Osservatorio delle libertà ed istituzioni religiose

Olir

Osservatorio delle Libertà ed Istituzioni Religiose

Documenti • 26 Maggio 2007

Sentenza 04 aprile 2007, n.14102

Corte di Cassazione. Sezione penale Sez. VI. Sentenza 4 aprile 2007, n. 14102: “Potestà genitoriale ed educazione secondo i principi della religione islamica”.

(omissis)

Svolgimento del processo

1. S.M. è stato condannato in primo grado dal giudice del Tribunale di Bolzano – Sezione distaccata di Merano alla pena di un anno di reclusione per il reato di sottrazione di persona incapace, previsto e punito dall’art. 574 c.p. (imputazione così corretta all’udienza del 13.2.2004) per avere sottratto, a partire dal gennaio 2002, la figlia minore S.Z. (nata il (OMISSIS) dal suo rapporto con E.G.) alla madre naturale, portandola in Pakistan e non riportandola più in Italia.

2. Con la sentenza del 10.3.2005 la Corte di appello di Trento – Sezione di Bolzano, in riforma della suddetta sentenza di condanna, ha dichiarato il difetto di giurisdizione del giudice italiano affermando che l’imputato, quando si allontanò da (OMISSIS), era in perfetta regola avendo l’autorizzazione della convivente E.G. a portare con sè la bambina e sostenendo poi che “appare più ragionevole, e comunque più in armonia con il principio del favor rei che lo stesso, ritornato in patria e forse sottoposto a pressioni del suo clan, abbia deciso di lasciare la bambina ai suoi perchè la educassero secondo i principi dell’Islam”.

Secondo il giudice di appello non risulta, dunque, “che in Italia sia stata compiuta alcuna azione od omissione che consenta di far ritenere che il reato sia stato commesso anche solo in parte nel territorio nazionale e che pertanto sussisterebbe la giurisdizione del giudice italiano”.

3. Avverso tale decisione ricorre per cassazione il Procuratore generale presso la Corte di appello di Trento – Sezione di Bolzano.

Nel suo ricorso il Procuratore ricorrente espone analiticamente i fatti di causa, sottolineando che la madre naturale ha sempre affermato di aver dato il suo consenso per il viaggio della figlia in Pakistan insieme al padre solo per le ferie; che in tal senso deve intendersi anche la sua dichiarazione acquisita su richiesta dell’imputato; che questi è tornato in Italia senza riportare la figlia in (OMISSIS), luogo della residenza della madre naturale e della minore.

Tanto premesso in fatto il Procuratore generale sostiene che:

a) la Corte di appello ha travisato i fatti nell’affermare l’esistenza di una autorizzazione della madre a che l’imputato portasse definitivamente la figlia in Pakistan, giacchè al contrario non è mai venuta meno la volontà della madre di tenere con sè la figlia e l’autorizzazione era limitata ad un viaggio per ferie;

b) quando ha negato che l’imputato sia partito dall’Italia con l’intenzione di non riportare la figlia alla madre la Corte di appello ha errato nel valutare le prove come risulta perfino dall’atto di appello di S.M. nel quale è rivendicata la sua intenzione di far ricevere alla figlia “tuia educazione morale, religiosa e spirituale di tipo islamico che mai in Italia … avrebbe potuto avere”;

c) è comunque errato il riferimento della Corte di appello ad un presunto valido consenso giacchè gli obblighi dei genitori nei confronti della prole hanno natura legale e presuppongono” la contitolarità dei poteri-doveri previsti dal codice civile;

d) la Corte di appello non ha considerato che il reato di cui all’art. 574 c.p. è reato permanente e conseguentemente ha errato anche in ordine al luogo di inizio dell’azione che è quello della azione iniziale di sottrazione del minore;

e) anche qualora la partenza della figlia fosse stata legittima la sottrazione di minore esplica i suoi effetti a (OMISSIS) e la madre naturale della bambina ha il diritto di esercitare i suoi poteri – doveri nei confronti della figlia là dove è il centro dei suoi interessi e cioè in (OMISSIS); con la conseguenza che, anche a norma dell’art. 10 c.p.p., n. 3, la competenza va determinata ai sensi degli artt. 8 e 9 c.p.p.;

f) essendo l’imputato tornato in Italia egli al suo ritorno ha continuato a tenere la condotta illecita e sono pertanto state erroneamente applicate le norme che regolano la competenza territoriale (artt. 8, 9 e 10 c.p.p.);

g) per il reato de quo è prevista la pena edittale da uno a tre anni ed è stata sporta querela ; così che anche nel caso che si dovesse ritenere il reato consumato esclusivamente in territorio estero ai danni della cittadina italiana residente in Italia dovrebbe trovare applicazione l’art. 10 c.p. e sarebbe garantita comunque la giurisdizione del giudice italiano.

Motivi della decisione

1. La Corte di appello di Trento – Sezione di Bolzano era stata chiamata a giudicare, su appello dell’imputato S.M., padre naturale di S.Z. (nata il (OMISSIS) dal rapporto dell’imputato con la cittadina italiana E.G.), della sottrazione della figlia, condotta in Pakistan nel gennaio 2002 all’età di quattro anni e mai più ricondotta in Italia, a (OMISSIS), ove risiede E.G., madre naturale della bambina.

2. Il giudice di appello – in riforma della sentenza di primo grado che aveva condannato S.M. per il reato di sottrazione di persona incapace, previsto e punito dall’art. 574 c.p. – ha dichiarato il difetto di giurisdizione del giudice italiano affermando che l’imputato, quando si allontanò da (OMISSIS), era in perfetta regola avendo l’autorizzazione della convivente E.G. a portare con sè la bambina e sostenendo poi che “appare più ragionevole, e comunque più in armonia con il principio del favor rei che lo stesso, ritornato in patria e forse sottoposto a pressioni del suo clan, abbia deciso di lasciare la bambina ai suoi perchè la educassero secondo i principi dell’Islam”.

Secondo il giudice di appello non risulta, dunque, “che in Italia sia stata compiuta alcuna azione od omissione che consenta di far ritenere che il reato sia stato commesso anche solo in parte nel territorio nazionale e che pertanto sussisterebbe la giurisdizione del giudice italiano”.

3. La sentenza – impugnata dinanzi a questa Corte dal Procuratore generale presso la Corte di appello di Trento – Sezione di Bolzano – va annullata perchè è illogica nella motivazione ed appare in contrasto con la legge penale e con le norme regolatici della giurisdizione.

E’ appena il caso di ricordare in premessa (e del resto non è in discussione nel presente procedimento) che nel nostro ordinamento il delitto di sottrazione di persona incapace di cui all’art. 574 c.p. è configurabile anche da parte di un genitore nei confronti dell’altro, dal momento che entrambi i genitori sono contitolari dei poteri-doveri disciplinati dall’art. 316 c.c. (cfr., ex plurimis, Cass., 6^, sent. n. 11415 del 4.3.2002).

La norma incriminatrice in questione punisce, con la stessa pena edittale, tanto la “sottrazione” del minore degli anni quattordici alla potestà dei genitori quanto una “specie” della sottrazione stessa e cioè la “ritenzione” del minore contro la volontà dei genitori, che si realizza con il ritenere indebitamente il minore che si trova nella disponibilità dell’agente per una causa lecita. Sotto il profilo del trattamento sanzionatorio sono dunque equiparati colui che “sottrae” il minore, infrangendo, per così dire dall’esterno, il confine naturale e giuridico della potestà genitoriale e colui che, avendone la legittima disponibilità, “trattiene” indebitamente il minore, violando la condizione essenziale ed i naturali limiti posti alla sua disponibilità e cioè l’obbligo imprescindibile di “restituire” il minore alla sfera di vigilanza e di cura di chi è titolare o contitolare della potestà di genitore.

Ed una siffatta equiparazione appare pienamente giustificata dalla identità del bene giuridico tutelato nelle ipotesi della “sottrazione” o della “ritenzione” del minore degli anni quattordici e dall’eguale giudizio di disvalore che accomuna le due condotte che sottraggono il minore ai compiti di vigilanza e di educazione riservati ad entrambi genitori dall’ordinamento nell’interesse del minore stesso e della società.

4. Alla luce di queste premesse normative la condotta di un genitore che – disponendo pienamente ed unilateralmente della figlia minorenne sulla base di un’autorizzazione dell’altro genitore circoscritta, condizionata e temporalmente limitata ad un periodo di ferie conduce la figlia in Pakistan e fa ritorno in Italia lasciandola in quel paese, asseritamente presso la sua famiglia di origine, al fine di educarla secondo i principi dell’Islam – non può essere logicamente ricostruita, solo sulla base di esilissime ipotesi e congetture, come il frutto di una determinazione (nuova e antitetica rispetto a quella originaria) maturata all’improvviso, dopo la sua partenza dall’Italia ed il suo arrivo in Pakistan. Al contrario lo straordinario rilievo della decisione assunta, capace di condizionare l’intera esistenza della figlia minore; l’enorme gravità della scelta di separare una bambina di quattro anni per un tempo indefinito dalla madre naturale; l’intensità stessa di una motivazione di carattere religioso (il desiderio che la figlia fosse educata secondo i principi della religione islamica) sono altrettanti elementi che imponevano al giudice di merito di soffermarsi con ben maggiore ampiezza e profondità sui profili soggettivi della condotta dell’imputato, sulle reali intenzioni da lui nutrite già al momento di lasciare il nostro paese in compagnia della figlia minore e sull’eventuale inganno posto in essere ai danni dell’altro genitore.

In altri termini si trattava di verificare se il comportamento tenuto dall’imputato – alla luce delle sue particolari motivazioni personali e religiose e del carattere assolutamente unilaterale delle decisioni poi palesemente assunte in Pakistan in ordine alle sorti della figlia – non costituisse, sin dalla sua fase iniziale, la espressione di un progetto di globale “sottrazione” della bambina alla cura ed alla vigilanza dell’altro genitore, oltre che all’ambiente nel quale aveva trascorso i primi anni di vita. In sostanza una sorta di unilaterale “appropriazione” della figlia, culturalmente inconcepibile, oltre che penalmente illecita, nel quadro del nostro ordinamento, che ai genitori assegna un potere-dovere di cura complessiva dei propri figli e non una unilaterale ed illimitata disponibilità del loro destino. Appropriazione che risulta lesiva tanto dei diritti della madre (che non può vedere annullato il suo naturale rapporto affettivo con la propria figlia e, come contitolare della potestà, non può essere esclusa dalle decisioni che la riguardano) quanto del diritto della figlia minore a vivere secondo indicazioni e determinazioni elaborate di comune accordo da “entrambi” i genitori, secondo il dettato e con le garanzie di scelte equilibrate previste, in caso di contrasti tra i genitori, dall’art. 316 c.c..

Ed è evidente che tali garanzie assumono una eccezionale importanza quando le scelte riguardino, come nel caso in esame, aspetti fondamentali dell’esistenza del figlio minore: il paese in cui è condotto a vivere, la lingua da apprendere (o da dimenticare), i valori di fondo in base ai quali sarà educato, l’educazione religiosa e civile che gli verrà impartita, le libertà individuali e pubbliche di cui potrà godere.

In quest’ottica, del resto, la giurisprudenza di questa Corte ha affermato, da un lato, che il reato di cui all’art. 574 c.p. è da considerare plurioffensivo (perchè lesivo del diritto di chi esercita la potestà di genitore e del diritto del figlio a vivere secondo le indicazioni e determinazioni del genitore stesso) e, dall’altro lato, che esso può concorrere con il reato di sequestro di persona previsto dall’art. 605 c.p. poichè anche il minore è titolare del bene giuridico della libertà personale, costituzionalmente garantito, che può essere leso da qualsiasi apprezzabile limitazione della libertà stessa intesa quale possibilità di movimento privo di costrizioni (cfr. sul carattere plurioffensivo del reato ex art. 574 c.p. Cass., 6^, sent n. 20950 dell’8.1.2003; sulla possibilità di concorso tra il reato ex art. 574 c.p. ed il reato di sequestro di persona Cass., 5^, sent. n. 763 del 19.7.1991; sulla tutela della libertà dell’incapace Cass., 1^, sent. n. 1841 del 24.11.1993 in una fattispecie riguardante un bambino di trenta mesi).

Ora questa Corte ritiene che il giudice di appello non abbia affrontato adeguatamente i profili della vicenda sin qui evidenziati, limitandosi ad ipotizzare – in astratto ed in assenza di ogni concreto elemento – che S.M., ritornato in patria e “forse” sottoposto a pressioni del suo clan abbia assunto lì, ex abrupto la sua decisione di far ritorno in Italia senza la figlia e di trattenerla in Pakistan. Ed è su questa carente ed illogica rappresentazione del comportamento dell’imputato che la Corte d’appello ha innestato la sua pronuncia di difetto di giurisdizione, operando un singolare frazionamento della sua condotta e distinguendo in particolare tra un segmento iniziale lecito svoltosi in Italia (la partenza, regolare, consensuale ed autorizzata della minore dall’Italia per un periodo di ferie in Pakistan) e un successivo segmento illecito (il “trattenimento” della figlia in Pakistan da parte del padre, comportamento che non sarebbe perseguibile in Italia per essere stato posto in essere al di fuori della sfera della giurisdizione del giudice penale italiano). Le rilevate carenze della motivazione della decisione impugnata e le incongruenze della ricostruzione fattuale e giuridica in essa contenuta privano di fondamento logico e giuridico anche la decisione adottata in tema di giurisdizione.

5. Infine va rilevato che la Corte territoriale ha comunque errato nel ritenere la carenza di giurisdizione del giudice penale italiano poichè – come esattamente rilevato dall’ufficio ricorrente – l’art. 10 c.p. (delitto comune dello straniero all’estero) prevede che è punito secondo la legge penale italiana lo straniero che commette in territorio estero a danno di un cittadino un delitto per il quale la legge italiana stabilisce l’ergastolo o la reclusione non inferiore nel minimo ad un anno sempre che egli si trovi nel territorio dello Stato e sussistano particolari condizioni tra cui la querela della persona offesa.

Con la conseguenza che – essendo la pena edittale prevista per il reato di cui all’art. 574 c.p. “la reclusione da uno a tre anni” ed essendo stata presentata querela da parte della madre della bambina – la giurisdizione del giudice penale italiano non avrebbe dovuto comunque essere negata.

6. La sentenza impugnata va pertanto annullata con rinvio alla Corte di Appello di Trento per nuovo giudizio sulla base delle considerazioni svolte e dei rilievi formulati nella presente pronuncia.

P.Q.M.

Annulla la sentenza impugnata e rinvia per nuovo giudizio alla Corte di Appello di Trento.

Così deciso in Roma, il 12 febbraio 2007.

Depositato in Cancelleria il 4 aprile 2007