2008 I, pag. 162; in prosieguo: l’«Aufenthaltsgesetz»)] nello Stato di cui è cittadino (…)».
      L’articolo 60, paragrafo 1, prima e quinta frase, dell’Aufenthaltsgesetz, così recita:
«In applicazione della Convenzione [di Ginevra], uno straniero non può essere accompagnato coattivamente alla frontiera verso uno Stato nel quale la sua vita o la sua libertà siano minacciate a causa della sua razza, religione, cittadinanza, appartenenza ad un determinato gruppo sociale o per le sue opinioni politiche. (…) Per valutare se si configuri una persecuzione ai sensi della prima frase, occorre applicare (…) in modo complementare l’articolo 4, paragrafo 4, e gli articoli 7‑10 della [direttiva] (…)».
 Procedimenti principali e questioni pregiudiziali
      Rispettivamente nel gennaio 2004 e nell’agosto 2003 Y e Z hanno fatto ingresso in Germania, paese in cui hanno richiesto asilo e protezione in qualità di rifugiati.
      A sostegno delle rispettive domande essi hanno addotto che la loro appartenenza alla comunità musulmana Ahmadiyya, movimento riformatore dell’Islam, li ha costretti a lasciare il loro paese d’origine. A tale riguardo, in particolare Y ha affermato che nel suo villaggio d’origine un gruppo di individui lo ha ripetutamente picchiato e gli ha lanciato pietre nel luogo di preghiera, e che queste persone lo hanno minacciato di morte e denunciato presso gli organi di polizia per aver insultato il nome del profeta Maometto. Z ha dichiarato di essere stato maltrattato e detenuto a causa del suo credo religioso.
      Dalle decisioni di rinvio risulta che l’articolo 298 C del codice penale pakistano dispone che i membri della comunità Ahmadiyya sono passibili di una pena fino a tre anni di reclusione o di una pena pecuniaria se affermano di essere musulmani, qualificano come Islam la loro fede, pregano o propagano la loro religione o se cercano proseliti. Peraltro, a norma dell’articolo 295 C di detto codice penale, chiunque oltraggia il nome del profeta Maometto può essere punito con la pena di morte o l’ergastolo oltre a una pena pecuniaria.
      Con decisioni del 4 maggio e dell’8 luglio 2004 il Bundesamt ha respinto le domande di asilo di Y e di Z in quanto non fondate e ha dichiarato che non erano integrati i requisiti per ottenere lo status di rifugiato.
      In queste decisioni, il Bundesamt ha inoltre statuito che nel diritto nazionale nulla ostava all’espulsione di Y e di Z verso il Pakistan e li ha dichiarati passibili di espulsione verso tale Stato. A motivazione di tali decisioni, il Bundesamt ha sostanzialmente addotto che non sussistevano elementi sufficienti per affermare che i richiedenti avessero lasciato il loro paese d’origine per il fondato timore di essere ivi perseguitati.
      Y ha proposto ricorso dinanzi al Verwaltungsgericht Leipzig (Tribunale amministrativo di Lipsia), il quale, con sentenza del 18 maggio 2007, ha annullato la decisione resa dal Bundesamt nei suoi confronti e ha ingiunto a quest’ultima autorità di dichiarare che egli, in quanto rifugiato, soddisfaceva le condizioni per un divieto di espulsione verso il Pakistan.
      Z ha impugnato la decisione del Bundesamt dinanzi al Verwaltungsgericht Dresden (Tribunale amministrativo di Dresda). Con sentenza del 13 luglio 2007, quest’ultimo ha respinto il suo ricorso considerando che egli non aveva lasciato il suo paese d’origine per il fondato timore di persecuzioni.
      Con sentenze del 13 novembre 2008 il Sächsisches Oberverwaltungsgericht (Corte d’appello amministrativa del Land Sassonia) ha, rispettivamente:
–      respinto il ricorso presentato dal Bundesbeauftragter für Asylangelegenheiten (Commissario federale per l’asilo; in prosieguo: il «Bundesbeauftragter») contro la sentenza pronunciata in primo grado nella causa relativa a Y e,
–      a seguito del ricorso proposto da Z contro la sentenza di primo grado che lo riguardava, riformato quest’ultima e ingiunto al Bundesamt di statuire che Z soddisfaceva i requisiti dell’articolo 60, paragrafo 1, dell’Aufenthaltsgesetz e che pertanto era vietato espellerlo verso il Pakistan, in quanto rifugiato.
      Tale giudice ha considerato, in particolare, che il punto rilevante non era tanto che Y e Z fossero stati personalmente minacciati di persecuzione prima della loro partenza dal Pakistan, quanto piuttosto che, quali ahmadi attivi, in Pakistan essi si troverebbero in ogni caso esposti al rischio di persecuzione collettiva ai sensi dell’articolo 60, paragrafo 1, dell’Aufenthaltsgesetz.
      In caso di ritorno in Pakistan, difatti, essi non potrebbero continuare a praticare la loro religione in pubblico senza correre il rischio di essere perseguitati, elemento di cui occorre tener conto ai fini di una procedura d’asilo volta a determinare se debba essere loro riconosciuto lo status di rifugiato.
      Nelle sentenze del 13 novembre 2008 il Sächsisches Oberverwaltungsgericht considera che in Pakistan, per un ahmadi strettamente osservante e il cui credo implica in particolare di vivere la propria fede pubblicamente, la situazione esistente in tale Stato costituisca una grave violazione della libertà di religione. In considerazione delle pene molto severe comminate, nonché delle numerose aggressioni perpetrate indisturbatamente da gruppi estremisti, il buon senso suggerirebbe ad un ahmadi di astenersi dalla pratica in pubblico della propria fede.
      Stando a quanto accertato dal Sächsisches Oberverwaltungsgericht, Y e Z sono fortemente legati alla propria fede e, in Pakistan, l’hanno vissuta in maniera attiva. In Germania essi continuano a praticare la propria fede e considerano l’esercizio del culto in pubblico necessario per conservare la propria identità religiosa.
      Il Bundesamt ed il Bundesbeauftragter hanno impugnato tali sentenze in cassazione («Revision») dinanzi al Bundesverwaltungsgericht (Corte amministrativa federale), asserendo che il giudice d’appello ha interpretato la sfera d’applicazione degli articoli 9 e 10, paragrafo 1, lettera b), della direttiva in maniera eccessivamente estensiva.
      Rifacendosi alla giurisprudenza vigente in Germania prima che nel 2007 fosse trasposta la direttiva, giurisprudenza secondo cui l’esistenza di una persecuzione rilevante ai fini del diritto di asilo era riconosciuta solo in caso di ingerenze nel «nucleo essenziale» della libertà religiosa, ma non in caso di restrizioni della pratica della religione in pubblico, essi sostengono che le restrizioni imposte agli ahmadi in Pakistan, che colpiscono la pratica della loro fede in pubblico, non rappresentano una violazione di detto «nucleo essenziale».
      Peraltro, secondo il Bundesamt ed il Bundesbeauftragter, gli accertamenti del Sächsiches Oberverwaltungsgericht sulle modalità con cui Y e Z praticano la propria religione in Germania non consentono di dimostrare che per essi sono irrinunciabili talune pratiche non riconducibili al «nucleo essenziale» dell’esercizio del culto.
      A detta del giudice del rinvio, le cause di cui è investito vertono su quali siano le concrete violazioni della libertà di religione ai sensi dell’articolo 9 della CEDU che possono comportare il riconoscimento dello status di rifugiato ai sensi dell’articolo 2, lettera d), della direttiva. Pur ritenendo che le lesioni della libertà di religione possano costituire una «violazione grave» dei diritti umani fondamentali ai sensi dell’articolo 9, paragrafo 1, lettera a), della direttiva, esso dubita che lesioni della libertà religiosa diverse da quelle che intaccano gli elementi essenziali dell’identità religiosa dell’interessato possano giustificare la supposizione di una persecuzione rilevante ai fini del conferimento dello status di rifugiato.
      Ciò premesso, il Bundesverwaltungsgericht ha deciso di sospendere il procedimento e di sottoporre alla Corte le seguenti questioni pregiudiziali, formulate in termini pressoché identici in ciascuna delle cause C‑71/11 e C‑99/11:
«1)       Se l’articolo 9, paragrafo 1, lettera a), della direttiva (…) debba essere interpretato nel senso che non è necessariamente ravvisabile un atto di persecuzione nell’accezione della succitata norma in qualunque lesione della libertà di religione che costituisca una violazione dell’articolo 9 della CEDU, e che invece una violazione grave della libertà di religione quale diritto umano fondamentale sussista solo quando ne sia colpito il nucleo essenziale.
2)       Nel caso in cui la questione sub 1) debba essere risolta affermativamente:
a)       Se il nucleo essenziale della libertà di religione sia circoscritto alla professione del proprio credo e alle pratiche religiose nell’ambito domestico e di vicinato, o se sia ravvisabile un atto di persecuzione ai sensi dell’articolo 9, paragrafo 1, lettera a), della direttiva (…) anche nel fatto che nel paese di origine l’esercizio della fede in pubblico comporta un pericolo per l’incolumità, la vita o la libertà fisica e il richiedente vi rinuncia per tali ragioni.
b)       Qualora il nucleo essenziale della libertà di religione possa comprendere anche talune pratiche religiose svolte in pubblico:
–        se, in questo caso, ai fini di una grave violazione della libertà di religione, sia sufficiente che il richiedente percepisca la suddetta pratica della fede come irrinunciabile al fine di preservare la propria identità religiosa;
–        o se, in aggiunta, sia necessario che la comunità religiosa cui il richiedente appartiene consideri la suddetta pratica come un elemento centrale della propria dottrina religiosa;
–        o se ulteriori restrizioni possano risultare da altre circostanze, ad esempio dalla situazione generale nel paese di origine.
3)       Nel caso in cui la questione sub 1) debba essere risolta affermativamente:
      Se sussista un timore fondato di essere perseguitato nell’accezione dell’articolo 2, lettera c), della direttiva (…), qualora sia accertato che il richiedente, una volta tornato nel paese di origine, compirà talune pratiche religiose – esulanti dal nucleo essenziale della libertà di religione – sebbene queste comportino un pericolo per la sua incolumità, vita o libertà fisica, oppure se ci si possa ragionevolmente aspettare che il richiedente rinunci a tali pratiche».
      Con ordinanza del presidente della Corte del 24 marzo 2011, le cause C‑71/11 e C‑99/11 sono state riunite ai fini della fase scritta e orale nonché della sentenza.
 Sulle questioni pregiudiziali
 Osservazioni preliminari
      Dai considerando 3, 16 e 17 della direttiva risulta che la Convenzione di Ginevra costituisce la pietra angolare della disciplina giuridica internazionale relativa alla protezione dei rifugiati e che le disposizioni della direttiva relative alle condizioni per il riconoscimento dello status di rifugiato nonché al contenuto del medesimo sono state adottate al fine di aiutare le autorità competenti degli Stati membri ad applicare detta Convenzione basandosi su nozioni e criteri comuni (sentenze del 2 marzo 2010, Salahadin Abdulla e a., C‑175/08, C‑176/08, C‑178/08 e C‑179/08, Racc. pag. I‑1493, punto 52, nonché del 17 giugno 2010, Bolbol, C‑31/09, Racc. pag. I‑5539, punto 37).
      L’interpretazione delle disposizioni della direttiva deve pertanto essere effettuata alla luce dell’impianto sistematico e della finalità di quest’ultima, nel rispetto della Convenzione di Ginevra e degli altri trattati pertinenti di cui all’articolo 78, paragrafo 1, TFUE. Come risulta dal considerando 10 della direttiva, tale interpretazione deve essere operata anche nel rispetto dei diritti riconosciuti dalla Carta (v., in questo senso, sentenze Salahadin Abdulla e a., cit., punti 53 e 54, Bolbol, cit., punto 38, nonché del 21 dicembre 2011, N. S. e a., C‑411/10 e C‑493/10, non ancora pubblicata nella Raccolta, punto 75).
 Sulla prima e sulla seconda questione
      Con le prime due questioni in ciascuna causa, che occorre esaminare congiuntamente, il giudice del rinvio chiede, in sostanza, se l’articolo 9, paragrafo 1, lettera a), della direttiva debba essere interpretato nel senso che qualsiasi violazione del diritto alla libertà di religione che leda l’articolo 10, paragrafo 1, della Carta sia idonea a configurare un «atto di persecuzione» ai sensi di tale disposizione della direttiva e se occorra tracciare una distinzione in proposito tra un «nucleo essenziale» della libertà di religione e la sua manifestazione esteriore.
      A questo riguardo va ricordato che, secondo il dettato dell’articolo 2, lettera c), della direttiva, il «rifugiato» è, in particolare, un cittadino di un paese terzo che si trova fuori dal paese di cui ha la cittadinanza «per il timore fondato di essere perseguitato» per motivi di razza, religione, nazionalità, opinione politica o appartenenza ad un determinato gruppo sociale e non può o, «a causa di tale timore», non vuole avvalersi della «protezione» di detto paese.
      Il cittadino in questione, quindi, a causa delle circostanze esistenti nel suo paese di origine e del comportamento dei responsabili delle persecuzioni, deve trovarsi di fronte al fondato timore di una persecuzione contro la sua persona per almeno uno dei cinque motivi elencati nella direttiva e nella Convenzione di Ginevra, tra i quali si annovera la sua «religione».
      Conformemente all’articolo 13 della direttiva, lo Stato membro interessato concede lo status di rifugiato al richiedente se quest’ultimo soddisfa i requisiti previsti, segnatamente, agli articoli 9 e 10 della stessa.
      L’articolo 9 della direttiva definisce gli elementi che consentono di considerare degli atti come una persecuzione. Al riguardo, l’articolo 9, paragrafo 1, lettera a), della direttiva, richiamato dal giudice del rinvio nelle prime due questioni, precisa che gli atti pertinenti devono essere «sufficientemente gravi», per la loro natura o la loro reiterazione, da rappresentare una «violazione grave dei diritti umani fondamentali», in particolare dei diritti assoluti per i quali, in forza dell’articolo 15, paragrafo 2, della CEDU, non è ammessa deroga.
      Peraltro, l’articolo 9, paragrafo 1, lettera b), della direttiva precisa che deve essere considerata una persecuzione anche la somma di diverse misure, comprese le violazioni dei diritti umani, che sia «sufficientemente grave» da esercitare sulla persona un effetto «analogo» a quello indicato all’articolo 9, paragrafo 1, lettera a), della direttiva.
      L’articolo 9, paragrafo 3, della direttiva aggiunge che i motivi di persecuzione, tra cui quello della «religione» definito all’articolo 10, paragrafo 1, lettera b), della stessa, devono essere collegati agli atti di persecuzione.
      Il diritto alla libertà di religione sancito dall’articolo 10, paragrafo 1, della Carta corrisponde al diritto garantito dall’articolo 9 della CEDU.
      La libertà di religione rappresenta uno dei cardini di una società democratica e costituisce un diritto umano fondamentale. La violazione del diritto alla libertà di religione può presentare una gravità tale da essere assimilata ai casi contemplati all’articolo 15, paragrafo 2, della CEDU, cui fa riferimento, a titolo indicativo, l’articolo 9, paragrafo 1, della direttiva per determinare quali atti in particolare devono essere considerati alla stregua di una persecuzione.
      Tuttavia, ciò non significa affatto che qualsiasi violazione del diritto alla libertà di religione garantito dall’articolo 10, paragrafo 1, della Carta costituisca un atto di persecuzione che obblighi le autorità competenti a concedere alla vittima di tale violazione lo status di rifugiato ai sensi dell’articolo 2, lettera d), della direttiva.
      Al contrario, dal disposto dell’articolo 9, paragrafo 1, della direttiva si evince che, affinché gli atti in questione possano essere considerati una persecuzione, occorre una «violazione grave» di detta libertà che colpisca l’interessato in modo significativo.
      Pertanto, sono senz’altro esclusi gli atti che costituiscono limitazioni previste dalla legge all’esercizio del diritto fondamentale alla libertà di religione ai sensi dell’articolo 10, paragrafo 1, della Carta, e che, pur tuttavia, non violano tale diritto in quanto coperti dall’articolo 52, paragrafo 1, della Carta.
      Non possono essere considerati persecuzioni nell’accezione dell’articolo 9, paragrafo 1, della direttiva e dell’articolo 1 A della Convenzione di Ginevra neppure gli atti che, pur violando il diritto riconosciuto all’articolo 10, paragrafo 1, della Carta, non presentano una gravità pari a quella della violazione dei diritti umani fondamentali inderogabili in forza dell’articolo 15, paragrafo 2, della CEDU.
      Per individuare in concreto quali siano gli atti che possono essere considerati una persecuzione nell’accezione dell’articolo 9, paragrafo 1, lettera a), della direttiva, non è pertinente distinguere tra gli atti che ledono un «nucleo essenziale» («forum internum») del diritto fondamentale alla libertà di religione, che non comprenderebbe le pratiche religiose in pubblico («forum externum»), e quelli che non incidono su tale presunto «nucleo essenziale».
      Questa distinzione non è compatibile con la definizione estensiva della nozione di «religione» che la direttiva fornisce all’articolo 10, paragrafo 1, lettera b), integrandovi il complesso delle sue componenti, siano esse pubbliche o private, collettive o individuali. Gli atti che possono costituire una «violazione grave» ai sensi dell’articolo 9, paragrafo 1, lettera a), della direttiva comprendono atti gravi che colpiscono la libertà del richiedente non solo di praticare il proprio credo privatamente, ma anche di viverlo pubblicamente.
      Questa interpretazione è idonea ad attribuire all’articolo 9, paragrafo 1, della direttiva una sfera di applicazione entro la quale le autorità competenti possono valutare qualsiasi tipo di atto lesivo del diritto fondamentale alla libertà di religione onde determinare se, alla luce della sua natura o reiterazione, esso risulti sufficientemente grave da essere considerato una persecuzione.
      Se ne evince che gli atti i quali, a causa della loro intrinseca gravità unitamente alla gravità della loro conseguenza per la persona interessata, possono essere considerati persecuzione devono essere individuati non in funzione dell’elemento della libertà di religione che viene leso, bensì della natura della repressione esercitata sull’interessato e delle conseguenze di quest’ultima, come rilevato dall’avvocato generale al paragrafo 52 delle conclusioni.
      Pertanto, è la gravità delle misure e delle sanzioni adottate, o che potrebbero essere adottate, nei confronti dell’interessato che determinerà se una violazione del diritto garantito dall’articolo 10, paragrafo 1, della Carta costituisca una persecuzione ai sensi dell’articolo 9, paragrafo 1, della direttiva.
      Di conseguenza, una violazione del diritto alla libertà di religione può costituire una persecuzione a norma dell’articolo 9, paragrafo 1, lettera a), della direttiva quando il richiedente asilo, a causa dell’esercizio di tale libertà nel paese d’origine, corre un rischio effettivo, in particolare, di essere perseguitato, o di essere sottoposto a trattamenti o a pene disumani o degradanti ad opera di uno dei soggetti indicati all’articolo 6 della direttiva.
      Al riguardo occorre precisare che, quando un’autorità competente procede all’esame su base individuale di una domanda di protezione internazionale, ex articolo 4, paragrafo 3, della direttiva, essa è tenuta a prendere in considerazione tutti gli atti ai quali il richiedente è stato, o rischia di essere, esposto per determinare se, alla luce della sua situazione personale, tali atti possano essere considerati una persecuzione ai sensi dell’articolo 9, paragrafo 1, della direttiva.
      Dato che la nozione di «religione» definita all’articolo 10, paragrafo 1, lettera b), della direttiva abbraccia anche la partecipazione a cerimonie pubbliche di culto, singolarmente o in comunità, il divieto di siffatta partecipazione può costituire un atto sufficientemente grave ai sensi dell’articolo 9, paragrafo 1, lettera a), della direttiva e, quindi, una persecuzione, qualora nel paese d’origine in questione esso comporti un rischio effettivo in capo al richiedente, in particolare, di essere perseguitato o di essere sottoposto a trattamenti o a pene disumani o degradanti ad opera di uno dei soggetti indicati all’articolo 6 della direttiva.
      La valutazione di un tale rischio implicherà che l’autorità competente tenga conto di una serie di elementi sia oggettivi sia soggettivi. La circostanza soggettiva che l’osservanza di una determinata pratica religiosa in pubblico, colpita dalle restrizioni contestate, sia particolarmente importante per l’interessato al fine di conservare la sua identità religiosa costituisce un elemento pertinente nella valutazione del livello di rischio che il richiedente corre nel suo paese d’origine a causa della sua religione, quand’anche l’osservanza di siffatta pratica religiosa non costituisca un elemento centrale per la comunità religiosa in oggetto.
      Dal disposto dell’articolo 10, paragrafo 1, lettera b), della direttiva si evince infatti che l’ambito di tutela del motivo di persecuzione collegato alla religione comprende tanto le forme di comportamento personale o in comunità che la persona ritiene necessarie per se stessa, ossia quelle «fondate su un credo religioso», quanto quelle imposte dalla dottrina religiosa, ossia quelle «prescritte [dal credo religioso]».
      Alla luce del complesso delle considerazioni sin qui svolte, occorre rispondere alla prima e alla seconda delle questioni sottoposte in ciascuna delle due cause dichiarando che l’articolo 9, paragrafo 1, lettera a), della direttiva deve essere interpretato nel senso che:
–        non è ravvisabile un «atto di persecuzione», nell’accezione di detta norma della direttiva, in qualunque lesione del diritto alla libertà di religione che violi l’articolo 10, paragrafo 1, della Carta;
–        l’esistenza di un atto di persecuzione può risultare da una violazione della manifestazione esteriore di tale libertà, e
–        per valutare se una lesione del diritto alla libertà di religione che viola l’articolo 10, paragrafo 1, della Carta possa costituire un «atto di persecuzione», le autorità competenti devono verificare, alla luce della situazione personale dell’interessato, se questi, a causa dell’esercizio di tale libertà nel paese d’origine, corra un rischio effettivo, in particolare, di essere perseguitato, o di essere sottoposto a trattamenti o a pene disumani o degradanti ad opera di uno dei soggetti indicati all’articolo 6 della direttiva.
 Sulla terza questione
      Con la terza questione sollevata in ciascuna causa, il giudice del rinvio chiede alla Corte di chiarire, in sostanza, se l’articolo 2, lettera c), della direttiva vada interpretato nel senso che il timore del richiedente di essere perseguitato è fondato quando questi può evitare di esporsi a una persecuzione nel suo paese d’origine rinunciando ad esercitarvi taluni atti religiosi.
      Per rispondere a tale questione occorre osservare che essa riguarda una situazione in cui il richiedente, come accade nei procedimenti principali, non è già stato perseguitato o non ha già subito minacce dirette di persecuzione a causa della sua religione.
      È l’inesistenza di un siffatto «serio indizio della fondatezza del timore» dei richiedenti ai sensi dell’articolo 4, paragrafo 4, della direttiva il motivo per cui il giudice del rinvio sente l’esigenza di sapere in che limiti sia possibile esigere che il richiedente, qualora non possa fondare il suo timore su una persecuzione già subita a causa della sua religione, una volta rientrato nel suo paese d’origine, continui a evitare il rischio effettivo di persecuzione.
      Al riguardo, occorre constatare che nel sistema istituito dalla direttiva, quando le autorità competenti valutano, a norma dell’articolo 2, lettera c), di quest’ultima, se il timore del richiedente di essere perseguitato sia fondato, esse cercano di appurare se le circostanze accertate rappresentino o meno una minaccia tale da far fondatamente temere alla persona interessata, alla luce della sua situazione individuale, di essere effettivamente oggetto di atti di persecuzione.
      Questa valutazione dell’entità del rischio, che deve in ogni caso essere operata con vigilanza e prudenza (sentenza Salahadin Abdulla e a., cit., punto 90), è fondata unicamente sull’esame concreto dei fatti e delle circostanze conformemente alle disposizioni figuranti, segnatamente, all’articolo 4 della direttiva.
      Da nessuna di tali disposizioni risulta che, nel valutare l’entità del rischio di subire effettivamente atti di persecuzione in un determinato contesto, occorre prendere in considerazione la possibilità che il richiedente avrebbe di evitare un rischio di persecuzione rinunciando alla pratica religiosa controversa e, di conseguenza, alla protezione che la direttiva si prefigge di garantirgli riconoscendogli lo status di rifugiato.
      Di conseguenza, quando è assodato che, una volta rientrato nel proprio paese d’origine, l’interessato si dedicherà a una pratica religiosa che lo esporrà ad un rischio effettivo di persecuzione, gli dovrebbe essere riconosciuto lo status di rifugiato a norma dell’articolo 13 della direttiva. La circostanza che egli possa scongiurare il rischio rinunciando a taluni atti religiosi non è, in linea di principio, pertinente.
      In virtù di tali considerazioni, occorre rispondere alla terza questione sottoposta in ciascuna delle due cause dichiarando che l’articolo 2, lettera c), della direttiva deve essere interpretato nel senso che il timore del richiedente di essere perseguitato è fondato quando le autorità competenti, alla luce della situazione personale del richiedente, considerano ragionevole ritenere che, al suo ritorno nel paese d’origine, egli compirà atti religiosi che lo esporranno ad un rischio effettivo di persecuzione. Nell’esaminare su base individuale una domanda di riconoscimento dello status di rifugiato, dette autorità non possono ragionevolmente aspettarsi che il richiedente rinunci a tali atti religiosi.
 Sulle spese
      Nei confronti delle parti nel procedimento principale la presente causa costituisce un incidente sollevato dinanzi al giudice nazionale, cui spetta quindi statuire sulle spese. Le spese sostenute da altri soggetti per presentare osservazioni alla Corte non possono dar luogo a rifusione.
Per questi motivi, la Corte (Grande Sezione) dichiara:
1)      L’articolo 9, paragrafo 1, lettera a), della direttiva 2004/83/CE del Consiglio, del 29 aprile 2004, recante norme minime sull’attribuzione, a cittadini di paesi terzi o apolidi, della qualifica di rifugiato o di persona altrimenti bisognosa di protezione internazionale, nonché norme minime sul contenuto della protezione riconosciuta, deve essere interpretato nel senso che:
–        non è ravvisabile un «atto di persecuzione», nell’accezione di detta norma della direttiva, in qualunque lesione del diritto alla libertà di religione che violi l’articolo 10, paragrafo 1, della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea;
–        l’esistenza di un atto di persecuzione può risultare da una violazione della manifestazione esteriore di tale libertà, e
–        per valutare se una lesione del diritto alla libertà di religione che viola l’articolo 10, paragrafo 1, della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea possa costituire un «atto di persecuzione», le autorità competenti devono verificare, alla luce della situazione personale dell’interessato, se questi, a causa dell’esercizio di tale libertà nel paese d’origine, corra un rischio effettivo, in particolare, di essere perseguitato, o di essere sottoposto a trattamenti o a pene disumani o degradanti ad opera di uno dei soggetti indicati all’articolo 6 della direttiva 2004/83.
2)      L’articolo 2, lettera c), della direttiva 2004/83 deve essere interpretato nel senso che il timore del richiedente di essere perseguitato è fondato quando le autorità competenti, alla luce della situazione personale del richiedente, considerano ragionevole ritenere che, al suo ritorno nel paese d’origine, egli compirà atti religiosi che lo esporranno ad un rischio effettivo di persecuzione. Nell’esaminare su base individuale una domanda di riconoscimento dello status di rifugiato, dette autorità non possono ragionevolmente aspettarsi che il richiedente rinunci a tali atti religiosi.