Osservatorio delle libertà ed istituzioni religiose

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Osservatorio delle Libertà ed Istituzioni Religiose

Documenti • 20 Gennaio 2008

Sentenza 03 novembre 2006, n.1785

Corte appello di Firenze. Sez. I Civile. Sentenza 16 novembre 2006, n. 1785: “Matrimonio concordatario ed incapacità di assumere gli obblighi essenziali del matrimonio”.

La Corte d’appello di Firenze, prima sezione civile,

composta dai Signori
Giovacchino Massetani, Presidente,
Bruno Rados, Consigliere,
Alessandro Turco, Consigliere, rel., est.,

pronuncia la presente

sentenza

nella causa iscritta al n. 2718 del ruolo A dell’anno 2004, promossa, in grado d’appello,

da

P. C., elettivamente domiciliato presso la persona e lo studio dell’Avvocato A. Federici, di Firenze; rappresentato e difeso, per procura estesa a margine dell’atto di citazione in appello, dagli Avvocati Alessandro Garibotti e Giorgio Guidetti, di Lucca,
appellante,

contro

D. C. A. B., elettivamente domiciliata presso la persona dell’Avvocata Carla Marcucci, di Firenze (nello studio Cecchi), che la rappresenta e difende per procura estesa in calce alla copia notificata dell’atto di citazione in appello, convenuta in appello,

causa avente ad oggetto: art. 129 bis cc.

Conclusioni delle parti

Per l’appellante:
“Voglia la Corte, in totale riforma della sentenza impugnata, 1°/7/2004, n. 1224, del Tribunale di Lucca (est.: Adone Orsucci), respingersi le domande tutte formulate da D. C. A. B. contro P. C. perché infondate e, di conseguenza, annullarsi il provvedimento provvisorio della Corte d’Appello di Milano del
1°.12.1995.
Dirsi tenuta e condannarsi D. C. A. B. a restituire al Sig.r P. C. quanto questi abbia eventualmente versato a seguito della provvisoria esecutorietà della sentenza di primo grado, con gli interessi di mora al tasso legale.
Con vittoria di spese e onorari del doppio grado di giudizio”.

Per la parte convenuta in appello:
“Voglia, l’Ecc.ma Corte di Appello di Firenze, ogni contraria istanza disattesa, rigettare, perché infondato, l’appello proposto ex adverso. Con vittoria di spese e onorari. In via istruttoria insiste in tutte le richieste avanzate in I grado (memoria del 27/4/1998, ad eccezione dei testi già ammessi, e indagini tributarie su patrimonio e tenore di vita della cp)”.

FATTO
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con atto di citazione notificato il 5 novembre 1996 P. C. convenne, avanti il Tribunale di Lucca, D. C. A. B..
Egli fece presente che il matrimonio contratto inter partes il 19 maggio 1990 era stato dichiarato nullo dai Tribunali ecclesiastici con sentenze rese efficaci nello Stato dalla Corte d’Appello di Milano con sentenza 8/3/1996, n. 713; sostenne, quindi, che a P. C. andasse attribuita la responsabilità quale coniuge in mala fede e riferì che già la Corte d’Appello di Milano le aveva concesso, colla predetta sentenza, una indennità provvisoria di 110 milioni di lire; chiese, quindi, la condanna del convenuto a pagarle una somma non inferiore a 110 milioni di lire, pari a tre anni di mantenimento, prendendo come parametro l’importo mensile di lire 10.000.000, o comunque alla somma, maggiore o minore, ritenuta di giustizia.
Costituitasi in giudizio il convenuto contrastò la domanda in fatto e in diritto, facendo presente che egli, fin da giovane, era diventato tossicodipendente, che la tossicodipendenza era particolarmente grave all’epoca del matrimonio e che, quando aveva conosciuto D. C. A. B., egli già si trovava in uno stato di incapacità, tanto che la stessa D. C. A. B. aveva aderito, nel processo ecclesiastico, alla domanda di nullità del matrimonio proposta dal marito.
Con sentenza 1°/7/2004, n. 1224, il Tribunale accolse la domanda, condannando P. C. a pagare all’attrice quanto da lei richiesto e cioè euro 160.000.
Il Tribunale ritenne, in particolare, che P. C. non avesse “perso, a causa della malattia, la generale capacità di intendere e di volere …; egli era stato indubbiamente in grado di percepire: la deficienza psichica che lo accompagnava alla scelta matrimoniale …, la non inverisimiglianza di una sanzione di invalidità giuridica del matrimonio a causa del proprio consenso psichico non ottimale …”.
Con atto di citazione in appello notificato l’8 xi 2004 P. C. ha proposto, contro la pronunzia in parola, i seguenti motivi d’appello:
1) “Il Tribunale di Lucca non ha tenuto presente che il matrimonio era stato dichiarato nullo perché nel giudizio ecclesiastico era stata accertata la totale incapacità del P. C. di contrarlo validamente; la stessa D. C. A. B. non solo non si era opposta all’annullamento ma, come risulta dalle sentenze ecclesiastiche, a sua volta aderiva alla domanda di nullità in quanto consapevole che P. C. non poteva averlo contratto in modo valido. Ciò che preme precisare è che P. C. non era assolutamente in grado di comprendere che a causa della sua tossicodipendenza stava per contrarre un matrimonio nullo. Il Tribunale di Lucca ha applicato al caso in esame quei principi fissati dalla Corte Suprema di Cassazione in materia di nullità per riserva mentale (o simulazione, secondo la terminologia giuscanonistica) unilaterale. La delibazione della sentenza ecclesiastica di nullità del matrimonio per esclusione da parte di uno soltanto dei coniugi di uno dei tre bona matrimonii trova ostacolo, come è noto, nell’Ordine pubblico nel caso in cui detta esclusione non sia stata manifestata né comunque conosciuta o conoscibile con un minimo di diligenza e attenzione. Solo nell’ipotesi di riserva mentale unilaterale non nota all’altro coniuge, viene riconosciuto il diritto al coniuge innocente di chiedere ed ottenere un’equa indennità. Ormai la giurisprudenza è concorde nell’affermare che non sono contrarie all’Ordine pubblico le sentenze ecclesiastiche di nullità del matrimonio per una delle ipotesi di incapacità previste dal Codice di diritto canonico (Cass. 87/8151; Cass. 2000/4387, in Giust. civ., 2000, 1°, 1641; Cass. 93/12144, in Foro it., 1995, 1°, 279; Cass. 84/6621; Cass. 97/3002; Cass. 88/4710 in Giust. civ., 1988, 1°, 2524). La Corte di Cassazione ha ritenuto delibabili le sentenze ecclesiastiche di nullità o per l’incapacità di intendere o di volere, o per l’incapacità di assumere gli oneri del matrimonio o per il difetto di discrezione di giudizio. Se la Corte di Cassazione ha ritenuto delibabili le sentenze ecclesiastiche di nullità per le tre ipotesi sopra menzionate, ciò vuol dire che in tutti questi casi non esiste la figura del coniuge in buona fede che debba essere tutelato. Si ripete che dalle sentenze ecclesiastiche è emerso che P. C. fin da molto tempo prima di conoscere la D. C. A. B. era tossicodipendente, che il matrimonio è stato dichiarato nullo per sua incapacità e che in lui non vi era alcuna consapevolezza di contrarre un matrimonio nullo”;
2) inoltre il Tribunale non aveva tenuto conto del fatto che il matrimonio era durato pochi mesi e che, in sede di separazione, era stato fissato un assegno mensile per la moglie di 700.000 lire: ciò anche in relazione al fatto che le imprese della famiglia P. C. erano cessate per fallimento; dunque un assegno pari a lire 10.000.000 mensili non sarebbe stato, certo, giustificabile.
Costituitasi in giudizio la parte convenuta in appello ha contrastato, in fatto e in diritto, quanto sostenuto dall’appellante, concludendo come in epigrafe.
All’udienza camerale del 27.6.2006 i procuratori delle parti hanno precisato le rispettive conclusioni come in epigrafe, richiedendo i termini di cui all’art. 190 cpc.
Scaduti i predetti termini la causa è stata decisa dalla Corte nella camera di consiglio del 3.11.2006.

DIRITTO
MOTIVI DELLA DECISIONE

1) L’appello è, alla luce delle seguenti considerazioni, infondato:
a) non risulta, dalle sentenze ecclesiastica di nullità e da quella di delibazione delle prime, che il matrimonio in questione sia stato dichiarato nullo per incapacità di intendere e di volere dell’attuale appellante ma, invece, per incapacità del medesimo di assumere gli oneri del matrimonio; le critiche mosse alla sentenza impugnata per il fatto che essa avrebbe violato, sul punto, il giudicato sono, quindi, prive di fondamento;
b) è irrilevante, ai fini della presente decisione, che l’attuale convenuta in appello non si sia opposta, a suo tempo, alla pronunzia di nullità: la nullità ricorreva ed è stata correttamente dichiarata; non v’era ragione di opporsi a ciò ma questo non esclude il conseguente diritto al risarcimento del danno; nemmeno è vero, poi, che risulti, dalle sentenze ecclesiastiche, che l’attuale convenuta in appello fosse consapevole che P. C. lo avesse invalidamente contratto ed anzi, dalle sentenze ecclesiastiche, risulta, per la verità, il contrario (v. pg 14 della sentenza ecclesiastica di Modena; doc. 4a fasc. I gr. pa);
c) è escluso che lo stato di tossicodipendenza debba, tout court, identificarsi con quello di incapacità di intendere e di volere nel senso in cui essa è intesa nell’ordinamento giuridico statuale; né vi, in concreto, vi sono elementi per poter affermare che P. C. fosse stato, effettivamente, incapace d’intendere e di volere;
d) sul punto dell’infondatezza della tesi dell’appellante circa la non imputabilità della condotta da lui tenuta v. anche le condivisibili considerazioni contenute nella sentenza pronunciata dalla Corte di Appello di Milano in sede di delibazione della sentenza ecclesiastica: “… l’eccezione del P. C., secondo cui la nullità del matrimonio non può essere a lui imputata, appunto e proprio perché inerente alla sua accertata “incapacità”, è ” ad avviso della Corte – priva di pregio. La nullità del matrimonio è stata, infatti, dichiarata dal giudice ecclesiastico esclusivamente per la accertata “incapacità” e/o “impossibilità” del P. C. di “assumere gli obblighi essenziali del matrimonio”, in quanto tossicodipendente. La nullità del matrimonio … è stata pronunziata esclusivamente in applicazione del punto n. 3 del canone 1095, il quale si riferisce (il n. 3) ad ipotesi in cui il soggetto, pur volendo il matrimonio ed essendo in grado di sufficientemente comprenderne gli obblighi essenziali, non è, tuttavia, in grado di adempierli. In breve, il concetto di “incapacità di assumere gli obblighi matrimoniali” non è equivalente a quello ” invocato dal P. C. – di “incapacità di intendere e di volere”, nell’ottica della capacità di agire del soggetto”.
e) anche sul punto della consapevolezza del P. C. circa l’invalidità del vincolo che egli andava a contrarre la Corte condivide quanto rilevato dalla Corte di Appello di Milano nella sentenza di delibazione: “… si apprende dalla sentenza del Tribunale Ecclesiastico di Modena: 1) che durante il fidanzamento il P. C., nonostante la fragilità della sua personalità ed i conflitti interiori, si rendeva perfettamente conto della sua situazione e, per ciò stesso, “temeva fortemente” di essere inadeguato “alle responsabilità che (con il matrimonio) si assumeva” (cfr deposizione del teste dr. Vito Fortezza, riferita a pag. 15 della citata sentenza); 2) che con tale consapevolezza e nonostante i conseguenti detti timori, il P. C. decise di contrarre matrimonio “soprattutto” nella ricerca di una “alternativa” e per sfuggire alla “quotidianità della droga”, così finalizzando il coniugio ai suoi personali bisogni …” (cfr. citata sentenza, pag. 19); 3) che il P. C., non solo omise di rendere noti i suoi problemi di tossicodipendenza alla fidanzata, ma, per tenerle celata la sua condizione, ricorse, anche dopo le nozze e per diverso tempo, a tante bugie e sotterfugi, come da lui stesso illustrato, prima, e dichiarato, poi, al giudice ecclesiastico (cfr pgg 2 e 12-24 della sentenza del Tribunale Ecclesiastico di Modena)”;
f) corretta appare, comunque, l’affermazione della difesa della convenuta in appello secondo cui, “per superare la presunzione di buona fede della D. C. A. B., in relazione alla predetta causa di nullità, il P. C. avrebbe dovuto provare che la moglie era consapevole non tanto, e non solo, del fatto che lui si drogasse, bensì che l’assuefazione alla droga lo avrebbe reso incapace di adempiere ai suoi doveri coniugali, perchè è stata tale inattitudine di ordine psichico ad inficiare la validità del matrimonio, e non la circostanza che il matrimonio sia stato contratto sic et sempliciter da un tossicodipendente”;
g) anche in ordine al quantum le doglianze dell’appellante non possono essere accolte: a parte la natura singolare dell’istituto giuridico in questione (forse vicina a quella di una pena privata piuttosto che a quella di un risarcimento, tanto che, come già notato dal I giudice, è esclusa la necessità della prova del pregiudizio ed è indicato, come componente inderogabile, il mantenimento per tre anni), va osservato:
– che il mantenimento per tre anni è, appunto, soltanto un minimo inderogabile ma non la misura completa dell’indennità dovuta dal colpevole;
– che la regolazione economica dei rapporti tra i coniugi disposta a suo tempo dal Tribunale di Parma è, in ogni caso, irrilevante nel presente giudizio, riguardando lo stato di separazione;
– che anche la durata del matrimonio è irrilevante, trattandosi di danno conseguente a un fatto specifico e puntuale;
– che la documentazione prodotta in giudizio dall’attuale convenuta in appello è sufficiente a dimostrare, senza che occorra, sul punto, una ctu, che la liquidazione operata dal I giudice non risulta eccessiva rispetto a quelle che sono le capacità economiche dell’attuale appellante;
– che la liquidazione operata dal I giudice non appare irragionevole, tanto che nemmeno l’attuale appellante è stato in grado, in sostanza, di dimostrarne la irragionevolezza; tale liquidazione merita, senz’altro, di essere confermata.
3) In definitiva, quindi, l’appello proposto da P. C. contro la sentenza 1°/7/2004, n. 1224, del Tribunale di Lucca, va rigettato integralmente perché infondato, con la conseguente, integrale conferma della sentenza di primo grado.
3) Le spese del grado, che si liquidano come in dispositivo (in conformità alla relativa nota delle spese), seguono la soccombenza dell’appellante.

PQM

la Corte d’Appello di Firenze, prima sezione civile; rigetta, perché infondato, l’appello proposto da P. C. contro la sentenza 1°/7/2004, n. 1224, del Tribunale di Lucca, confermando integralmente la sentenza di primo grado impugnata;
condanna l’appellante a rifondere alla convenuta in appello le spese di lite relative al presente grado di giudizio, che liquida in complessivi 8745,62 euro, di cui 6100 euro per onorari, 1585 euro per diritti, 960,62 euro per spese generali e 100 euro per spese, oltre all’iva e al contributo previdenziale sull’imponibile di legge.

Così deciso in Firenze, nella camera di consiglio del 3.11.2006.