Osservatorio delle libertà ed istituzioni religiose

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Osservatorio delle Libertà ed Istituzioni Religiose

Documenti • 18 Gennaio 2007

Sentenza 05 febbraio 1988, n.1212

Cassazione. Sezioni unite. Sentenza 5 febbraio 1988, n. 1212.

(omissis)

Fatto

Con nota del 31 ottobre 1985 prot. 17671-85 (essendo da poco entrata in vigore, il 5 giugno precedente, la legge n.121 del 1985, di ratifica dei nuovi accordi fra lo Stato italiano e la Chiesa cattolica) il Supremo Tribunale della Segnatura Apostolica trasmetteva alla Corte d’Appello di Venezia gli atti del processo riguardante il matrimonio canonico celebrato fra R. V. e D. F., dichiarato nullo con sentenza del Tribunale ecclesiastico di Venezia in data 17 febbraio 1985, ratificata dal Tribunale ecclesiastico di Milano con decreto in data 5 settembre 1985.
Il Presidente della Corte d’Appello ricevente, procedendo d’ufficio, fissava l’udienza per la trattazione del procedimento in camera di consiglio, la cui data veniva regolarmente comunicata ai coniugi interessati alla delibazione.
Il V., pur non costituendosi, compariva davanti al Collegio, insistendo per la delibazione. La F. nè si costituiva, nè compariva.
Il Procuratore Generale chiedeva che alla sentenza ecclesiastica fossero attribuiti gli effetti civili.
Ma la Corte d’Appello, con ordinanza emessa il 30 gennaio 1986, notificata alle parti il 20 febbraio 1986, dichiarava non esservi luogo allo stato a provvedere sull’esecutività, agli effetti civili della sentenza ecclesiastica, trasmessa dalla Segreteria.

Considerava al riguardo il Collegio:

– che dal testo dell’art. 8, numero 2, dello accordo del 18 febbraio 1984 (la cui ratifica è stata autorizzata con la legge 25 marzo 1985, n.121), ed ancor più chiaramente da quello del paragrafo 4 del Protocollo addizionale facente parte dell’Accordo, si ricava che il procedimento per la dichiarazione di efficacia delle sentenza ecclesiastiche di nullità dei matrimoni canonici con effetti civili è stato ormai equiparato, nel rito, a quello di delibazione delle sentenze straniere, tanto che nel citato paragrafo 4 del Protocollo vengono espressamente richiamati gli artt. 796 e 797 del codice di procedura civile;
che l’articolo 796 comma 1 di detto codice stabilisce che “chi vuol far valere nella Repubblica una sentenza straniera deve proporre domanda mediante citazione davanti alla corte d’Appello del luogo in cui la sentenza deve avere attuazione”; conseguentemente anche per la dichiarazione di efficacia delle sentenza ecclesiastiche deve essere instaurato, “su domanda delle parti o di una di esse” (art. 8 n.2, dell’Accordo), un procedimento contenzioso con il rito ordinario;
– che, al contrario, nel caso di specie era stato avviato, su impulso del Supremo Tribunale della Segnatura (in una forma che, a prescindere da altre questioni, non poteva ritenersi una richiesta in via diplomatica a norma dell’art. 796, comma 2 cod. proc. civ.), un procedimento camerale, come quando erano in vigore le ora modificate disposizioni del Concordato lateranense (e della legge di esecuzione del 27 maggio 1929 n.847);
– che, pertanto, le parti, o una di esse, avrebbero dovuto chiedere in futuro la dichiarazione di efficacia nelle forme nel procedimento ordinario di cognizione.
Avverso il riassunto provvedimento, i coniugi V. e F. hanno presentato ricorso per cassazione, fondato su due motivi.
Con il primo di essi, deducendo che erroneamente la Corte d’Appello ha affermato la propria carenza di giurisdizione, incorrendo nella falsa applicazione della l. 25 marzo 1985 n. 121, si censura la sentenza per avere escluso che, a seguito delle sopravvenute modificazioni del Concordato, recepite nella suddetta l.n.121, di cui all’art. 8 n.2 dell’Accordo e n.4 lett.b) del Protocollo addizionale, sia venuto meno l’impulso d’ufficio nella delibazione delle sentenze ecclesiastiche matrimoniali, essendo necessaria al riguardo la domanda di parte, nelle forma della citazione, senza considerare che, attesa la “specialità” della procedura per la delibazione della sentenza ecclesiastiche si può provvedere sia con “citazione”, sia con “ricorso”, sia a seguito di procedimento d’ufficio purché in quest’ultimo caso il procedimento stesso venga ad essere attivato dall’impulso delle parti, e di almeno una di esse, che vi abbia innestato apposita “domanda”.
Con il secondo motivo si censura la sentenza per avere erroneamente la Corte d’Appello affermato la carenza della propria giurisdizione a conoscere della delibazione su mero impulso d’ufficio, ritenendo (per implicito) totalmente abrogato l’art. 17 l. n.847 del 1929 che regolava tale procedimento officioso, per pretesa incompatibilità con la sopravvenuta modifica del concordato, così incorrendo altresì nella violazione dell’art. 15 delle preleggi.
Ad illustrazione dei riassunti motivi la parte ricorrente ha presentato memoria.

Diritto

1. Il ricorso è ammissibile.
Da moltissimi anni la giurisprudenza di questa Corte di Cassazione ha equiparato, agli effetti dell’impugnazione, l’ordinanza conclusiva del procedimento camerale di delibazione (speciale) delle pronunce ecclesiastiche di nullità matrimoniale a vere e proprie sentenze.
Così come è fuori discussione che l’impugnabilità riguardi i casi in cui il dispositivo dell’ordinanza integra una pronuncia di merito, decidendo in positivo, ovvero in negativo, in ordine alla delibazione, a seguito di un procedimento di tipo giurisdizionale, venendo ad assumere natura sostanziale di sentenza, impugnabile ex artt. 111 Cost., sia dai coniugi che dal P.M. (cfr. Cass. 6215-85, 2025-85, 777-85, etc.), alla medesima conclusione deve giungersi quando il rapporto processuale diretto alla delibazione si conclude, anziché con una pronuncia di merito, con una pronuncia di rito.
E valga il vero: se il ricorso per cassazione è ammesso ex art. 111 Cost. per violazione di legge, ricomprendendo, per interpretazione giurisprudenziale assolutamente univoca, sia la violazione della legge sostanziale che quella della legge processuale (sia i vizi in iudicando che quelli in procedendo), non par dubbio che in presenza del requisito della definitività di un provvedimento che conclude il rapporto processuale, pregiudicando un diritto processuale della parte, questa possa richiedere alla corte di cassazione la reintegrazione del diritto violato da quel provvedimento.
Nel caso di specie si tratta di stabilire se il rapporto processuale iniziato su impulso d’ufficio e svoltosi secondo le forme del rito in camera di consiglio, come previsto dall’art. 17 della legge matrimoniale n.847 del 1929, pur essendo stata caducata l’officiosità, possa essere ugualmente utilizzato, come strumento processuale idoneo, per l’innesto di una domanda della parte diretta ad ottenere la pronuncia sulla delibazione della sentenza canonica di nullità del matrimonio.
La Corte d’Appello ha ritenuto il rapporto processuale irritualmente posto in essere in forza di impulso d’ufficio, non più ammesso per le modificazioni intervenute nell’ordinamento processuale; ed ha negato che il rapporto medesimo fosse suscettibile di “conversione”, avendo radicalmente escluso che la via del rito camerale, introdotto con ricorso, fosse praticabile, essendo venuta meno, per intero, la “specialità” nel rito della delibazione, in materia matrimoniale, da ricondurre ormai alla normale procedura delibatoria, introdotta da citazione ex art. 796 c.p.c..
È evidente che la parte che pretende, invece, di avere diritto alla pronuncia di merito alla stregua dello strumento processuale azionato (con ricorso), se tale diritto fosse effettivamente enucleabile nell’ordinamento, lo vedrebbe pregiudicato anche da una pronuncia di “non liquet”, come quella di specie; e poiché non sono previsti altri strumenti per fare controllare l’esistenza della supposta violazione di legge, deve essere consentito alla parte stessa di chiamare questa Corte di legittimità a verificare se quella pronuncia fosse o meno giustificata.
Non varrebbe opporre, trattandosi di violazione attinente alla ritualità dello strumento processuale di cui la parte ha inteso servirsi, che il diritto sostanziale al conseguimento dello status di non coniugato non è stato pregiudicato, essendo possibile iniziare un nuovo giudizio delibatorio, giusta l’indicazione emergente dalla ordinanza – sentenza ora impugnata, perché la lamentata definitiva lesione subita consiste nella denegazione della idoneità del mezzo processuale prescelto a conseguire il bene della vita, nel modo più snello e più rapido attraverso il rito camerale di cui con “giudizio penale” si verrebbe a negare la Ammissibilità.
Non vi è dubbio che, dal punto di vista dell’interesse ad impugnare, anche la sentenza che si limita ad indicare un diverso iter procedimentale per la attribuzione di efficacia nel nostro ordinamento giuridico ad una sentenza straniera pregiudica il diritto processuale della parte istante ad avvalersi, per lo scopo che intende raggiungere, di forme processuali semplificate, procrastinando nel tempo il raggiungimento di quegli effetti, e costringendola alla rinnovazione dell’atto introduttivo del giudizio di delibazione, e quindi a ritardi ed a spese nel conseguimento di quel bene della vita che, nel suo assunto, l’ordinamento le consentirebbe di raggiungere attraverso le forme processuali prescelte , con violazione della legge processuale, che il provvedimento impugnato ha ritenute inidonee, risultando irreparabile il pregiudizio se non si concedesse, anche in questo caso, il rimedio dell’impugnazione.

2. La Corte d’Appello di Venezia ha ritenuto di non poter procedere d’ufficio alla delibazione di una sentenza canonica, dichiarativa della nullità del matrimonio concordatario, nelle forme del rito camerale, non più compatibili con i nuovi Accordi intervenuti fra lo Stato e la Chiesa, in quanto essendo stato abrogato in parte qua, l’articolo 17 della legge matrimoniale n.847 del 1929, sicché il giudizio di delibazione potrebbe ora essere attivato solo con citazione, in conformità alla disciplina generale, dettata dall’art. 796 del codice di rito.
L’ordinanza (che ha dichiarato non esservi luogo allo stato a provvedere sull’esecutività, agli effetti civili della sentenza canonica trasmessa dalla “Segnatura”, nonostante il marito fosse comparso “insistendo” per l’exequatur), viene impugnata sostenendo che illegittimamente i giudici veneziani avrebbero rifiutato di conoscere, sia pure “allo stato”, della domanda, stante la mancante introduzione, con ordinaria citazione, di un giudizio di delibazione; e che, nonostante fosse stato iniziato per impulso d’ufficio, già divenuto irrituale, il rapporto processuale camerale avrebbe potuto proseguire sboccando nella pronuncia delibatoria, essendosi su di esso innestata la imprescindibile domanda di parte, da ravvisare nella circostanza che uno dei coniugi, comparso senza costituirsi, aveva “insistito” per la delibazione. Soluzione tuttora possibile in quanto, contrariamente a quel che hanno ritenuto i giudici veneziani, l’art. 17 della legge matrimoniale del 1929, non essendo stata ancora emanata quella nuova, in sintonia con le intervenute modifiche pattizie, risulterebbe ancora parzialmente vigente ed applicabile, se non più relativamente all’impulso officioso quanto meno con riguardo all’adozione della forma del ricorso per la richiesta della delibazione e del rito camerale per la trattazione della causa medesima, da definire pur sempre con ordinanza (dovendosi ancora ritenere vigente il procedimento “speciale” di delibazione dettato dalla suddetta legge matrimoniale del 1929, con gli opportuni correttivi).
Il ricorso è stato assegnato alle Sezioni Unite, essendosi formalmente dedotta, nella “rubrica” di entrambi i motivi, “l’erronea affermazione di carenza della propria giurisdizione” da parte del giudice adito”.
Ma trattasi, manifestamente, di un falso problema poiché la Corte d’Appello di Venezia non ha negato la propria giurisdizione sulla delibazione delle sentenze canoniche di nullità del matrimonio, ma ha emesso una pronuncia di rito, escludendo che, a seguito dei sopravvenuti accordi, modificativi sul punto dell’art. 17 della legge matrimoniale, a tale delibazione fosse consentito procedere d’ufficio, occorrendo, a suo avviso, per introdurre il procedimento delibatorio, la domanda di parte, contenuta in un atto di citazione; e dovendosi adottare, pertanto, sempre e necessariamente il rito ordinario, introdotto con citazione, sicché la comparizione dei coniugi davanti alla Corte d’Appello, nel procedimento instaurato d’ufficio, sicuramente non potrebbe valere ad integrare la imprescindibile domanda di parte. La Corte veneziana ritiene, cioè, ormai caducata l’anacronistica delibazione d’ufficio, ed applicabile anche alle sentenza canoniche il “comune” procedimento delibativo.
Questa essendo la portata della pronuncia sarebbe veramente un fuori d’opera ragionare nell’ottica del difetto, sia pur temporaneo, di giurisdizione. Di questo concetto, privo di rigore logico, le SS.UU. hanno ormai fatto giustizia in ipotesi come quella di specie in cui il giudice adito, pur non revocando in dubbio la propria giurisdizione, nega di poter passare all’esame del merito, non sussistendone, a suo avviso, i necessari presupposti; la pronuncia resa si caratterizza per questo diniego, non toccando in alcun modo l’attribuzione della giurisdizione.

3. I problemi cui l’esame del provvedimento impugnato dà luogo sono essenzialmente tre, pur collegandosi ad una ratio decidendi duplice dell’ordinanza impugnata.
Si tratta anzitutto di vedere se, a seguito dell’entrata in vigore dei nuovi Accordi, sia ancora ammissibile nel nostro ordinamento la delibazione d’ufficio. A ben vedere gli stessi ricorrenti lo escludono, perché pretendono di trasformare il procedimento camerale officioso in procedimento camerale su impulso di parte, dovendosi ravvisare l’attuazione del principio della domanda nell’atteggiamento tenuto dalla parte comparsa per “insistere” sulla delibazione.
La questione ulteriore che si pone riguarda, quindi, la conservazione, nella attuale fase transitoria, del rito camerale per la delibazione: non più introdotto dall’impulso dell’ufficio, ma radicato sull’impulso di parte, ed articolato sul ricorso come atto introduttivo e sulla sentenza come atto finale.
Sembra evidente, infatti, che soltanto se si ravvisi nel procedimento camerale uno strumento processuale ancora vigente nell’ordinamento in funzione dell’exequatur delle sentenze canoniche di nullità matrimoniale, ha senso l’operazione di “salvataggio” che sta a cuore ai ricorrenti, mediante la “conversione” del procedimento camerale officioso in procedimento, pur sempre camerale, ma su impulso di parte, ravvisando, ed è il terzo problema di cui queste SS.UU. sono investite, nella “insistenza” della parte per la delibazione la domanda che imprescindibilmente il novum ius richiede.
Di fronte alla riassunta problematica il provvedimento impugnato, nella sua scheletricità, presenta una duplice ratio decidendi. Osservano, anzitutto i giudici veneziani che la delibazione d’ufficio non esiste più; ergo non si può (in nessun caso) provvedere sul procedimento che trae origine, officiosamente, dalla trasmissione degli atti del giudizio di nullità canonica, a cura della Segreteria del Tribunale della Segnatura); e tanto basterebbe per giustificare la pronuncia di non liquet.
Ma così non si fermano qui e ritengono di andare oltre, verosimilmente per dare un “segnale” alle parti, affermando altresì che, caduta la norma derogativa che prevedeva ” forme speciali” di delibazione, per attribuire efficacia nel nostro ordinamento alle sentenze canoniche di nullità matrimoniale si dovrà fare necessariamente ricorso alla procedura comune, regolata dagli artt. 976 e ss. cod. proc. civ. (del resto richiamati negli Accordi globalmente intesi, e quindi comprensivi nel Protocollo) introducendo la richiesta di exequatur con una normale citazione, e svolgendosi il procedimento nelle forme ordinarie.
La Corte, cioè, avverte che non riterrà più possibile procedere alla delibazione delle sentenze di nullità matrimoniali con rito camerale.
Questa essendo la trama argomentativa della ordinanza impugnata, appare evidente la centralità d pregiudizialità di quello che sembrerebbe essere un obiter dictum: l’opzione interpretativa per il rito ordinario rispetto a quello camerale, ai fini dell’accoglimento dell’assunto dei ricorrenti i quali sostengono che, a seguito dell’innesto della pretesa “domanda” nel procedimento officioso camerale, il procedimento stesso, nonostante la sua genesi irrituale, si converte in un legittimo procedimento camerale su impulso di parte.
Invero il difficile “trapianto” sarebbe del tutto inutile, se dovesse ritenersi comunque che il rito camerale, si pure su domanda di parte, non è più ammesso a seguito degli Accordi Stato – Chiesa ed indipendentemente dalla emanazione della nuova legge matrimoniale, così come la Corte veneziana, discostandosi dall’interpretazione data da altri giudici di merito (e da un precedente della 1 Sezione di questa Corte di Cassazione in corso di pubblicazione ) sembra ritenere.
La qualificata difesa dei ricorrente ha colto con estrema chiarezza sia nel ricorso, sia e soprattutto nella memoria, la portata del ragionamento svolto dalla Corte veneziana, contestandolo su entrambi i piani su cui si articola.
Sì dà atto che la delibazione d’ufficio è venuta meno; ma si sostiene che, anche se malamente iniziato per impulso d’ufficio, il procedimento camerale di delibazione rispetto alla sentenza canonica dichiarativa di nullità matrimoniale (essendo tuttora vigente l’art. 17 l. n.847 del 1929 e riguardando l’avvenuta abrogazione per incompatibilità solo la officiosità dell’iniziativa, dipendendo ora la delibazione dalla domanda di parte ) può essere “convertito” in un procedimento rituale e legittimo, purché la parte compaia e chieda gli effetti civili.
Come è ovvio questa soluzione in tanto è ammissibile in quanto si riconosca la persistente vigenza, in materia di exequatur del rito camerale.
Da un punto di vista di stretta conseguenzialità logico – giuridica dovrebbe essere affrontato prima il problema di questa persistente vigenza e poi quello della praticabilità della conversione del rito camerale da “officioso” a “dispositivo” per l’innesto della pretesa domanda.
Da un punto di vista di economia processuale è più agevole riscontrare che la Corte d’appello ha deciso bene ritenendo non più applicabile la norma dell’art. 17 l. n.847 del 1929 sulla delibazione di ufficio, non costituendone adeguato correttivo l’inserimento nel procedimento officiosamente instauratosi dalla sedicente domanda di parte, tale non potendosi considerare, in senso tecnico, l'”insistenza” per la delibazione di uno dei coniugi.
Ma poiché la Corte ha anche soggiunto che la delibazione avrebbe dovuto necessariamente essere richiesta nelle forme della citazione, e questa affermazione, contro cui si appuntano esplicitamente le censure del ricorrente, sembra a queste SS.UU. giuridicamente errata, si ritiene necessario, sia pure in ordine posticipato, in aderenza all’incidenza delle censure determinanti ai fini dell’annullamento del provvedimento ovvero meramente correttive delle considerazioni svolte), affrontare il delicato argomento, per riconoscere la fondatezza giuridica delle considerazioni svolte dal ricorrente a sostegno dell’assunto che tuttora sia possibile richiedere la delibazione nelle forme del ricorso, erroneamente essendo stata postulata dalla Corte veneziana l’inderogabilità della forma della citazione.
Questo errore, tuttavia, non comporta la cassazione della pronuncia impugnata che si regge, come già evidenziato, su una duplice ratio decidendi, e si giustifica pienamente laddove si limita a negare (implicitamente) la praticabilità dell’innesto della domanda sul procedimento officioso. Ricorrono invece, puntualmente, gli estremi per la correzione in diritto della motivazione sul tema della postulata necessità della citazione, valendo l’esatta messa a fuoco della situazione normativa ad orientare le Corti d’Appello, grazie all’esercizio del potere di monofilachia che compete alla Corte di cassazione.

4. È opportuno, anzitutto, procedere ad una sintetica ricognizione dei dati normativi.
Prima delle “modificazioni consensuali” che l’Italia e la Santa Sede hanno introdotto nel Concordato Lateranense, la procedura dell’exequatur era consacrata nell’art. 17 l. 27 maggio 1929 n.847 (che si correla all’art. 34 del Concordato del 1929, per quanto specificamente interessa ai fini della decisione della causa) il quale stabilisce che “la sentenza … dopo che sia intervenuto il decreto del Supremo Tribunale della Segnatura … è presentata, in forma autentica alla Corte d’Appello della circoscrizione a cui appartiene il comune presso il quale è trascritto l’atto di celebrazione del matrimonio (comma 1) e che la Corte d’Appello, con ordinanza, pronunciata in camera di consiglio, rende esecutiva la sentenza, e ne ordine l’annotazione a margine dell’atto di matrimonio (comma 2).
Nell’interpretazione di questa norma l'”ordinanza” è stata da oltre un cinquantennio considerata dalla giurisprudenza “sentenza” (e ciò spiega la modificazione dell’Accordo concernente la “forma” del provvedimento finale della delibazione che adegua il “nomen” alla forza che, nel diritto vivente, l’atto delibativo era venuto assumendo: il che porta ad escludere che la sostituzione del termine possa rivestire un qualche significato innovativo).
Sempre ad opera della giurisprudenza, ma in epoca più recente (a partire dalla sentenza n.4104 del 1975), la convocazione delle parti, è stata ritenuta obbligatoria; ed in tal senso l’indirizzo interpretativo appare assolutamente unanime.
Mentre si andavano allargando i poteri di controllo esercitati dai giudici della delibazione, che non si accontentavano più di svolgere funzioni di ratifica formale, meramente notarile, è intervenuta, a saldarsi con tale orientamento, la sentenza della Corte costituzionale n.18 del 1982, attribuendo ai giudici il duplice controllo circa la regolarità del processo canonico in concreto, e circa la rispondenza della sentenza ecclesiastica ai principi supremi dell’ordine pubblico.
Oggi, l’art. 8, n.2 dell’Accordo specifica che la dichiarazione d’efficacia deve avvenire “su domanda delle parti o di una di esse”, “con sentenza” della Corte d’Appello competente.
Mentre, come si è accennato, non ha carattere sostanzialmente innovativo la modificazione concernente la “forma ” del provvedimento finale, (“sentenza” anziché “ordinanza”), assume, viceversa, una portata sicuramente innovativa la regolamentazione della iniziativa del procedimento, rimessa un tempo all'”ufficio” e affidata oggi alle parti.
Il n.4 del protocollo addizionale chiarisce quanto stabilito dall’art. 8 dell’Accordo con le seguenti testuali parole: “con riferimento al n.2 ai fini dell’applicazione degli artt. 796 e 797 del codice italiano di procedura civile, si dovrà tenere conto della specificità dell’ordinamento canonico dal quale è regolato il vincolo matrimoniale, che in esso ha avuto origine…”

5. Questa essendo l’evoluzione della situazione normativa, ed in mancanza della “nuova” legge matrimoniale (non ancora emanata) il procedimento ermeneutico volto alla individuazione dello ius quo utimur può portare astrattamente a tre soluzioni: 1) ritenere che si applichino le norme comuni del procedimento di delibazione (essendo venute meno quelle “speciali” espressamente dettate per l’exequatur delle sentenze ecclesiastiche); 2) ritenere che ad applichi ancora la vecchia legge matrimoniale del 1929 (in quanto non incompatibile con il novum ius); 3) adottare una soluzione intermedia in relazione alla necessità di procedere su “domanda di parte”, ravvisando tale domanda: a) nella richiesta della Segnatura Apostolica di provvedere all’invio degli atti alla corte d’Appello; b) nella presentazione di una citazione introduttiva per il giudizio di delibazione, c) nella presentazione di un ricorso in camera di consiglio, adottandosi le forme della volontaria giurisdizione così come previsto dallo art. 17 della legge matrimoniale tuttora vigente nelle parti compatibili con i nuovi accordi fra lo Stato e la Chiesa; d) nella manifestazione di volontà di dar corso alla delibazione a seguito dell’avvenuta trasmissione degli atti, da parte di uno o di entrambi gli interessati, equivalendo questa volontà, per così dire “interinale”, alla domanda resa necessaria dall’Accordo del 18 febbraio 1984 (ed è questa la tesi sostenuta dai ricorrenti).
La opzione esegetica riassunta sub 1) è manifestamente insostenibile.
Nel nostro ordinamento costituzionale la Chiesa Cattolica gode di una posizione privilegiata (cfr. art. 7 Cost.) che giustifica la disciplina differenziata consacrata nell’Accordo più volte menzionato, più rispettoso della sovranità dello Stato (nel raffronto con i precedenti Patti Lateranensi), nella gelosa tutela della riserva di giurisdizione ai suoi organi (con la sola salvezza delle limitazioni consentite ex art. 11 Cost. stante l’adesione del nostro Paese alla Comunità Europea). Tale disciplina, “derogatoria” e “speciale” rispetto a quella generale, dettata dal titolo VII) del libro IV del vigente codice di procedura civile, ha senso e significato in quanto comporta che le regole generali in tema di delibazione di diritto comune si possono invocare soltanto quando non risultino dettate, in tema di exequatur delle sentenze canoniche di nullità matrimoniali, specifiche disposizioni dell’Accordo; necessariamente prevalenti, le quali, a loro volta, prevalgono sulle disposizioni incompatibili della legge matrimoniale del 1929 che va letta correttivamente rispetto all’art. 8 dell’Accordo, da correlare con il n.4 del Protocollo addizionale.
Il meccanismo applicativo ripete le sue regole dalle norme sulla successione delle leggi nel tempo, secondo una misura di generalità e specialità: la legge generale codicistica viene derogata dalla legge speciale sia anteriore (legge matrimoniale n.847 del 1929) sia posteriore (Accordi del 1984); le legge speciale posteriore n.121 del 1985 prevale nei limiti dell’incompatibilità su quella speciale anteriore. Naturalmente dove le leggi speciali non dispongono la disciplina codicistica spiega i suoi effetti; nè occorre al riguardo un espresso richiamo, da considerare comunque superfluo, per ribadire la residuale applicabilità delle norme del codice di rito.
Va esclusa, perciò, l’applicabilità integrale delle norme processuali generali in tema di delibazione rispetto all’exequatur delle sentenze canoniche, occorrendo avere riguardo alla disciplina derogatoria, tuttora esistente, e da attingere all’Accordo (ratificato e perciò immesso nell’ordinamento indipendentemente dalla emanazione della legge di attuazione,) nonché alla stessa legge matrimoniale del 1929, che risulta caducata solo nei rigorosi limiti della incompatibilità ex art. 15 disp. prel. cod. civ..
Se, nonostante la ratifica dell’Accordo, fossero venute meno tutte le norme speciali preesistenti senza essere sostituite da norme nuove parimenti speciali, essendosi riespansa la normativa generale, sicuramente tale Accordo sarebbe un non senso giuridico, poiché non attuerebbe “nuove” intese, ma comporterebbe puramente e semplicemente il venir meno delle intese precedenti: il che è manifestamente insostenibile.
Può quindi convenirsi con i ricorrenti che in assenza di una nuova legge matrimoniale, si debba “fin dove è possibile” applicare la vecchia legge, verificando questa “possibilità” in ordine alla scelta del procedimento da seguire per instaurare il giudizio di delibazione, nell’alternativa fra rito camerale, su istanza di parte, ed ordinario giudizio da introdurre con citazione.

6. Indubbiamente, come riconoscono gli stessi ricorrenti, l'”Accordo” ha portata innovativa per quanto attiene alla regolamentazione dell’iniziativa del procedimento delibativo, già rimessa ez art. 17 l. n.847 del 1929 all'”ufficio”, ed affidata ora alle “parti”.
Esso, facendo riferimento alla “domanda” delle parti come all’imprescindibile connotato propulsivo del procedimento di delibazione, ha sostituito all’officiosità del procedimento di delibazione, che non avrebbe potuto essere impedita dalle parti, la disponibilità, da esse gestita, eventualmente in contraddittorio fra loro.
Ma se l’art. 17 della legge matrimoniale risulta abrogato in punto di delibazione ex officio, per incompatibilità con il principio della domanda, imperativamente fissato nell’Accordo, non è esatto che l’abrogazione della norma sia stata integrale. Solo nel presupposto di una caducazione totale della procedura speciale di delibazione si giustificherebbe de plano la opzione interpretativa che riconduce l’exequatur delle sentenze canoniche di nullità di matrimonio al rito delibatorio codicistico, pretendendone l’introduzione con citazione e lo svolgimento secondo il diritto processuale comune.
L’ordinanza impugnata sostiene che il richiamo all’art. 796 cod. proc. civ. scaturisce dal nuovo diritto speciale concordatario, e che non è possibile pronunciare la delibazione adottando il rito camerale, sia pure su ricorso di parte (e non più d’ufficio). Secondo i ricorrenti, invece, stante la parziale vigenza dell’art. 17 della legge matrimoniale, è ancora possibile, in linea di principio, introdurre la domanda di delibazione con ricorso, utilizzando il rito camerale, e quindi non vi sarebbero ostacoli alla valorizzazione del rapporto processuale posto in essere su iniziativa dell’ufficio, adeguandolo al novum ius, attraverso l’innesto della domanda di parte; qualificando coma “domanda” in senso tecnico, l'”insistenza” per la delibazione del coniuge convocato.
L’accoglimento di questa tesi comporta il superamento di un duplice ostacolo: a) ritenere tuttora utilizzabile per l’exequatur, alla stregua del diritto vigente, il rito camerale introdotto con ricorso (ed è tesi, ad avviso di queste S.U., giuridicamente corretta, come sarà dimostrato più innanzi); b) ritenere “convertibile” il rapporto processuale nato male, come manifestazione di un impulso officioso ormai non più ammesso, in rapporto processuale su impulso di parte, vivificandolo con l’innesto di una domanda in senso tecnico; c) equiparare ad una domanda in senso tecnico la circostanza (verificatasi nella specie) che uno dei coniugi sia comparso nel procedimento officioso, su convocazione del giudice, ed abbia dichiarato personalmente, senza costituirsi e senza ministero di procuratore, di non opporsi alla delibazione, anzi “insistendo” per l’exequatur.
Evidentemente è quest’ultimo l’anello più debole della catena logico giuridica, sicché si potrebbe essere indotti a “spezzarlo”, con brevi considerazioni, per giungere alla reiezione del ricorso.
Ma così facendo non si risponderebbe alle svolte censure in tutta loro sequenza argomentativa e si lascerebbe sub iudice il quesito se una domanda in senso tecnico avrebbe potuto giustificare la conversione; e quello, ancor più a monte, della persistente vigenza del rito camerale. Risulta, perciò, necessario affrontare tutti nodi problematici che presenta la causa; sia pure trattando per prima la questione attinente alla domanda .

7. La corte d’Appello di Venezia ha giudicato bene, sia pure per implicito, nell’escludere che il rapporto processuale diretto alla delibazione su impulso d’ufficio potesse giustificare la delibazione “chiesta” della parte comparsa personalmente (perché convocata); nella logica della pronuncia la “conversione” del procedimento camerale instaurato d’ufficio, in procedimento camerale su istanza di parte non sarebbe stata comunque possibile, scaturendo dagli stessi Accordi la necessità di introdurre la domanda di exequatur con citazione.
La situazione in esame non si sarebbe verificata se alla trasmissione degli atti da parte della Segreteria del Tribunale della Segnatura sollecitata dalla parte, la Corte d’Appello non avesse reagito innescando il meccanismo della officiosità, per la “vischiosità” del rito ormai seguito da quasi un cinquantennio, fissando l’udienza in camera di consiglio e convocando per quella data, le parti davanti a sè.
Accortosi dell’errore il giudice della delibazione ha giustamente pronunciando in non liquet, essendo sicuramente inidoneo un procedimento officioso, dopo la ratifica dell’Accordo, a condurre alla delibazione; senza preoccuparsi di valutare come “domanda” l’asserzione verbalizzata, che la parte convocata “insisteva” per l’exequatur.
Chi si trattasse di vera domanda si sforza, ma senza successo, di dimostrare la difesa dei ricorrenti.
Come è noto il vigente codice di procedura civile ha sancito il principio dispositivo, quale proiezione processuale della autonomia privata; ed il brocardo “ne procedat iudex ex officio” ha mantenuto la sua efficacia, non potendosi in line di principio attribuire al giudice il potere di iniziare, per impulso proprio, un processo a tutela di interessi i cui titolari siano rimasti inerti.
L’art. 99 cod. proc. civ. stabilisce che chiunque voglia fare valere un diritto in giudizio deve proporre “la domanda”, quale espressione della propria autonomia; e l’art. 2907 cod. civ. ribadisce che alla tutela giurisdizionale dei diritti provvede l’autorità giurisdizionale “su domanda di parte”.
Nella prospettiva del processo “domanda” è l’atto con cui la parte, affermando l’esistenza di una volontà concreta di legge che le garantisca un bene, dichiara di volere che tale volontà sia attuata, invocando a tal fine l’autorità dell’organo giurisdizionale; la domanda “fondata” ha come necessario punto di riferimento l’altra parte (nei cui confronti la volontà della legge deve essere attuata); la “mera” domanda si pone, invece esclusivamente nei confronti del giudice.
La domanda si presenta, perciò, in radicale contrapposizione con l’impulso d’ufficio; ed i rapporti processuali che ne scaturiscono non sono affatto omogenei fra loro.
Conseguentemente una domanda in senso tecnico non può essere utilmente innestata nel rapporto processuale ufficioso nullo (perchè non avrebbe potuto essere instaurato) con l’effetto taumaturgico di trasformarlo in valido rapporto di parti.
Il rapporto processuale scaturito irritualmente dall’impulso d’ufficio, in ipotesi in cui il relativo potere non sussisteva, non è suscettibile di sanatoria, nemmeno innestandovi una domanda che è suscettibile di generare un nuovo rapporto processuale, ma non può ridare vita giuridica a situazioni radicalmente colpite da nullità.
L’innesto, anche metaforicamente, presuppone che la pianta sia viva e vitale, mentre nel nostro caso pretendere di salvare un rapporto processuale nullo attraverso la domanda significa ritenere che, nonostante tale nullità, esso sia capace di fungere da matrice, o supporto, di altro rapporto valido sostanzialmente diverso.
Anche, quindi, se fosse stato utilizzato uno strumento processuale intrinsecamente idoneo all’introduzione di una domanda in senso tecnico (quale una comparsa di intervento redatta da legale fornito di procura ) sarebbe stato impossibile, valorizzare tale atto processuale per ottenere dal giudice adito la pronuncia di merito, non preesistendo un rapporto processuale valido (fra altre parti), dato che nella specie il solo rapporto apparente era quello nullamente iniziato per impulso d’ufficio in carenza di potere.
La domanda, ritualmente proposta, può dare origine ad un rapporto processuale valido, ma non vale a salvare un rapporto processuale nullo.
Sicuramente, comunque, non integra una “domanda”, il comportamento della parte, convocata davanti al giudice della delibazione, indipendentemente dalla “costituzione”, e quindi dalla assunzione della qualità di parte (che in tanto può stare in giudizio davanti ad un giudice collegiale in quanto sia assistita da procuratore legale, legalmente esercente ex art. 82 comma 3 cod. proc. civ.) si limita ad esprimere personalmente il proprio interesse al procedimento di delibazione, non avendo ragioni giuridiche da apporre a che venga adottato, trattandosi a ben vedere, di comportamento del tutto coerente con quello che avrebbe potuto tenere nella persistenza vigenza della vecchia legge matrimoniale.
La circostanza che la parola “domanda” non sia contenuta nel codice di rito, ma nell’Accordo, non attribuisce al comportamento tenuto una valenza di particolare pregnanza. Non giova obiettare, come si fa nel ricorso, che le “Parti” di questo atto internazionale “non potevano voler addossare al cittadino – fedele una procedura più lunga e costosa di quella in atto”.
L’intento di espungere dall’ordinamento la delibazione d’ufficio, per sostituirla con una delibazione (sia pure più snella e meno gravatoria di quella di diritto comune) non comporta necessariamente che siano state obliterate le regole fondamentali del principio della “domanda” che si è voluto ripristinare integralmente, sicché la notazione può essere apprezzata nella diversa ottica della “forma” della domanda che riguarda il problema della scelta fra procedimento ordinario, introdotto con sentenza, e procedimento camerale introdotto con ricorso. Ma una domanda in senso tecnico vi deve essere, nel rispetto di un minimum di elementi formali, non essendo consentita nel nostro ordinamento, davanti a giudici collegiali, introdurre una domanda oralmente, facendola consacrare a verbale della parte “personalmente”, senza ministero di procuratore.
Può soggiungersi che la volontà di proporre una domanda deve essere espressa con chiarezza come voluntas persequendi quod sibi debeatur, mentre la convocazione delle parti nel procedimento officioso, vigente anteriormente alle introdotte modificazioni, aveva il diverso significato di provocatio ad opponendum, essendo stata introdotta dalla giurisprudenza, nel rispetto del principio delle garanzie della difesa, per attenuare l’automatismo di una delibazione d’ufficio che la sensibilità costituzionale dei giudici si sforzava di mettere in sintonia con la Carta fondamentale per arricchire il giudizio, nato come mero riscontro notarile della regolarità del processo canonico attestata dal tribunale della Segnatura, ma via via approfondito ed esteso a valutare le conseguenze di quel giudizio in ottica diversa di quella propria dell’ordinamento che aveva emanato l’atto giurisdizionale delibando per verificare il rispetto del principio della difesa.
La convocazione delle parti, nel procedimento d’ufficio, non è quindi diretta a provocare la domanda di delibazione, non necessaria secondo le linee tipiche del procedimento officioso, sicchè l'”adesione” al suo proseguimento, nulla avendo da opporre la parti circa la regolarità del giudizio ecclesiastico, non può valere per un verso a trasformare il rapporto in un procedimento su impulso di parte che avrebbe dovuto essere all’origine introdotto da un “ricorso” che non c’è stato, e che non può essere surrogato dalla mera “adesione”, la quale null’altro significa, nella corretta interpretazione che all’atto si deve dare, che accettazione del proseguimento di quel rapporto officioso, manifestando, a tutto concedere, una certa misura di interesse a che esso continui a svolgersi sino al provvedimento finale che “sta bene” alla parte, ma non si collega, in relazione di causa ad effetto, ad una sua autonoma domanda giudiziale, dipendendo, e non potendo che dipendere, dall’impulso d’ufficio. La domanda, come si è già rilevato, (anche se possiede i requisiti intrinseci che la caratterizzano come atto processuale) può essere introdotta in un precedente rapporto processuale da altri posto (nelle forme adeguate tassativamente indicate dalla legge per tipo di procedimento) solo se questo rapporto sia sorto validamente e sia tuttora in vita.
Ma nel caso in esame, poiché l’impulso d’ufficio non avrebbe dovuto scattare, nè conseguentemente si sarebbero dovute convocare le parti, la nullità del rapporto, cui consegue la nullità della convocazione, comporta che l’occasionale presenza davanti al giudice non è di per sè idonea a “domandare” alcunchè; mentre è certo che la “domanda” avrebbe dovuto rivestire forme adeguate per produrre gli auspicati effetti di sanatoria e d’impulso, e quindi essere consacrata in una memoria, e portata a conoscenza del controinteressato nel rispetto del principio del contraddittorio, mentre nel caso di specie la fievole parvenza di domanda dovrebbe scaturire dalla consacrazione a verbale della “insistenza” per delibazione.
A parte il rilievo che quod non est in actis non est in mundo, risulta, perciò, superfluo sostenere, come si è fatto nella discussione orale, che la parte era “assistita” da legale, e disse al giudice ben di più di quanto verbalizzato, perché la domanda nuncupativa non ha cittadinanza nel nostro ordinamento.
In conclusione: non esistendo un rapporto processuale valido, suscettibile di essere integrato e di sfociare nell’auspicata pronuncia di merito sulla delibazione, perché quello in atto, instaurato indebitamente per impulso officioso risultava, come tale, inficiato da nullità insanabile, il rapporto medesimo non poteva essere assunto a strumento di effetti giuridici; comunque la verbalizzazione della “insistenza” per la delibazione non sarebbe stata idonea ad innestare, su un rapporto processuale in ipotesi valido una domanda in senso tecnico mancando in proposito i requisiti costitutivi della domanda stessa.
Nè si dica che una domanda di parte, “dal punto di vista sostanziale” (sic!) si sarebbe dovuta ravvisare nella richiesta diretta alla Segnatura apostolica di trasmettere gli atti alla Corte d’Appello al fine di ottenere l’attribuzione di effetti civili alla sentenza ecclesiastica. Ovviamente tale richiesta, indirizzata ad un organo ecclesiastico, e che non è chiamato a dicere ius con effetti nel nostro ordinamento giuridico, non può essere considerata come “domanda”, rivolta al giudice italiano, di attribuire effetti giuridici in Italia ad una sentenza straniera, ma vale solo a mettere in moto i presupposti fattuali del meccanismo processuale destinato a sfociare nel provvedimento di delibazione.
Nè, infine, a favore della equiparazione dell’insistenza nella domanda in senso tecnico, varrebbe invocare il principio della economia processuale.
Anche ad ammettere che il termine “domanda” dell’Accordo” non significhi, sempre e soltanto, citazione, non ne consegue che la “domanda” possa essere sradicata da ogni connotazione formale, e che un processo nullo possa essere convalidato solo per conseguire un limitato effetto acceleratorio. Giacché l’opzione interpretativa di salvataggio presuppone pur sempre che gli strumenti all’uopo apprestati siano formalmente corretti, e suscettibili di interpretazione in bonam partem, fino al limiti di tolleranza, secondo criteri di plausibile ermeneutica.
Nel caso in esame l’innesto della domanda nel procedimento officioso non è possibile perché il rapporto processuale nullo non è suscettibile di sanatoria, convertendosi ex tunc in rapporto processuale valido, e perché la circostanza da cui si verrebbe far discendere la pretesa conversione non è comunque “una domanda” in senso tecnico, in quanto le forme della sua proposizione sono assolutamente anomale (verbalizzazione di dichiarazione resa personalmente dalla parte non costituita in sede di convocazione ex officio).

8. La Corte d’Appello ha giudicato bene nell’escludere che il rapporto processuale diretto alla delibazione su impulso d’ufficio potesse giustificare la pronuncia di delibazione in sè e per sè, a prescindere dalla circostanza che uno dei coniugi convocati avesse “insistito” per la delibazione.
Ma il ragionamento della Corte appare scorretto quando categoricamente afferma che, a seguito degli Accordi, quand’anche la richiesta di parte della delibazione fosse stata formulata con ricorso introduttivo di procedimento camerale si sarebbe dovuto egualmente pronunciare il non liquet, essendo solo la citazione introduttiva di comune processo contenzioso coerente con le introdotte modifiche.
Al riguardo le censure dei ricorrenti colgono nel segno, anche se non sono suscettibili di portare all’annullamento della sentenza che, come si è già rilevato, riposa sulla incontrovertibile constatazione che nel caso di specie il rapporto processuale era stato instaurato su impulso d’ufficio, tanto bastando ad escludere la prosecuzione del procedimento nel quale non si era innestata alcuna domanda di parte. Ma poiché quest’innesto, anche a ritenerlo possibile, avrebbe tutt’al più comportato la conversione del rapporto fondato sul rito camerale da rapporto officioso a rapporto su impulso di parte, necessario presupposto dal discorso da svolgere era la dimostrazione della persistente praticabilità, pur in assenza della nuova legge matrimoniale, del rito camerale per la delibazione “speciale” delle sentenza canoniche di nullità matrimoniali.
Si tratta di stabilire se l’esecutività delle sentenze canoniche di nullità matrimoniale debba essere dichiarata utilizzando (necessariamente) il procedimento contenzioso introdotto dalla citazione, oppure se sia tuttora ammissibile un procedimento in camera di consiglio, introdotto con ricorso.
La Corte d’Appello si limita ad una affermazione perentoria, ma non sorretta da un corredo argomentativo, laddove enuncia il proprio “editto”, imponendo ai coniugi che intendano ottenere l’exequatur di avvalersi delle forme della citazione, dando la soluzione quasi per scontata, come si si trattasse di un imprescindibile corollario. Ma così non è.
Dopo l’emanazione della legge matrimoniale n.847 del 1929, ed essendo stati messi a fuoco dalla Corte costituzionale i principi di tutela e di difesa sanciti dalla Carta fondamentale del 1948 anche non riguardo alla giurisdizione ecclesiastica sui matrimoni concordatari e sui correlativi poteri del giudice italiano (giova ricordare da ultimo la cit. sentenza n.18 del 1982 e prima ancora le sentenze n.30 del 1971 e 175 del 1973) questa Corte di cassazione ha via via reso più penetrante il controllo esercitabile in sede di delibazione delle sentenze matrimoniali canoniche e significativamente il “diritto vivente” giurisprudenziale è stato recepito nello Accordo (cfr. artt. 8 lett. a), b), c).
Sarebbe però eccessivo ritenere, in carenza delle disposizioni statuali di attuazione delle norme pattizie, che l’Accordo, sulla linea della evoluzione giurisprudenziale, postuli come esclusiva l’adozione della procedura contenziosa in luogo di quella camerale.
Il nuovo Accordo ha potuto realizzare quella radicale immutazione del carattere officioso del procedimento, per cui era espressamente previsto il rito camerale, stabilendo il principio della domanda.
Ma poiché la domanda può essere proposta contemporaneamente da entrambi i coniugi – e non sarebbe ragionevole immaginare che, secondo la volontà delle parti dell’Accordo, ciò debba avvenire con citazione – si tratta di stabilire se, in mancanza di una modificazione esplicita del vecchio rito, in ogni caso, anche se una sola delle parti assuma l’iniziativa, debba restare fermo il rito camerale.
Sicuramente il modello tenuto presente per la delibazione è quello “comune” fissato dal titolo VII del libro IV cod. proc. civ. per attribuire nel nostro ordinamento efficacia alle sentenze straniere; ma è altrettanto indubbio che tale modello non è stato recepito pedissequamente, assumendo connotati di “specialità” in relazione alla peculiarità dei rapporti fra Stato e Chiesa, sancito dalla stessa Costituzione all’art.7, particolarmente per quel che attiene alla giurisdizione in materia matrimoniale. A seguito dei nuovi Accordi tale peculiarità si è attenuata, ma non è scomparsa, e ciò vale a giustificare la praticabilità del rito camerale, che non è intrinsecamente incompatibile con l’introduzione mediante ricorso sottoscritto da entrambi i coniugi trattandosi di verificare se tale situazione debba restare ferma, come pure è stato detto, “per intuibili ragioni di armonia del sistema”, anche quando la richiesta provenga da uno solo dei coniugi. Su questa alternativa deve concentrarsi l’attenzione del Collegio.

9. Nel concretarsi dell’azione in domanda si inserisce in modo essenziale la forma, l’atto, cioè, in cui la domanda necessariamente si incorpora, prendendo vita. Forma elettiva della domanda, ex art. 101 c.p.c., è la citazione, in forza della quale si instaura un contraddittorio, espressione della bilateralità dell’azione che contrappone soggetto a soggetto, ponendosi l’una parte di fronte all’altra. Attraverso la citazione emblematicamente si domanda qualcosa a qualcuno e si chiede al giudice di ratificare la fondatezza della richiesta, pronunciando la sentenza di condanna. Il contraddittorio è teso, cioè, a stabilire che è il convenuto il soggetto contro cui si pretende l’attribuzione del bene della vita ope iudicis.
Ne emerge, sulla falsariga di risaputi indirizzi dottrinali, che un’azione di cui possono essere “contitolari” soggetti del rapporto (nel nostro caso: gli ex coniugi per il diritto della Chiesa, che tali chiedono di essere riconosciuti anche dal diritto della Stato) non appare compatibile con lo schema della citazione (sicchè occorrerebbe quantomeno distinguere l’ipotesi in cui la richiesta di exequatur proviene da entrambi da quella in cui la domanda sia proposta da uno solo e l’altro contesti la delibabilità della sentenza).
Per converso, si si tenta di cogliere il minimo comune denominatore logico giuridico, che unifica in “categoria” i numerosi casi in cui in diritto positivo si prevede per l’atto introduttivo la forma del ricorso (anziché quella della citazione), a prescindere dalle peculiarità strutturali del processo, o del procedimento sembra agevole riconoscere, come tratto unificante, la prevalenza della direzione della domanda verso il giudice, anziché verso la controparte, dovendosi desumere tale prevalenza non già da ragioni esteriori e formali, ma dalla connessione con la posizione giuridica che, con la proposizione della domanda, si intende far valere in giudizio. Proprio perciò, nella volontaria giurisdizione, il “ricorso” si presenta come esclusivo mezzo di accesso al giudice, dato che nei relativi procedimenti (nei quali, sovente, non vi è controparte, ed il provvedimento richiesto presenta i connotati della discrezionalità, rispetto alla quale non è ipotizzabile la postulazione di un diritto soggettivo) la tutela del soggetto che propone la domanda è in funzione di un interesse proprio dell’ordinamento che si impersona nello stesso giudice, di fronte al quale il richiedente di solito non vanta un diritto da far valere in contrapposizione all’altra parte.
In questa prospettiva, la forma del “ricorso” per l’impugnazione davanti a questa Corte di cassazione potrebbe sottendere la concezione per cui la Corte stessa, giudice (delle sentenze) dei giudici, deputata istituzionalmente ad assicurare l’uniforme applicazione della legge, oltre le posizioni contrapposte del ricorrente e dal resistente, assicura nel “dicere ius”, nell’esprimere la volontà obiettiva dell’ordinamento (sia pure rispetto ad una concreta vicenda che coinvolge interessi particolari) l’interesse pubblico alla reintegrazione dell’ordinamento violato (rispetto ad ambiti riservati all’autonomia privata).
Questa necessariamente sintetica ricognizione delle posizioni della dottrina dominante porta sicuramente ad escludere che esistano ostacoli di principio ad ammettere che la delibazione possa essere strutturata secondo modelli che comportino l’introduzione mediante ricorso e la trattazione con rito in camera di consiglio.
Anzi una soluzione siffatta si impone con riguardo ai dati del diritto positivo nell’ipotesi tipicamente regolata dall’Accordo che si riferisce a domanda “delle parti” le quale nelle normalità dei casi, nel formulare congiuntamente la richiesta di exequatur, non indirizzano la pretesa l’uno contro l’altro, ma si rivolgono al giudice per ottenere la delibazione.
In linea di principio, dunque, è compatibile con le caratteristiche tipiche del giudizio di delibazione, l’adozione delle forme camerali.
Nella locuzione “procedimenti in camera di consiglio” si ricomprendono i processi speciali che sono disciplinati da norme diverse da quelle che regolano i comuni processi, e si snodano in forme semplificate, nel segreto della camera di consiglio, venendo ad essere presa la decisione senza essere preceduta da una fase pubblica nella quale si debbano attuare le attività processuali di istruzione e preparazione della decisione disciplinate della legge processuale generale.
Nel procedimento camerale, cioè, il potere del giudice, attraverso la presentazione della ” domanda” da parte di chi chiede il provvedimento, si attua a prescindere dalla pubblicità del processo, e da una rigorosa determinazione dei comportamenti che devono essere tenuti dal soggetto che domanda e dal giudice tenuto a pronunciare.
La locuzione “procedimenti in camera di consiglio” sottolinea l’elemento formale che caratterizza l’intero svolgimento del processo, a differenza di quelli comuni in cui la segretezza viene a riguardare soltanto la deliberazione della decisione (peraltro con fondamento e giustificazione diversa); ed il potere del giudice si manifesta con maggiore pregnanza rispetto a quello della parte.
Nemmeno, quindi, la struttura e la funzione del procedimento in camera di consiglio correlato alla “domanda” presentata al giudice nella forma del ricorso si pongono come insormontabile ostacolo alla configurazione in diritto positivo di un procedimento “speciale” di delibazione, che, per effetto dell’intervenuto accordo, risulta limitato e circoscritto, non essendo più previsto l’impulso d’ufficio, ma non è radicalmente venuto meno, costringendo l’interprete ad applicare, nella sua integrità, la disciplina processualistica comune, dettata dagli artt. 796 ss. cod. civ.

10. Non costituisce sicuramente ostacolo alla richiesta dell’exequatur delle sentenze canoniche in materia matrimoniale con ricorso all’uso della locuzione “sentenza” nell’art. 8 dell’Accordo per designare il provvedimento delibativo. Come si è già rilevato nel diritto vivente giurisprudenziale l’espressione “ordinanza”, che si leggeva nella legge matrimoniale del 1929, è stata considerata sostanzialmente equivalente a quella di sentenza, per trarne le doverose implicazioni, soprattutto in fase impugnatoria. Ovviamente rovesciando i termini la soluzione non cambia, ben essendo possibile tenere fermo il rito camerale sfociante in un provvedimento che sotto la denominazione “ordinanza” continua a spiegare, come per l’innanzi, forza di sentenza, e stante tale piena equiparazione risulta perfettamente compatibile con la ratio dello Accordo che, ratificando sul punto le conclusioni dell’elaborazione giurisprudenziale, ha designato formalmente come “sentenza” il provvedimento che “decide” in ordine all’exequatur, in coerenza con il suo carattere “decisorio”.
L’argomento testuale più forte che si adduce contro la praticabilità, nell’attuale fase transitoria, del rito camerale è quello che si pretende di ravvisare nel punto 4 lettera b) del Protocollo addizionale (sopra trascritto) che richiama espressamente gli artt. 796 e 797 del codice di rito in un contesto in cui si parla espressamente di applicazione delle norme medesime (essendo noto che l’art. 796, sotto la rubrica “giudice competente”, prevede la citazione quale forma necessaria per introdurre il giudizio di delibazione destinato quindi a svolgersi nelle forme ordinarie.
Esso, però, pur se apparentemente , suggestivo, non ha giuridico pregio.
Va anzitutto precisato che il Protocollo richiama la norma genericamente e non in quanto prescrive la citazione, sicché la soluzione della vincolatività della forma non si impone automaticamente, per la forza di tale richiamo, ma è frutto di una opzione ermeneutica, di una “scelta” ragionata dell’interprete la cui ragionevolezza ha bisogno di essere verificata.
In effetti le precisazioni del Protocollo (ed è il caso di ricordare che anche l’art. 798 è richiamato, sia pure senza menzionarlo, per escludere “in ogni caso” il riesame del merito) sono tutte mirate a sottolineare la “specialità” della delibazione delle sentenze canoniche e ad assicurare che nel procedere ad essa (le cui caratteristiche strutturali e funzionali sono delineate dalla triade normativa comprendente appunto gli artt. 796, 797, 798 c.p.c.) sia offerta una maggior tutela all’ordinamento canonico rispetto a quella che spetterebbe alla stregua delle norme di diritto comune richiamate.
Occorre, perciò, sottolineare la specificità dell’ordinamento canonico, del quale il vincolo trae origine, poiché stava a cuore alla Chiesa, che si è preoccupata di metterlo ben in evidenza attraverso la puntualizzazione del Protocollo in esame, che nell’esame della sentenza ecclesiastica, sotto il profilo del rispetto dei principi dell’ordine pubblico italiano, il giudice tenesse conto delle “peculiarità” del diritto della Chiesa.
Attesa questa finalità gli articoli richiamati non comportano per il giudice italiano la esaustiva applicazione di “tutte” le prescrizioni ivi contenute, ma sono prese in considerazione, unitamente al successivo 798, come complesso delle norma regolatrici del procedimento, che viene in considerazione rappresentando la matrice comune di ogni giudizio di delibazione (salvi gli adattamenti che, per la specialità del diritto convenzionale pattizio, vengono in rilievo quando si tratta di dare esecutività a sentenza emanate da organi giurisdizionali del paese con il quale il nostro Stato si è impegnato ad un trattamento più favorevole, derogatorio della disciplina comune).
Se così è, deve giungersi alla conclusione che la norma del Protocollo in esame risulta finalizzata all’esigenza di tener conto dei principi dell’ordinamento canonico, in correlazione e in contrapposizione alla nozione di “sentenza straniera”, di cui all’art. 796, da collegare con la norma del n.4 dell’art. 797 (nozione di “passaggio in giudicato”) e con la norma dell’art. 4, lett. b, n.2 del Protocollo – che ad essa si riferisce nello stabilire l’equivalenza fra giudicato civile ed esecutività della sentenza canonica – nonché alla disposizione del n.1 art. 797 (nozione di “competenza giurisdizionale”) da intendere in rapporto al superamento del principio di “riserva della giurisdizione ecclesiastica” che è la caratteristica più saliente del nuovo concordato (nel quale, a differenza di quel che risultava dalla prima bozza di revisione, presentata alla Camera dei deputati nel novembre 1976, non vi è più cenno nel testo definitivo, essendo stato abbandonato a partire dalla seconda bozza di revisione in poi.
Il richiamo all’art. 796 c.p.c. deve essere considerato, pertanto, in contesto inscindibile con l’art. 797, finalizzato all’esigenza di adattamento dell’intera procedura del codice di rito in tema di dichiarazione d’efficacia della sentenza straniera, alla direttiva di “specificità” dell’ordinamento canonico, per quanto attiene all’exequatur della sentenza ecclesiastica.
Le “Parti contraenti” hanno voluto, cioè, operare un richiamo complessivo alla procedura prevista dal codice per differenziarla opportunamente da quella convenzionale, in funzione del suddetto principio direttivo.
Data la “ratio” della norma, nessun rilievo assume, pertanto, la circostanza specifica che nell’art. 796 sia stabilita la forma di citazione dell’atto introduttivo.
Di conseguenza nel diritto positivo, alla stregua dell’immissione dell’accordo nell’ordinamento, non discende la conseguenza che sempre e comunque il procedimento di delibazione delle sentenze ecclesiastiche debba essere essere introdotto con citazione, ma è possibile riconoscere la sopravvivenza del rito camerale, introdotto con ricorso, valorizzando l’art. 17 della legge matrimoniale, abrogato soltanto, per incompatibilità, nella parte in cui imponeva la delibazione ex officio: la cui praticabilità non incontra ostacoli concettuali, almeno tutte le volte in cui le parti siano concordi nel domandare l’exequatur.
Alla luce della evidenziata ratio la norma qui considerata va letta come se dicesse: “Con riferimento al n.2, ai fini dell’applicazione degli artt. 796 e 797 del codice italiano di procedura civile, in base al primo dei quali la domanda dell’interessato proposta, con l’intervento del P.M., davanti alla Corte d’appello del luogo in cui la sentenza deve avere attuazione e dovranno essere verificate le condizioni per la dichiarazione di efficacia elencate nei numeri da 1 a 7, si dovrà tenere conto della specificità … ecc.” Alla stregua di tale lettura tutto risulta ripetitivo, dalla locuzione “deve” proporre domanda, già risultante dall’art. 8, n.2 dell’Accordo, a quella della competenza territoriale della Corte d’Appello, già risultante dall’art. 17 della legge per l’applicazione del Concordato del ’28; ma tutto appare finalizzato al condizionamento e all’adattamento delle regole generali del rito civile alle particolari esigenze della procedura convenzionale, ispirata al principio di specificità.

11. A conferma delle raggiunte conclusioni ermeneutiche possono svolgersi, peraltro, altre considerazioni.
Anzitutto lascia perplessi l’adozione di una formula così indiretta e tortuosa per affermare, qualora si fosse voluto stabilirlo, che la delibazione (contrariamente a quel che avveniva nel diritto previgente) si sarebbe dovuta richiedere nella forma della citazione.
Se lo Stato, per realizzare il principio dell’equiparazione anche formale, fra la Chiesa cattolica (rappresentata dalla Santa Sede) e gli altri soggetti della comunità plurinazionale, avesse voluto riaffermare l’applicabilità del diritto comune, avrebbe dovuto dirlo espressamente. Ma tale volontà sarebbe stata ben difficilmente conciliabile con il contesto di un Accordo la cui ragione d’essere era proprio quella di mantenere la specialità del trattamento nella delibazione della sentenza ecclesiastica, mentre per la controparte, attenta a mantenere il trattamento privilegiato in ambito il più largo possibile, era evidente l’interesse di offrire per il fedele-cittadino italiano forme più semplici e rapide di exequatur.
Rilievo va dato anche alla circostanza che il “Protocollo addizionale”, come risulta dalla premessa, ha funzione meramente interpretativa delle norme contenute nell’Accordo; e quindi va letto tenendo presente questa sua essenziale funzione integrativa e specificativa del significato delle disposizioni contenute nell’Accordo (di cui non potrebbe in nessun caso stravolgere il significato, dovendo, invece, necessariamente combinarsi con esse), trattandosi esclusivamente di svolgere la funzione di “integrare e specificare”. Sarebbe perciò procedimento ermeneutico scorretto invocare il Protocollo per modificare il significato di un dettato normativo dell’Accordo di per sè chiaro ed esauriente.
La norma interpretativa, come tale, non può alterare la portata della norma, o frammento di norma, da interpretare, che risulti esaustivamente esplicita nella sua portata.
Orbene, nel raffronto tra il punto 4 lett. b) del Protocollo addizionale ed il n.2 dell’art. 8 dell’Accordo, sembra evidente che se il richiamo all’art. 797 CPC, a tutto concedere, potrebbe avere un suo spazio integrativo quello all’art. 796 c.p.c., a prescindere dalla lettura che nel precedente paragrafo ne è stata data, non ha una sfera di incidenza specifica per quanto attiene alla introduzione della domanda di citazione.
La norma del “Protocollo” proponendosi di chiarire la portata applicativa delle norme di cui agli artt. 796 e 797 c.p.c.(che sarebbero venuti comunque in considerazione nella parte (1) l’art. 17 della legge matrimoniale non caducata, riguardante il rito camerale) precisa cosa si debba intendere quando la legge italiana richiama la legge del luogo in cui si è svolto il giudizio; e quale sia la sentenza passata in giudicato in relazione alle norme di diritto canonico, riguardando condizioni che attengono all’oggetto ed al merito del giudizio di delibazione e non anche alla forma del giudizio medesimo; sicchè, in definitiva, la prescrizione del contenzioso ordinario, in luogo del rito camerale dovrebbe desumersi dalla mera menzione dell’art. 796 c.p.c. in relazione ad un giudizio il cui contenuto è certamente assimilato a quello della sentenza straniera.
Con specifico riguardo alla “forma” della delibazione, il richiamo generico all’articolo 796 CPC non è costitutivo del ripristino della regola generale, riguardando il processo delibatorio (in connessione con gli artt. 797 e 798) nella sua globalità come lex generalis della delibazione stessa, residualmente applicabile quando la lex specialis dell’exequatur per le sentenze ecclesiastiche non dispone diversamente, essendo consentito fare riferimento all’art. 17 l. matrimoniale che, saldandosi con i principi generali sulla forma della domanda, sembra pur sempre invocabile quando il rito camerale si adegua al carattere non contenzioso che gli è impresso dalla “domanda” di entrambe le parti, dovendosi all’apposto far ricorso alla norma generale processualistica e introdurre la richiesta con citazione quando la pretesa alla delibazione si fa valere davanti al giudice “contro” l’altra parte che si oppone (o quantomeno fa presumere tale opposizione avendo rifiutato la proposizione congiunta della domanda, che di per sè non pare compatibile con la figura del processo ordinario di cognizione).
Si può escludere, pertanto, che la mera menzione dell’art. 796 c.p.c.; nel Protocollo addizionale abbia valore interpretativo vincolante nel senso della prescrittività della forma della citazione per l’atto introduttivo del procedimento di delibazione.
Se così è, se, in aderenza a quanto ritenuto da qualificata dottrina, risulta tuttora consentito il ricorso introduttivo di procedura camerale, quando i coniugi domandano congiuntamente la delibazione, mentre la richiesta di uno solo di essi, che non esplicita la concordia nella volontà di conseguire l’exequatur, postula l’adozione delle forme ordinarie, trova conferma sotto altro determinante profilo la inconsistenza giuridica della pretesa dei ricorrenti. Essi non possono certamente ovviare, con l’accordo attuale che li fa litisconsorti in sede d’impugnazione nel richiedere che alla delibazione si pervenga in camera di consiglio (venendo ad esser surrogato il ricorso dall'”insistenza” di un solo di essi per la delibazione nella pendenza del procedimento camerale per errore introdotto per impulso d’ufficio). In coerenza con i principi generali a giustificazione del rito camerale, applicabile anche nell’attuale situazione normativa, deve esserci la domanda congiunta, che mal si concilia con i principi del processo ordinario, mentre si la richiesta proviene da una sola di esse è d’uopo utilizzare le forme della citazione.
La formula “su domanda delle parti o di una delle parti”, contenuta al n.2 dell’art. 8 dello Accordo, riferita all’introduzione del giudizio di delibazione non risponde al tipo di procedimento ordinario contenzioso nell’ipotesi in cui l’atto introduttivo sia sottoscritto da entrambi i coniugi. La citazione, infatti, come si è già ricordato, si correla ad un tipo di processo volto alla valutazione di interessi che, fin dall’origine, si presentino in contrasto fra loro, mentre, in line di principio, la necessità di adire il giudice in tema di delibazione di sentenze ecclesiastiche di nullità matrimoniale non nasce dall’impossibilità per le parti di risolvere una controversia con altri mezzi, ma dalla superiore esigenza, di natura pubblicistica, della rivendicazione, da parte dello Stato, del potere di pronunciarsi sulla validità del vincolo matrimoniale nello ambito del proprio ordinamento. La delibazione si presenta cioè come atto necessario ed imprescindibile per l’efficacia di tale sentenza anche quando sul punto non c’è contrasto fra gli interessati (ed è eventualità da considerare, statisticamente parlando, di elevata probabilità). Si può comprendere, perciò, che il legislatore, adottando la locuzione composita, abbia inteso, nel quadro della specialità del procedimento delibativo, significare la possibilità di persistenza di un modello procedimentale più snello in mancanza di contestazioni.
Quando i coniugi concordino nella richiesta di exequatur, l’adozione dello strumento della procedura camerale appare da privilegiare, risultando del tutto coerente con i principi che regolano tale rito.
La soluzione accolta significativamente risponde a quella delineata nel disegno di legge n.2252 del Senato della Repubblica, presentato nella passata legislatura, e decaduto per fine anticipata della legislatura stessa.
In tale disegno, all’art. 20, si distingue appunto la domanda congiunta (da trattare con il rito camerale su ricorso di entrambi i coniugi) con formula riecheggiente quella contenuta nell’art. 8 n.13 della recente legge n.74 del 1987 in tema di divorzio, da quella proposta con citazione da una sola delle parti.
L’orientamento del legislatore, per forme camerali di delibazione di sentenze straniere si desume anche dalla recente legge sulle adozioni n.187 del 1983 che la prevede all’art. 33. Nello stesso senso si possono ricordare, oltre alla citata legge n.74 del 1987, sempre in materia di divorzio, l’art. 9 della l.n.898 del 1970; l’art. 20 della l.436 del 1978 e l’art. 250 comma 4 cod. civ.in materia di filiazione naturale.

12. Pur riconoscendosi che una domanda presentata da entrambe le parti congiuntamente sia inconciliabile con la forma della citazione (non potendosi giustificare tale forma con la necessità di rispettare il contraddittorio con il P.M., il quale è un interveniente, e non certo un convenuto), stante l’alternativa dizione contenuta nell’Accordo, che prevede anche la domanda di una sola parte, si tratta di stabilire se sia ammissibile l’introduzione del giudizio di delibazione con rito camerale anche quando sia uno solo degli interessati a prendere l’iniziativa dell’exequatur.
La risposta negativa si impone per la forza “a contrario” che scaturisce dalle considerazioni che si sono venute svolgendo per giungere alla conclusione positiva limitatamente alle ipotesi della domanda congiunta, in coerenza con i tratti caratteristici della forma della domanda e del rito camerale.
Non ha forza persuasiva l’argomento di chi vorrebbe generalizzare il meccanismo camerale “per evidenti ragioni di coerenza sistematica”, contestando la correttezza della distinzione fra necessità della citazione, ovvero ammissibilità del ricorso in base all’atteggiarsi delle parti. È vero, all’opposto, che questo atteggiamento, proiettato verso il giudice, ovvero dialetticamente teso a contestare la contraria pretesa altrui, si pone come elemento di discrimine fra il rito ordinario contenzioso e quello camerale.
Ovviamente, nell’ottica della delibazione d’ufficio, la adozione del rito camerale appariva imprescindibile. Venuta meno l’officiosità, in tanto si può applicare detto rito in quanto ne sussistano i presupposti di fondo.
Nemmeno varrebbe argomentare dalla esclusione della possibilità di riesame del merito, ex art. 398 cod. proc. civ. nella “speciale” delibazione delle sentenze ecclesiastiche.
È esatto, ma non determinante a favore della opzione interpretativa più lata, rilevare che tale esclusione toglie spazio a possibili conflitti che, per essere risolti, avrebbero comportato lo svolgimento di apposita attività istruttoria, riducendosi l’area della contestazione a profili di puro diritto, agevolmente trattabili in sede di verifica dei presupposti di delibabilità della specifica sentenza considerata; e ciò spiega perché tale procedimento camerale, in principio, non ripugni alla richiesta dell’exequatur. Ma è pur sempre vero che ridurre l’area della conflittualità sottoponibile al giudice non significa eliminarla in radice, e finché essa non sia facilmente esclusa, restando latente, sia pure in termini di mera eventualità, l’iter processuale da percorrere deve essere quello tipicamente predisposto a tale fine, del processo ordinario contenzioso da introdurre con citazione.
Nemmeno giova rilevare che, non esistendo una differenziazione in diritto positivo, attinta la regolamentazione alla residuale parte vigente dell’art. 17 della legge matrimoniale più volte citata del 1929, dovrebbe applicarsi il brocardo uti lex non distinguit, nec nos distinguere debemus.
Un ragionamento siffatto pecca di atomismo esegetico, dimenticando il fondamentale canone della sistematicità.
Il rito camerale va adottato in quanto la presentazione della richiesta congiunta rende avvertiti che al giudice si chiede, di comune accordo, di convalidare quella sentenza ecclesiastica che “sta bene ” ad entrambi, e che pur tuttavia non potrebbe spiegare effetti giuridici nel nostro ordinamento, nonostante tale convergenze di interessi, se non a seguito della “convalida” del magistrato italiano.
Le caratteristiche del rito camerale sono, come si è posto in evidenza, incompatibili con una conflittualità “radicale”, la cui potenzialità si manifesta nella decisione di adire il giudice per l’exequatur disgiuntivamente anziché congiuntamente.
Sotto la vigenza dell’originario testo dell’art. 17 della l. n.847 del 1929, prima della parziale abrogazione per incompatibilità con l’art. 8 dell’Accordo, forzosamente la conflittualità fra i coniugi doveva essere incanalata in quelle forme, con una forzatura rispetto a principi che si giustificava per l’interprete come ineluttabile effetto della scelta del legislatore. Ma una volta svincolato il giudizio, volto ad ottenere l’exequatur, dalle strettoie della officiosità, i principi generali si riespandono in tutta la loro virtualità ed è gioco forza trarne gli imprescindibili corollari, secondo un paradigma che, sia pure al livello dell’iniziativa legislativa, si era ritenuto di dover privilegiare.

13. Si possono trarre a questo punto le fila del discorso sin qui condotto.
Nella situazione attuale di mancata emanazione della legge di attuazione degli Accordi intervenuti fra lo Stato Italiano e la Santa sede, a modifica del concordato del 1929, poiché gli Accordi stessi, ed il collegato Protocollo aggiuntivo, sono stati recepiti nel nostro ordinamento con la legge n.121 del 1985, l’interprete è chiamato a stabilirne gli effetti, coordinandoli con la legislazione preesistente.
Sicuramente la delibazione delle sentenza ecclesiastiche in tema di nullità matrimoniale è tuttora sottoposta ad un regime di “specialità” che non trova più il suo fulcro nell’intero art. 17 della legge matrimoniale n.847 del 1929, dovendosi ritenere abrogata tale norma per incompatibilità con l’art. 8 dello Accordo, solo nella parte in cui l’exequatur si realizzava per impulso d’ufficio, mediante il rito camerale.
L’art. 17, tuttavia, nella parte residualmente vigente, va coordinato con il principio della “domanda ” introdotto dall’Accordo e con i principi generali che reggono il c.d. procedimento camerale ed il rito ordinario contenzioso nel senso che l’atto introduttivo della richiesta di exequatur dovrà rivestire le forme del ricorso, ovvero della citazione a secondo che sia riconducibile alla domanda di entrambe le parti interessate, ovvero di una sola di esse snodandosi il successivo procedimento, in coerenza con l’atto suddetto, secondo le regole del procedimento, in camera di consiglio, ovvero di quello ordinario.
La pretesa riespansione della regola generale dettata dall’art. 796 cod. proc. civ., il quale prevede che il giudizio delibatorio inizi con citazione, non si giustifica alla stregua del richiamo contenuto nell’art. 4 lett. b) del Protocollo addizionale che, nel dichiarare applicabili al procedimento di delibazione gli artt. 796 e 797, si limita a sottolineare che in tale applicazione si dovrà tener conto della specificità dell’ordinamento canonico.
La ratio del richiamo va radica, infatti, nella evidenziazione di tale specificità, intendendosi ribadire che il procedimento delibativo richiamato nella sua globalità, nominando gli articoli che ne segnano i fondamentali connotati di diritto comune (e non venendo in considerazione il successivo art. 798 poiché gli accordi ne escludono radicalmente l’applicabilità) deve essere orientato tenendo conto oculatamente delle caratteristiche peculiari del diritto della Chiesa Cattolica, con evidente riferimento al n.7 dell’art. 798 C.P.C.
Se le parti dell’Accordo avessero voluto espressamente prescrivere l’adozione esclusiva della forma della citazione l’avrebbero detto (pur risultando assai poco giustificabile, sotto questo profilo, il ripudio di forme che ben si addicono alla tendenziale non conflittualità della richiesta di delibazione, e risultando assolutamente inconciliabile con le forme della citazione, che postula la domanda di una parte contro l’altra, la previsione di una domanda congiunta, perfettamente in sintonia, invece, con il rito camerale, praticabile quando si chiede al giudice di ratificare quel che le parti vogliono entrambe, e che non possono conseguire se non ope iudicis).
Il carattere interpretativo dell'”Accordo” del “Protocollo” postula che la norma di specificare ed integrare offra margini di oscurità e di incertezza nella lettura esegetica; ma non è questo il caso dell’art. 8 n.2 che risulta estremamente chiaro nel sostituire al procedimento officioso quello su domanda.
Dalla data di entrata in vigore della l. n.121 del 1985 è stata abrogata la delibazione su impulso d’ufficio; pertanto il rapporto processuale, ciononostante iniziato officiosamente, è inficiato da nullità radicale insanabile, non potendone comportare conclusione retroattiva la domanda di parte che pretenda di innestarsi su di esso, poiché un rapporto processuale radicalmente nullo non è suscettibile di essere riportato in vita, mutando natura (e divenendo da officioso dispositivo).
Conseguentemente la parte interessata non potrebbe costituirsi ritualmente in quel processo per coltivare l’istanza di delibazione, nemmeno utilizzando gli strumenti processuali che consentono l’intervento in giudizio da altri proposto per valorizzare il precedente rapporto processuale officioso quale veicolo per la cognizione del giudice sulla domanda che per la prima volta verrebbe proposta con l’atto processuale che la contiene, il quale, a tutto concedere, potrebbe valere come atto introduttivo di un “nuovo” giudizio di delibazione nel raffronto con il procedimento originario officioso affetto da nullità.
A maggior ragione l’effetto (taumaturgico e non certo giuridico) di trasformare un rapporto processuale nullo, officiosamente iniziato, in procedimento in camera di consiglio su domanda di parte non potrebbe realizzarsi a seguito della verbalizzazione della dichiarazione della parte (comparsa personalmente, su convocazione d’ufficio) di “insistere” per la delibazione: sia perché quella dichiarazione non è certamente domanda giudiziale; sia perchè quando anche lo fosse, la domanda di un solo dei coniugi non potrebbe mai giustificare il ricorso, con conseguente adozione del rito in camera di consiglio volto ad ottenere il provvedimento di exequatur.
La Corte d’Appello di Venezia ha correttamente escluso, nella situazione di specie, di poter addivenire alla delibazione; il ricorso, pertanto, va rigettato, correggendosi la motivazione del provvedimento impugnato nella parte in cui si postula, come esclusivo strumento processuale per la delibazione, nell’attuale situazione di carenza di normazione attuativa dell’Accordo, la forma della citazione, che va adottata esclusivamente quando l’iniziativa venga presa da un solo dei coniugi, dovendosi ritenere, invece, tuttora ammissibile la delibazione in camera di consiglio introdotta con ricorso se la domanda provenga congiuntamente dai coniugi.

14. Nessun provvedimento deve essere emesso in ordine alle spese, non essendovi stata resistenza.

P.Q.M

La Corte di Cassazione – a S.U. rigetta il ricorso.