Sentenza 04 marzo 2005, n.4795
Corte di Cassazione. I Sezione Civile. Sentenza 4 marzo 2005, n. 4795: “Passaggio in giudicato della sentenza di cessazione degli effetti civili del matrimonio e successiva delibazione della sentenza ecclesiastica di nullità”.
Pres. Criscuolo – Rel. Panzani – P.M. Delli Priscoli (conf.)
Svolgimento del processo
Con citazione 27 novembre 2000 A. A. conveniva avanti la Corte d’appello di Milano il coniuge C. L. per sentir dichiarare efficace nell’ordinamento italiano la sentenza emessa il 28 luglio 1999 dal Tribunale Ecclesiastico
Regionale Umbro, confermata dal Tribunale Ecclesiastico Regionale Etrusco e dichiarata esecutiva dal Supremo Tribunale della Segnatura Apostolica con decreto 9 ottobre 2000, con cui era stata dichiarata la nullità del matrimonio concordatario contratto dai coniugi in Mortara (PV) il 27 dicembre 1965. Con sentenza 16 novembre 2001 la Corte d’appello di Milano dichiarava efficace nell’ordinamento italiano la sentenza del Tribunale ecclesiastico Regionale Umbro, disattendendo la contrarie conclusioni del Procuratore Generale che aveva argomentato dall’asserita efficacia preclusiva della sentenza con cui il Tribunale di Perugia aveva dichiarato la cessazione degli effetti civili del matrimonio contratto dalle parti con rito concordatario, sentenza pronunciata nel marzo 1991 e passata in giudicato
ancor prima dell’instaurazione del giudizio canonico di nullità. Affermava in particolare la corte di merito
che la sentenza di divorzio non preclude la delibabilità della sentenza ecclesiastica che abbia dichiarato la nullità
del matrimonio concordatario, a condizione che nell’ambito del giudizio divorzile non sia stato espressamente
statuito in ordine alla validità del matrimonio medesimo, perché l’espansibilità del giudicato non può
giungere a comprendere questioni come quella relativa alla nullità del matrimonio che, al più, sono state oggetto
di un accertamento meramente incidentale, tenuto conto del fatto che quelle afferenti allo stato delle
persone sono suscettibili di passaggio in giudicato solo ove scaturiscano da un accertamento svolto in via principale.
In proposito la Corte d’appello ha richiamato il principio per cui, ai fini ora detti, le statuizioni incidenti
sullo status delle persone non possono essere adottate incidenter tantum, ma debbono essere necessariamente
assunte, con accertamento suscettibile di avere efficacia di giudicato, ex art. 34 c.p.c.
Ha proposto ricorso il Procuratore Generale presso la Corte d’appello di Milano con unico motivo. A. A. e
C. L. non hanno svolto attività difensiva.
Motivi della decisione
Con l’unico motivo di ricorso il P.G. presso la Corte d’appello di Milano deduce violazione della legge 28
marzo 1985, n. 121, che ha dato esecuzione all’Accordo di revisione del Concordato tra lo Stato e la S. Sede del
18 febbraio 1984, in relazione agli artt. 64 legge n. 218/85 e 324 c.p.c.
Osserva il P.G. che la sentenza impugnata ha prestato adesione al consolidato orientamento giurisprudenziale
di questa Corte, in forza del quale, passata in giudicato la sentenza che ha dichiarato la cessazione degli effetti
civili del matrimonio, è delibabile la sentenza ecclesiastica che abbia dichiarato la nullità del matrimonio concordatario, quando nel giudizio divorzile non sia stato espressamente statuito in ordine alla validità del
matrimonio, perché l’espansibilità del giudicato non può giungere a comprendere questioni come quella relativa
alla nullità del matrimonio che siano state oggetto di un accertamento meramente incidentale.
Osserva il ricorrente che il sistema di delibazione menzionato nell’art. 8, comma 2, dell’Accordo tra Stato e
Chiesa del 1984 è subordinato alle condizioni previste dall’art. 64 della legge n. 218/95, in quanto l’art. 8 richiama
le “altre condizioni richieste dalla legislazione italiana per la dichiarazione di efficacia delle sentenze
straniere”. Secondo il ricorrente l’omessa contestazione nel giudizio di divorzio della validità del matrimonio
comporta, in ragione del fatto che il giudicato copre il dedotto ed il deducibile, l’impossibilità che tra le medesime
parti si instauri successivamente un procedimento di delibazione della sentenza ecclesiastica potenzialmente
idoneo a rimettere in discussione quell’accertamento.
Ad avviso del P.G. le circostanze poste in rilievo dalla sentenza impugnata e cioè la diversità per petitum
e causa petendi del giudizio di divorzio e del giudizio di delibazione ed il fatto che il giudizio di divorzio s’instaura sulla base di “predeterminate condizioni proprie del diritto italiano, cui resta estranea ogni considerazione officiosa sulla validità del vincolo” non sarebbero risolutive.
Se è vero, infatti, che il giudizio di divorzio riguarda il matrimonio – rapporto, mentre il giudizio di
delibazione si riferisce al matrimonio – atto di cui si dichiara l’invalidità ex tunc, tale diversità non inciderebbe
sul principio del giudicato implicito. Questo infatti estende i suoi effetti non soltanto alla decisione relativa
al bene della vita richiesto dall’attore, ma anche a quella, implicita, relativa alla validità ed efficacia del rapporto. Anche il richiamo della sentenza impugnata all’art. 34 c.p.c.. non sarebbe risolutivo, perché la questione
relativa alla validità ed esistenza del vincolo matrimoniale non potrebbe dirsi “distinta ed indipendente”
dal fatto costitutivo dedotto nel giudizio di divorzio. Non rientrerebbe pertanto tra le questioni pregiudiziali
in senso tecnico cui l’art. 34 fa riferimento.
E ancora, osserva il ricorrente, se l’esistenza di un valido matrimonio rileva come presupposto indispensabile per
l’accoglimento o il rigetto della domanda di divorzio e se ancora la questione della validità del vincolo incide
su uno status e come tale deve essere decisa con efficacia di giudicato, dovrebbe concludersi che la questione
pregiudiziale ex art. 34 c.p.c. è introdotta automaticamente da un’eccezione di nullità ovvero che, anche in
mancanza di domanda di parte, sarebbe la legge stessa ad imporre che l’accertamento sul punto avvenga non
incidentalmente, ma con efficacia di giudicato.
Infine la circostanza che i coniugi nel giudizio di divorzio vertito avanti al Tribunale di Perugia non avessero
contestato l’esistenza e validità del vincolo matrimoniale, comporterebbe preclusione a rimettere in discussione
nel giudizio avanti al Tribunale ecclesiastico la validità del vincolo. Tra la sentenza di divorzio e quella
di nullità intercorrerebbe un rapporto di contrarietà che impedirebbe la delibazione ai sensi dell’art. 64 legge
n. 218/95.
Il ricorso non è fondato.
Va premesso che questa Corte, a Sezioni Unite, con sentenza 13 febbraio 1993, n. 1824, ha affermato il
principio secondo il quale, a seguito dell’accordo di revisione del concordato lateranense stipulato il 18 febbraio
1984, ratificato e reso esecutivo con legge 25 marzo 1985, n. 121, è stata abolita la riserva di giurisdizione
in favore dei Tribunali ecclesiastici sulla cause di nullità, dei matrimoni concordatari, in precedenza stabilita
dall’art. 34, comma 4, del concordato del 1929, con la conseguente concorrenza della giurisdizione dei giudici
italiani. L’interpretazione delle Sezioni Unite è stata recepita da questa sezione nelle sentenze 18 aprile 1997,
n. 3345, 19 novembre 1999, n. 12867 e 16 novembre 1999, n. 12671.
Ancora va osservato che l’affermazione, contenuta nella pronuncia n. 3345 del 1997 di questa Corte, cui il
P.G. ricorrente ha fatto ampio riferimento, secondo la quale la cognizione della domanda di divorzio presuppone
in ogni caso l’accertamento della esistenza e validità del matrimonio, è da considerare superata dal successivo
orientamento espresso da questa Suprema Corte nella sentenza n. 4202 del 2001, nella quale si è posto
in luce che la domanda di divorzio ha causa petendi e petitum diversi da quelli della domanda di nullità del
matrimonio e che ove nel giudizio di divorzio le parti non introducano esplicitamente questioni sull’esistenza
e validità del vincolo – che darebbero luogo a statuizioni incidenti sullo status delle persone, e quindi da decidere
necessariamente, ai sensi dell’art. 34 c.p.c., con efficacia di giudicato – l’esistenza e la validità del matrimonio
costituiscono un presupposto della pronuncia di divorzio, ma non formano oggetto di specifico accertamento
suscettibile di determinare la formazione del giudicato (v. altresì, circa i criteri per l’accertamento della
identità dei due giudizi di nullità, Cass. 1999 n. 12671).
Per questa ragione la sentenza di divorzio – che ha causa petendi e petitum diversi da quelli della sentenza di nullità
del matrimonio, investendo il matrimonio – rapporto e non l’atto con cui è stato costituito il vincolo tra i
coniugi – ove nel relativo giudizio non si sia espressamente statuito in ordine alla validità del matrimonio
(con il conseguente insorgere delle problematiche poste dalla statuizione contenuta nell’art. 8, comma 2,
lett. c dell’Accordo del 18 febbraio 1984 tra lo Stato Italiano e la S. Sede), non impedisce la delibabilità della
sentenza dei Tribunali ecclesiastici che abbia dichiarato la nullità del matrimonio concordatario, in coerenza
con gli impegni concordatari, assunti dallo Stato Italiano e nei limiti di essi (conf. sez. I, 25 giugno 2003, n.
10055, rv. 564532).
È poi opportuno ricordare che questa Corte ha affermato il principio per cui, una volta che nel giudizio con il
quale sia stata chiesta la cessazione degli effetti civili del matrimonio concordatario venga accertata la spettanza,
ad una delle parti, dell’assegno di divorzio, ed una volta che su di essa si sia formato il giudicato, la relativa statuizione si rende intangibile ai sensi dell’art. 2909 c.c. anche nel caso in cui successivamente ad essa sopravvenga
la delibazione di una sentenza ecclesiastica di nullità del matrimonio (Sez. I, 23 marzo 2001, n. 4202,
rv. 545091). Invero gli impegni assunti dallo Stato italiano con l’accordo del 18 febbraio 1984, si sostanziano,
nella materia de qua, secondo la lettera e la ratio dell’art. 8, nell’obbligo per lo Stato di dichiarare efficaci “le sentenze di nullità di matrimonio pronunciate dai Tribunali ecclesiastici”, mentre resta rimessa alla competenza
sostanziale dello stato italiano la disciplina dei rapporti patrimoniali fra i coniugi derivanti dai conseguiti effetti
civili dei matrimoni concordatari, come si evince dal disposto dell’art. 8, comma 1, che essenzialmente rimanda
in proposito alle disposizioni del codice civile.
Ne deriva che nessun principio concordatario, a proposito della sopravvenienza – rispetto alla attribuzione con
sentenza passata in giudicato di un assegno di divorzio – della delibazione di una sentenza ecclesiastica di nullità
del matrimonio, osta alla piena operatività dell’art. 2909 c.c. in forza del quale, una volta accertata in un
giudizio fra le parti la spettanza di un determinato diritto, con sentenza passata in giudicato, tale spettanza non
può essere rimessa in discussione – al di fuori degli eccezionali e tassativi casi di revocazione previsti dall’art.
395 c.p.c. fra le stesse parti.
Le altre parti del giudizio non hanno svolto attività difensiva, sì che non occorre pronunciare sulle spese.
(Omissis)
Autore:
Corte di Cassazione - Civile
Nazione:
Italia
Parole chiave:
Matrimonio, Divorzio, Delibazione, Coniugi, Assegno di mantenimento, Sentenza passata in giudicato
Natura:
Sentenza