Osservatorio delle libertà ed istituzioni religiose

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Osservatorio delle Libertà ed Istituzioni Religiose

Documenti • 16 Gennaio 2010

Sentenza 05 luglio 1971

Tribunale di Firenze Sentenza 5 luglio 1971: “Impedimento della celebrazione della Messa e comunità religiosa di base”
 
(Omissis)
 
Con sentenza istruttoria, in data 15 luglio 1970, gli imputati sopra generalizzati venivano rinviati a giudizio per rispondere dei reati di cui in epigrafe.
Il giudice istruttore, sulla base del rapporto inviato il 5 gennaio 1969 dalla questura di Firenze alla procura della Repubblica, riteneva in fatto che la sera del 4 gennaio 1969, “dalle ore 21.30 sino circa a mezzanotte, si era svolta, nella chiesa parrocchiale del rione Isolotto di Firenze, un'assemblea alla quale avevano partecipato numerose persone le quali avevano deciso di riunirsi nuovamente nella stessa chiesa l'indomani mattina per impedire la celebrazione delle messe di orario di quella domenica”; che, secondo quanto riferito dai funzionari di polizia presenti a tale riunione, nel corso della riunione stessa avevano preso la parola i laici C., P. e F. e i sacerdoti don R., F., M., B. e S. i quali, “rivolti alle persone presenti, avevano affermato che il giorno successivo sarebbero dovuti tornare in chiesa ad impedire la celebrazione delle messe”; che “la mattina di quello stesso giorno, alle ore 10.00, in evidente e puntuale attuazione della deliberazione presa la sera precedente, erano convenute nella chiesa dell'Isolotto circa 600 persone che avevano impedito la celebrazione delle messe delle ore 11.00 e delle ore 12.00 che avrebbero dovuto essere celebrate dal delegato dell'arcivescovo di Firenze Mons. Alba”, affollando, secondo quanto era emerso dalle deposizioni assunte, lo spazio attorno all'altare ed anche parte di questo, ponendo sedie e panche attorno all'altare, creando con i loro corpi ostacolo a Mons. Alba in modo da rendergli difficile il passaggio, disturbando con le loro voci e facendo opera di ostruzionismo.
In ordine al reato di cui alla lett. a) della rubrica, ascritto a 410 imputati in gran parte identificati “sulla scorta dei documenti di solidarietà recanti numerose sottoscrizioni presentate all'autorità giudiziaria”, il giudice istruttore, pur ritenendo acquisite prove più che sufficienti a carico di tutti ai fini del rinvio a giudizio formulava la previsione che attraverso il vaglio del dibattimento si sarebbero accertate “le singole personali responsabilità distinguendosi le eventuali varie posizioni dei singoli imputati”.
In ordine al reato di cui alla lettera b), il rinvio a giudizio veniva giustificato con le seguenti argomentazioni: “in quella riunione (del 4 gennaio 1969) intervennero numerose persone presenti il giorno successivo nella stessa chiesa e fu concordato, su iniziativa degli odierni imputati, quanto fu il giorno dopo attuato. In particolare gli imputati C., P. e F. dissero che il giorno successivo occorreva si tornasse tutti in chiesa ad impedire la celebrazione delle messe; ciò fu confortato dai sacerdoti M., S., F., B e R. (cfr. testi P. e DF.). Quanto sopra, del resto, risulta dalle registrazioni effettuate nella circostanza le cui trascrizioni sono agli atti. Di tutta evidenza è il dolo degli imputati: essi agirono sapendo di violare la legge. Su di ciò non vi possono essere dubbi. La F. afferma di approvare le proposte del P. anche sapendo di andare contro la legge”.
Al dibattimento il B., rimasto solo a rispondere dell’imputazione di cui al capo a) per i suoi precedenti penali ostativi all'amnistia applicata nella fase degli atti preliminari nei confronti di tutti gli altri coimputati, ha ribadito la sua estraneità al fatto già affermato in istruttoria, precisando che la dichiarazione allegata agli atti era stata da lui sottoscritta per esprimere la sua solidarietà nei confronti dei membri della comunità dell'Isolotto nella quale era stato accolto con spirito fraterno nonostante la sua posizione non impegnata sul piano religioso; che però, in occasione dei fatti avvenuti la mattina del 5 gennaio, si era trovato a passare in chiesa “nel momento in cui qualcuno aveva chiesto che si facesse una votazione” per ricercare un sacerdote col quale doveva parlare “non essendo minimamente interessato a quanto stava avvenendo in chiesa”. Gli altri hanno respinto l'addebito loro contestato al capo b) confermando le dichiarazioni rese al pubblico ministero in fase istruttoria. Tutti hanno spiegato in un dettagliato preambolo le ragioni ideali della loro adesione alla comunità dell'Isolotto.
È sembrato giusto consentire la più ampia libertà di parola per due ragioni: perché l'imputato ha diritto di farsi conoscere dai suoi giudici, affinché siano in grado di valutare nel modo più pieno la sua personalità, e perché il desiderio di comunicazione che i giudicabili manifestavano, pur contrastando con le esigenze pratiche dell'economia processuale, appariva chiaramente motivato da una ricchezza interiore che li rendeva particolarmente sensibili alla sofferenza del processo, esasperando in loro il bisogno di offrire giustificazioni che non si esaurissero nei limiti dell'episodio incriminato, ma si estendessero nel quadro di una visione generale della vita.
Su questa linea di aderenza ad una realtà che non poteva essere costretta in rigidi schemi, il pubblico ministero ha impostato la sua collaborazione all'indagine dibattimentale ed ha iniziato la sua requisitoria, ravvisando nelle parole degli imputati l'eco di “una comunità intera impegnata nella ricerca di una linea di condotta dove sottostante era una problematica, un'esperienza di vita religiosa condivisa con partecipazione”.
Il pubblico ministero ha chiesto l'assoluzione con formula piena del B. in base alle risultanze emerse dal dibattimento, essendo stato confermato per testimonianza di don M. che l'imputato, ottenuta in comodato una stanza nella canonica attigua alla chiesa (di ciò la difesa ha fornito anche prova documentale), usava la Chiesa come passaggio per recarsi nella piazza dell'Isolotto dove erano i servizi più importanti. Il B. si trovò dunque occasionalmente in chiesa intorno alle ore 11.00 del 5 gennaio 1969 ed essendo “non interessato ai problemi intraecclesiali” può ritenersi che sia rimasto estraneo alla manifestazione che in quel momento era in corso. Egli dev'essere dunque assolto per non avere commesso il fatto.
La richiesta del pubblico ministero di assoluzione con formula piena dei sacerdoti don B., don M., don R., don F. e don S., motivata sulla base di una più attenta lettura della trascrizione allegata al fascicolo degli atti generici, della registrazione dei loro interventi nell'assemblea del 4 gennaio, rende superfluo un esame particolareggiato delle singole posizioni. Gli interventi predetti risultano svolti su un piano strettamente religioso e intesi fondamentalmente a recare un consenso alle scelte di fondo che avevano caratterizzato l'azione e le iniziative sociali della comunità senza impegno nella trattazione dei problemi specifici che quella sera erano in discussione.
Don M. ha sostenuto che la registrazione del suo intervento, occasionato da alcuni concetti espressi prima da don T., non era stata trascritta fedelmente. Infatti, ascoltata direttamente in udienza, la registrazione è risultata inesattamente trascritta nel punto in cui figura la frase “esprimerei la mia ammirazione per la proposta che avete fatto prima”; mentre la frase effettivamente pronunciata è la seguente: “esprimerei la mia ammirazione per il sacerdote che ha parlato prima” e cioè per don T. il quale, secondo don M., aveva dimostrato del coraggio prendendo la parola in quell'assemblea che non poteva essergli favorevole, rappresentando egli le ragioni della curia. La frase alterata era stata infatti, secondo l'originaria interpretazione accusatoria, riferita ad una proposta che il P. avrebbe fatto nel corso del suo intervento di impedire la celebrazione della messa del giorno successivo.
L'estensore della presente motivazione presiedette, dal 20 gennaio al 3 febbraio 1971, un processo in Corte d'assise a carico di B.G. ed altri giovani imputati di gravi reati. In quel processo il P. comparve come testimone e dalla sua deposizione risultò che egli volontariamente ed in modo efficace aveva collaborato al trattamento rieducativo che gli operatori penitenziari stavano svolgendo nei confronti di quegli imputati allora detenuti. Il P. che ha esposto al dibattimento le linee essenziali della sua esperienza presso la comunità dell'Isolotto (“Ero stato profondamente trasformato dal trauma psicologico, religioso e sociale che avvenimenti come il Concilio Vaticano II e il pontificato di Giovanni XXIII avevano prodotto”) appartiene alla schiera, per fortuna non esigua, di giovani culturalmente preparati che intendono verificare, sul piano operativo, con sacrificio personale e con spirito costruttivo, la validità delle proprie idee. Il suo discorso, dettato da un siffatto entusiasmo, non poteva non rappresentare rispetto agli altri interventi la tendenza più spinta e non poteva non trovare risonanza per affinità di temperamento nel discorso della F. ed in quello conclusivo del C.
Si trattava però di un attivismo orientato in una direzione ideale e religiosa ispirato alla non violenza. La preoccupazione dominante era quella di non prestarsi a possibili provocazioni da parte di persone estranee e ostili alla comunità, della cui presenza, nelle domeniche precedenti (confermata dagli accertamenti dibattimentali), lo stesso Mons. Alba aveva avuto notizia. L'ansia persecutiva che si era diffusa nella comunità spiega il tono drammatico di quell'assemblea, una delle tante che all'Isolotto solitamente si tenevano per dibattere democraticamente problemi religiosi, sociali e culturali, come è emerso da numerose testimonianze.
La frase sulla quale si fonda l'incriminazione del P. e che ha lasciato dubbioso il pubblico ministero è la seguente: “io non mi sento affatto neanche di lasciare che questa messa di domani venga detta”.
L'imputato ha rifiutato, forse unicamente per ragioni stilistiche, la parola “affatto” e al dibattimento ha dichiarato che egli non aveva inteso fare una proposta, ma aveva semplicemente invitato gli amici a ritornare l'indomani per l'assemblea di preghiera, convinto che affluendo compatti e numerosi si sarebbe potuto scoraggiare qualsiasi provocatore; ha spiegato che per lui “era implicito che chi fosse venuto a celebrare la messa, trovandosi di fronte ad una chiara espressione di estraneità ad un rito che tutti consideravano non evangelico, si sarebbe persuaso che non era il caso di insistere”.
Secondo la definizione correttamente enunciata da uno dei difensori, l'istigazione è un reato di pura essenza psicologica: una persona ha maturato nella sua mente il proposito che venga commesso un delitto e spinge, incita, stimola altri soggetti a commetterlo. L'incitamento, si è aggiunto, operando nella sfera volitiva di un altro soggetto, deve essere idonea a determinare un comportamento delittuoso.
Questi elementi non sono presenti nel discorso del P. quale risulta dalla registrazione che in questo processo deve avere valore probatorio preminente. La frase del P. non ha neppure i connotati di una proposta: è l'espressione di un desiderio (“io non mi sentirei neanche di lasciare che questa messa di domani venga detta”).
Il problema di diritto può essere dunque risolto con l'autorità della dottrina più tradizionale, secondo la quale, “quando l'istigazione riguarda l'avvenire, deve risultare che si tratta veramente di un eccitamento esplicito o implicito a commettere un reato e non semplicemente della manifestazione di un desiderio”.
La posizione di moderatore e quindi sostanzialmente ricettiva di C. è logicamente collegata a quella degli altri.
La F., che si è distinta per la sua vivacità polemica e per il fervore con cui ha esposto i principi ai quali la comunità si ispira, ha potuto dimostrare che la frase trascritta (“anche sapendo che andiamo contro la legge”) non fu da lei pronunciata.
Dal controllo diretto della registrazione è risultato che le parole effettivamente dette furono le seguenti: “anche sapendo che andiamo incontro a dei rischi”; per cui anche sulla base di altre rettifiche (“io approvo l'ultima proposta che è stata fatta e vi dico che fino ad ora ero perplessa proprio perché sono convinta anch'io di non potere fare violenza perché credo nel Vangelo” … “sarei anche disposta per dieci anni ad andare avanti e indietro, qui dicono la messa e noi si esce pur di non provocare violenza”) il discorso della F. ha rivelato un contenuto di pensiero antitetico all'istigazione (“…se ci percuotono una guancia diamo anche l'altra e vediamo fino a che punto arrivano”).
La frase rettificata (“anche sapendo che andiamo incontro a dei rischi”) è sembrata al pubblico ministero polivalente e tale da giustificare la formula dubitativa. Ma il linguaggio dell'istigatore non può essere polivalente: perché sia idoneo deve essere preciso e privo di ambiguità.
Come è apparso chiaro anche attraverso la deposizione dei verbalizzanti, la valutazione degli interventi svolti nel corso dell'assemblea del 4 gennaio è stata influenzata negativamente dagli avvenimenti della mattina successiva, non essendosi tenuto conto delle cause sopravvenute che diedero a quei fatti uno svolgimento diverso dal previsto.
Il tribunale, consapevole dei propri limiti che gli impediscono di occuparsi di teologia e di problemi intraecclesiali, ritiene che non vi sia altro da aggiungere.
L'eccezione di incostituzionalità, proposta in via subordinata dal difensore di don M. in relazione all'articolo 405 del codice penale, è superata dall'assoluzione con formula piena alla quale si deve pervenire nei confronti di tutti gli imputati.
Per questi motivi, visto l'articolo 479 del codice di procedura civile, assolve B. don V., M. don V., R. don P.G., F. don R., S. don B., F.C., C.C. e P. D.A. dall'imputazione loro ascritta al capo b) perché il fatto non sussiste.
Assolve B.L. dall’imputazione ascrittagli al capo a) per non avere commesso il fatto.