Osservatorio delle libertà ed istituzioni religiose

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Osservatorio delle Libertà ed Istituzioni Religiose

Documenti • 18 Gennaio 2009

Sentenza 02 gennaio 2009, n.12

Cassazione – Sezione sesta – sentenza 24 settembre 2008 – 2 gennaio 2009, n. 12: “Reato di concussione ai danni di persone internate in istituto penitenziario”.

Presidente Agrò – Relatore Milo

(omissis)

Fatto e diritto

1 – G. S., cappellano in servizio presso la Casa Circondariale di omissis, veniva chiamato a rispondere dinanzi al Tribunale della stessa città dei seguenti reati, commessi tra il 1988 e i primi mesi del 1994:
– favoreggiamento personale, per avere ripetutamente aiutato, abusando dei poteri e violando i doveri inerenti alla sua funzione, alcuni detenuti a eludere le indagini a loro carico per gravi reati;
– abuso d’ufficio, per avere introdotto all’interno del carcere, eludendo i relativi controlli, oggetti vari, che recapitava ai detenuti;
– avere consegnato ad alcuni di costoro anche sostanze stupefacenti;
– concussione nei confronti di alcuni detenuti, indotti, con la prospettiva di potere incidere sulla loro posizione, a prestazioni di natura sessuale;
– atti di libidine sui predetti detenuti.
Con sentenza 1/10/1998, il Tribunale dichiarava l’imputato colpevole dei reati di concussione e atti di libidine, unificati dal vincolo della continuazione, e, in concorso delle circostanze attenuanti generiche prevalenti sulle aggravanti contestate, lo condannava alla pena di anni due e mesi dieci di reclusione, oltre all’interdizione temporanea dai pubblici uffici; assolveva il medesimo imputato dal favoreggiamento perché il fatto non sussiste, dall’abuso d’ufficio perché il fatto non è previsto dalla legge come reato e dalla violazione della normativa sugli stupefacenti perché il fatto non costituisce reato.

2 – La Corte d’Appello di Genova, investita dai gravami del P.M. e dell’imputato, con sentenza 19/6/2001, in parziale riforma di quella di primo grado, dichiarava n.d.p. in relazione ai reati di atti di libidine e favoreggiamento personale perché estinti per prescrizione, elevava la pena inflitta per il reato di concussione ad anni tre e mesi dieci di reclusione, confermava nel resto la decisione del Tribunale.
Il Giudice distrettuale, dopo avere disatteso l’eccezione di nullità -per assoluta indeterminatezza- del decreto che aveva disposto il giudizio, riteneva che gli esiti della espletata istruttoria e, in particolare, le testimonianze acquisite, gli scritti ricattatori riconducibili al sacerdote e i contenuti delle conversazioni telefoniche intercettate conclamavano la responsabilità dell’imputato limitatamente ai reati di favoreggiamento, atti di libidine e concussione; rilevava, però, che i primi due illeciti erano estinti per prescrizione, mentre in relazione al terzo, in accoglimento del gravame del P.M., calibrava la misura della pena entro limiti stimati più adeguati alla gravità dei fatti e alla negativa personalità dell’agente (anni tre e mesi dieci di reclusione); ribadiva, inoltre, l’assenza di dolo nell’attività di introduzione nel carcere di sostanze stupefacenti; in aderenza al principio devolutivo, nulla argomentava in ordine al reato di abuso d’ufficio, non oggetto di gravame.

3 – Ha proposto ricorso per cassazione, tramite il proprio difensore, l’imputato e ha censurato la sentenza d’appello sotto più profili: 1) nullità della notifica del decreto di citazione in appello per inosservanza delle disposizioni circa la persona alla quale doveva essere consegnata la copia; 2) inammissibilità dell’appello proposto dal P.M. in relazione ai reati per ì quali v’era stato proscioglimento in primo grado; 3) illegittimamente si era proceduto in sua contumacia nel giudizio d’appello, nonostante avesse addotto e documentato l’impedimento a comparire; 4) mancanza di motivazione circa la ritenuta sussistenza del reato di concussione; 5) nullità dell’originario decreto di citazione a giudizio per assoluta genericità dell’imputazione formulata.

4 – Il ricorso non è fondato e va rigettato.
4a – Seguendo un ordine logico nell’analisi delle censure articolate, rileva, innanzi tutto, la Corte che non ha pregio l’eccepita nullità dell’originario decreto di citazione a giudizio per asserita genericità dei fatti oggetto dell’imputazione.
In tema di requisiti del decreto di citazione a giudizio, invero, l’imputazione deve contenere l’individuazione dei tratti essenziali dei fatti-reato ascritti all’imputato, in modo da consentire a costui di conoscere le linee direttrici sulle quali si svilupperà il dibattimento e di apprestare e sviluppare conseguentemente la propria difesa.
Nel caso in esame, tale finalità risulta essere stata assicurata, considerato che il capo d’imputazione enuncia, in forma chiara e precisa, gli addebiti mossi allo S., collocandoli in un preciso contesto spazio-temporale, tanto è vero che il predetto, proprio sulla base della contestazione contenuta nel decreto di citazione a giudizio, articolò in primo grado – a propria difesa – puntuali prove testimoniali, che vennero regolarmente ammesse ed espletate.
4b – Non sussiste la nullità della notificazione all’imputato del decreto di citazione in appello, pervenuto comunque a sua conoscenza. Ed invero, l’atto risulta essere stato notificato a mezzo posta, nei termini di legge (16/5/2001), presso l’abitazione del prevenuto, mediante consegna a persona “incaricata” e ben individuata, che deve presumersi, al di là della imprecisa dizione usata, come “addetta alla casa”, qualifica questa che trova collocazione tra quelle previste dall’art. 7 della legge n. 890/’82. La notificazione, infatti, raggiunse il suo scopo e l’atto pervenne ad effettiva conoscenza dell’imputato, tanto che costui sollecitò, tramite il proprio difensore, il rinvio dell’udienza del 19/6/2001 per asserito impedimento a comparire.
4c – Legittimamente la Corte territoriale procedette in contumacia dell’imputato, disattendendo la richiesta di rinvio motivata dall’asserito impedimento del medesimo imputato a comparire, in quanto ricoverato in ospedale.
Il ricovero ospedaliero dell’imputato non comporta di per sé la sussistenza di uno stato d’infermità in atto tale da determinare l’impossibilità a comparire. La prova del legittimo impedimento, che deve essere fornita dall’interessato, invero, non può essere integrata dal mero certificato di ricovero in ospedale, ma deve essere supportata da una certificazione sanitaria che attesti la natura dell’infermità e la necessità di controlli e cure per fronteggiarla, in modo da porre il giudice di merito nella condizione di valutare la durata e la serietà dell’impedimento a comparire. Non può, infatti, ritenersi legittimamente impedito a comparire in giudizio l’imputato ospedalizzato – ad esempio – per l’esecuzione di accertamenti clinici routinari e non indifferibili. Nel caso in esame, la richiesta di rinvio del dibattimento d’appello fu giustificata dal mero ricovero dell’imputato, tre giorni prima della prevista udienza, nel nosocomio di omissis per ragioni rimaste ignote. Nessun obbligo aveva il giudice di merito di disporre accertamenti al fine di sopperire alla insufficiente documentazione prodotta dalla difesa dell’imputato.
4d – Manifestamente infondata è la doglianza circa l’inammissibilità dell’appello, ex art. 10 della legge n. 46/’06, a suo tempo proposto dal P.M. in relazione ai reati per i quali v’era stata assoluzione in primo grado. A tale motivo d’impugnazione, in verità, la difesa del ricorrente ha espressamente rinunciato con dichiarazione resa all’odierna udienza. In ogni caso, devesi rilevare che, al momento dell’entrata in vigore della richiamata legge n. 46, il giudizio d’appello era stato già definito, e ciò a prescindere dall’ulteriore rilievo della declaratoria d’incostituzionalità del secondo comma dell’art. 10 della stessa legge (sent. n. 26 del 2007 C. Cost.).
4e – In ordine alla denunciata mancanza di motivazione sul formulato giudizio di responsabilità dello S. circa il reato di concussione, unico aspetto sostanziale della vicenda su cui si concentra la censura articolata nel ricorso, devesi osservare quanto segue. Il delitto di concussione è un reato proprio e come tale può essere commesso soltanto da soggetto che rivesta la qualità di pubblico ufficiale o di incaricato di un pubblico servizio, sicché assume preliminare rilevanza, nel caso in esame, stabilire se tale qualità, indiscussa nella vigenza del regolamento penitenziario del 1931, possa ritenersi ancora posseduta dal cappellano del carcere dopo la riforma del 1975, che ha profondamente inciso sulla posizione e sulle prerogative del medesimo.
È pur vero che la riforma carceraria del 1975, tradendo in parte i propositi di laicizzazione della vita pubblica, continua a prevedere che il trattamento del condannato e dell’internato sia svolto avvalendosi anche “della religione” (art. 15) e, a tal fine, mantiene – in particolare – il servizio di assistenza cattolica come servizio stabile e interno alla struttura penitenziaria, ma non può sottacersi che, nella prospettiva di affrancarsi – con una qualche timidezza – da tendenze confessionali, ha comunque rimosso il cappellano dal Consiglio di disciplina e dalla quasi totalità delle funzioni amministrative che il regolamento precedente gli conferiva. Il cappellano, infatti, è stato privato anche del potere di controllo sulla corrispondenza, del governo della biblioteca, del potere di redigere i rapporti per l’osservazione del detenuto. I suoi compiti – di norma – sono essenzialmente di natura religiosa e consistono nell’organizzare e presiedere alle pratiche di culto e nell’istruire e assistere i detenuti.
Ciò posto, a prescindere dallo stato giuridico del cappellano e dal rapporto che lo lega all’Amministrazione pubblica carceraria, deve aversi riguardo all’attività oggettiva svolta dal predetto per stabilirne la qualifica soggettiva.
Il cappellano non svolge una funzione pubblica legislativa o giudiziaria né, dopo il ridimensionamento dei compiti originariamente attribuitigli, una funzione amministrativa, intesa come attività caratterizzata dalla formazione e dalla manifestazione della volontà della pubblica amministrazione o dal suo svolgersi per mezzo di poteri autoritativi o certificativi, sicché non riveste la qualità di pubblico ufficiale.
Avuto – però – riguardo ai compiti che la legge attualmente gli assegna e che sono funzionali all’interesse pubblico perseguito dallo Stato nel trattamento delle persone condannate o internate, il cappellano sicuramente svolge un servizio pubblico, la cui natura è conclamata dalla normativa pubblicistica che lo governa, dall’assenza dei poteri tipici della funzione pubblica (poteri decisori, autoritativi o certificativi), dall’attività intellettiva, e non meramente applicativa o esecutiva, che lo caratterizza.
Sussiste, pertanto, il requisito soggettivo per la configurazione del reato di concussione.
Sulla ricostruzione in fatto della vicenda, la sentenza impugnata e quella di primo grado, integrandosi tra loro, non evidenziano passaggi argomentativi carenti o manifestamente illogici e danno, invece, adeguato conto delle ragioni che giustificano la conclusione alla quale pervengono. D’altra parte, lo stesso ricorrente non ha mai contestato seriamente la materialità della condotta addebitatagli, nel senso che ha ammesso di essersi interessato alla sfera sessuale di diversi detenuti al solo scopo, intuitivamente risibile, di verificare, non si comprende con quale competenza professionale, la presenza di determinate patologie (varicocele). In ogni caso, le sentenze di merito, facendo leva su una analisi ed una valutazione approfondite delle emergenze processuali ed enucleando dalle stesse (testimonianze, missive scambiate con i detenuti) quegli elementi ritenuti maggiormente affidabili, delineano i termini della vicenda in modo assolutamente esaustivo ed immune da vizi logici.
Il comportamento tenuto dall’imputato non può non essere contestualizzato in relazione alla posizione soggettiva dal medesimo rivestita e al rapporto intercorrente con i reclusi, che versavano in una condizione di oggettiva soggezione.
L’art. 317 c.p., quanto all’abuso dei poteri, fa riferimento alle ipotesi di condotte rientranti nella competenza tipica del soggetto, quali manifestazioni delle sue potestà funzionali o di servizio per scopo diverso da quello per il quale sia investito; quanto all’abuso della qualità, si riferisce alle ipotesi di condotte che, indipendentemente dalle competenze proprie del soggetto, consentano una strumentalizzazione della posizione di preminenza ricoperta dal medesimo rispetto al privato.
Nella specie, è innegabile quest’ultima forma di abuso, che aveva indotto i soggetti passivi a soddisfare le insane pulsioni sessuali del sacerdote, che, sfruttando indebitamente la propria posizione di preminenza sino a garantire non consentiti contatti tra il mondo esterno e i detenuti, aveva ridotto questi ultimi in uno stato di soggezione, metus publicae potestatis, determinante ai fini della successiva dazione dell’indebito, nella prospettiva, per gli stessi soggetti passivi, di mitigare gli effetti della segregazione.

5 – Al rigetto del ricorso, consegue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.