Osservatorio delle libertà ed istituzioni religiose

Olir

Osservatorio delle Libertà ed Istituzioni Religiose

Documenti • 21 Settembre 2007

Sentenza 02 agosto 2007, n.31510

Corte di Cassazione Penale, Sez. V, sentenza 02 agosto 2007, n. 31510: “Maltrattamenti ai danni di un congiunto conducente uno stile di vita non conforme alla cultura di appartenenza familiare”.

Pres. CALABRESE Renato Luigi
PROCURATORE GENERALE DELLA REPUBBLICA PRESSO CORTE APPELLO di BOLOGNA c. R.M.

MOTIVI DELLA DECISIONE

Il Procuratore Generale della Repubblica di Bologna ricorre per cassazione contro la sentenza del 26 settembre 2006 con la quale la Corte di appello di Bologna, in riforma della sentenza di primo grado, ha assolto R.M., S.J. e R.R. dai delitti di sequestro di persona e di maltrattamenti in danno di R. F..

Il ricorrente denuncia violazione di legge e vizio di motivazione e deduce che R.F., figlia di R.M. e di S. J. e sorella di R.R. è stata segregata per circa due ore nella propria stanza con le mani legate dietro la schiena ed è stata liberata solo per essere poi brutalmente picchiata dai propri congiunti che volevano punire la ragazza per la frequentazione di un amico e più in generale per il suo stile di vita, non conforme alla loro cultura.

Avrebbe errato la Corte di merito nell’accogliere la tesi difensiva secondo la quale gli imputati avrebbero rinchiuso e legato R. F. solo al fine di prevenire il suicidio che la ragazza avrebbe minacciato, ritenendo sussistente, quanto al delitto di sequestro di persona, la scriminante dello stato di necessità.

Deduce il ricorrente che la Corte di merito non avrebbe adeguatamente motivato le proprie decisioni, omettendo di tenere nel debito conto le dichiarazioni della persona offesa e dei testi Sa. e G. e, quanto al sequestro, fondandosi principalmente sulle interessate dichiarazioni degli imputati. Sussisterebbe il difetto di motivazione “relativamente a quella statuizione dell’art. 54 c.p. per cui il pericolo non deve essere volontariamente causato dal soggetto agente” nonchè in ordine alla possibilità di evitare il pericolo “altrimenti”, ai sensi dell’art. 54 c.p..

Osserva la Corte che il ricorso deve essere dichiarato inammissibile.

Nella concreta fattispecie, invero, le censure esorbitano dai limiti della critica al governo dei canoni di valutazione della prova, per tradursi nella prospettazione del fatto storico alternativa a quella fatta argomentatamente propria dal giudice del merito e nell’offerta dì una diversa (e per il ricorrente più favorevole) valutazione delle emergenze processuali e del materiale probatorio. Infatti, nel momento del controllo di legittimità, la Corte di Cassazione non deve stabilire se la decisione di merito proponga effettivamente la migliore possibile ricostruzione dei fatti nè deve condividerne la giustificazione, ma deve limitarsi a verificare se questa giustificazione sia compatibile con il senso comune e con “i limiti di una plausibile opinabilità di apprezzamento”, secondo una formula giurisprudenziale ricorrente (Cass., sez. 5^, 30 novembre 1999, Moro, m. 215745, Cass., sez. 2^, 21 dicembre 1993, Modesto, m. 196955).

Secondo la comune interpretazione giurisprudenziale, del resto, l’art. 606 c.p.p., non consente alla Corte di Cassazione una diversa lettura dei dati processuali (Cass., sez. 6^, 30 novembre 1994, Baldi, m. 200842; Cass., sez. 1^, 27 luglio 1995, Chiadò, m. 202228) o una diversa interpretazione delle prove (Cass., sez. 1^, 5 novembre 1993, Molino, m. 196353, Cass., sez. un., 27 settembre 1995, Mannino, m. 202903), perchè è estraneo al giudizio di legittimità il controllo sulla correttezza della motivazione in rapporto ai dati probatori; e l’art. 606 c.p.p., lett. e), quando esige che il vizio della motivazione risulti dal testo del provvedimento impugnato, si limita a fornire solo una corretta definizione del controllo di legittimità sul vizio di motivazione. Nè questa interpretazione può risultare superata in ragione della modifica apportata all’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e, dalla L. 20 febbraio 2006, n. 46, art. 8, con la previsione che il vizio di motivazione può essere dedotto quando risulti non solo dal testo del provvedimento impugnato ma anche “da altri atti del processo specificamente indicati nei motivi di gravame” (Sez. 6^, 15 marzo 2006, Casula; Sez. 5^, 22 marzo 2006, Cugliari; Sez. 5^, 12 aprile 2006 n. 16955, Pres. Lattanzi – est. Nappi; Sez. 5^, Sentenza n. 19388 del 2006; Sez. 6^, Sentenza n. 27429 del 2006; Sez. 6^, Sentenza n. 22256 del 2006).

Va ribadito, invero, che “la verifica che la Corte di Cassazione e abilitata a compiere sulla completezza e sulla correttezza della motivazione di una sentenza non può essere confusa con una rinnovata valutazione delle risultanze acquisite, da contrapporre a quella fornita dal giudice di merito. Nè la Corte suprema può esprimere alcun giudizio sulla rilevanza e sull’attendibilità delle fonti di prova, giacchè esso, anche in base all’ordinamento processuale preesistente all’entrata in vigore del nuovo codice di procedura penale – nel quale non esistevano i limiti preclusivi che un’avvertita esigenza di maggior razionalizzazione del sistema ha introdotto con l’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e) – era attribuito al giudice di merito, con la conseguenza che le scelte da questo compiute, se coerenti, sul piano logico, con una esauriente analisi delle risultanze probatorie acquisite, si sottraggono al sindacato di legittimità, una volta accertato che il processo formativo del libero convincimento del giudice non ha subito il condizionamento di una riduttiva indagine conoscitiva o gli effetti altrettanto negativi di un’imprecisa ricostruzione del contenuto di una prova” (Sez. Un., 23 novembre 1995, n. 2110, Pres. Vessia, Est. Marvulli).

La peculiarità del giudizio di legittimità consiste proprio in ciò che oggetto di esso è una proposizione metalinguistica, ossia “il contrasto” tra una sentenza ed una disposizione di legge e, nel valutare il dedotto contrasto tra il provvedimento impugnato in relazione all’art. 606 c.p.p. lett. e), la Cassazione deve solo verificare che la decisione del giudice del merito sia stata congruamente e logicamente giustificata sia nel sillogismo deduttivo che abbia condotto all’applicazione di una determinata norma ad un fatto accertato sia nelle argomentazioni sostanziali che sorreggono la ricostruzione del fatto medesimo.

Ciò premesso, va rilevato che nessun vizio è riscontrabile nella sentenza impugnata la quale è pervenuta all’assoluzione degli imputati attraverso la considerazione delle varie prove acquisite e la corretta indicazione del significato dimostrativo loro attribuito dal giudice, in particolare evidenziando innanzitutto che dall’istruttoria dibattimentale del primo giudizio era emerso con certezza che F., terrorizzata dalle possibili ritorsioni dei familiari perchè la stessa non si era recata al lavoro incontrandosi con un uomo, aveva minacciato di suicidarsi, sia mettendosi una corda intorno al collo, sia cercando di raggiungere una finestra per buttarsi di sotto.

La Corte di merito ha accertato che, secondo la versione dibattimentale della persona offesa, le vennero legati i polsi con la corda per impedirle di attuare il suo proposito suicidario, e quindi percossa e che le valutazioni del primo giudice, secondo cui la ragazza prima sarebbe stata legata e sottoposta al pesante trattamento punitivo e poi essa avrebbe tentato il suicidio, e che non corrispondeva alla versione dibattimentale di F., collimante per lo più con la tesi degli imputati, che la legatura dei polsi fu determinata dal proposito di impedire gesti di autolesionismo.

Trattasi di accertamento in fatto non censurabile in sede di legittimità dal quale la Corte territoriale ha correttamente desunto l’esistenza di un ragionevole dubbio circa la sussistenza della scriminante dello stato di necessità. Scriminante non esclusa – come sostiene il ricorrente – dal pregresso comportamento degli imputati, una volta che la Corte di merito – anche qui con accertamento insindacabile in Cassazione, ritenendo le deposizioni del G. e della Sa., al riguardo, estremamente generiche e non riscontrate dalla deposizione della diretta interessata – ha ritenuto che non sussistesse la “piena prova della abitualità delle condotte violente dell’imputato in danno della figlia” ma la prova di tre soli episodi nell’arco della vita di F., peraltro tutti motivati da comportamenti della figlia ritenuti scorretti e quindi non esprimenti il necessario requisito di volontà di sopraffazione e disprezzo.

P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso.

Così deciso in Roma il 27 giugno 2007

Depositata in cancelleria il 2 agosto 2007