Osservatorio delle libertà ed istituzioni religiose

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Osservatorio delle Libertà ed Istituzioni Religiose

Documenti • 21 Giugno 2005

Sentenza 01 ottobre 2001

Tribunale di Roma. Sentenza 1 ottobre 2001: “Vilipendio della religione cattolica e produzione cinematografica”.

Fatto e diritto.

Con decreto del 2-12-99, il Giudice per l’udienza preliminare disponeva il rinvio a giudizio dinanzi al Tribunale di Roma di REAN MAZZONE Duilio, CIPRI’ Daniele, MARESCO Francesco e IACOLINO Calogero, imputati – in concorso tra loro, ed in relazione al film dal titolo “Totò che visse due volte” – dei delitti di vilipendio della religione cattolica (capo A) e di tentata truffa aggravata ai danni dello Stato (capo B).

Dopo la trasmissione degli atti al Tribunale in composizione monocratica, ai sensi dell’art. 222 d. lgs. 51/98, si costituivano parte civile la Presidenza del Consiglio dei Ministri (per l’imputazione sub A) e il Ministero per i beni culturali ed ambientali (quanto al capo B); già in sede di udienza preliminare, vi era stata la costituzione di parte civile delle associazioni A.I.A.R.T., Genitori Cattolici, Famiglia Domani, Ass. Nazionale Buoncostume, e del movimento cattolico Militia Christi (in accoglimento di una specifica eccezione difensiva, veniva peraltro disposta l’esclusione delle suddette parti civili quanto al capo B dell’imputazione).

All’udienza dell’11-12-00, il Pubblico Ministero contestava agli imputati l’ulteriore reato di cui all’art. 404 c.p. (le predette associazioni estendevano, nell’udienza successiva, la loro costituzione di parte civile anche in relazione a tale ulteriore ipotesi delittuosa).

Nel corso dell’istruttoria dibattimentale, si procedeva all’acquisizione di numerosi documenti prodotti dalle parti e all’escussione dei testi BOVA Mario, VENTURA Francesco, BILOTTI Ferdinando, ANNESI Flavio, PENNISI Mauro, PONTIS Ennio e del consulente CEREA Marco (indicati dall’accusa), degli altri testi GUGLIELMI Angelo, MARTONE Mario e FANTUZZI Virgilio (citati dalla difesa e sentiti, sull’accordo delle parti, prima di completare l’esame degli imputati). Si procedeva inoltre alla proiezione in aula del film per cui è causa, nonché all’esame degli imputati REAN MAZZONE (che aveva anche reso, in precedenza, spontanee dichiarazioni) e MARESCO (il P.M. produceva le dichiarazioni rese nella fase procedimentale dagli altri due imputati CIPRI’ e IACOLINO, rimasti contumaci). Dopo l’esame del MARESCO, veniva revocata l’ordinanza ammissiva degli altri testi indicati dalla difesa (ritenuti ormai superflui), e rigettata un’istanza di produzione documentale formulata dal P.M. (trattandosi di prove irrilevanti ai fini del decidere). Al termine dell’istruttoria, il Giudice dava la parola alle parti, che rassegnavano le conclusioni riportate in epigrafe.

Gli odierni imputati sono stati tratti a giudizio (capo A) in ordine al reato di cui all’art. 402 c.p., per aver vilipeso – in concorso tra loro, e nelle rispettive qualità di registi (il CIPRI’ ed il MARESCO), produttore (il REAN MAZZONE) e sceneggiatore (lo IACOLINO) del film <> – la religione “dello Stato italiano” attraverso la pubblica manifestazione, in alcune scene del lungometraggio, di espressioni di scherno, dileggio ed ingiurioso disprezzo nei confronti delle verità di fede, dei simboli e delle persone venerate dalla religione cattolica. Come si è accennato, il Pubblico Ministero ha contestato in udienza agli imputati l’ulteriore delitto di cui all’art. 404 c.p. (offesa alla religione cattolica mediante vilipendio di cose) “in riferimento al simbolo della Croce e alla persona di Nostro Signore Gesù”: e ciò in relazione sia alle scene già oggetto dell’imputazione di cui all’art. 402 (tratte dal terzo ed ultimo episodio del film), sia ad ulteriori scene (quasi tutte relative al primo episodio: si rimanda, per una dettagliata elencazione, a quanto precisato in epigrafe sub A).

Il REAN MAZZONE (quale amministratore della TEA NOVA s.r.l., incaricata della produzione del film), il CIPRI’, il MARESCO e lo IACOLINO (nelle qualità sopra rispettivamente precisate) sono stati inoltre accusati – capo B – di tentata truffa ai danni del Comitato per il Credito Cinematografico presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri: avendo essi tentato di procurarsi un ingiusto profitto presentando – nell’ambito del procedimento per la concessione dei finanziamenti agevolati di cui alla l. 153/94 – un preventivo di spese (pari a £ 1.723.494.000) notevolmente superiore a quelle reali, da quantificare in £ 582.494.000 (ovvero nel 33,79% di quanto richiesto); e così ottenendo lo stanziamento della somma di £ 1.541.000.000 dal predetto Comitato (a mezzo della B.N.L. – Sezione di Credito Cinematografico e Teatrale), senza riuscire nell’intento per cause indipendenti dalla loro volontà.

L’indagine sulla sussistenza della penale responsabilità degli imputati in ordine al capo A) non può che muovere dalla sentenza 20-11-00 n. 508 della Corte costituzionale, che ha dichiarato illegittimo, per contrasto con gli articoli 3 e 8 della Costituzione, l’art. 402 c.p. (ovvero il reato di vilipendio della religione dello Stato).

Tale sentenza può essere considerata l’approdo conclusivo di un lungo e tormentato percorso, compiuto dalla Corte costituzionale in sede di verifica della compatibilità delle norme penali introdotte dal codice Rocco a tutela della religione cattolica – norme che, come è noto, facevano assurgere quest’ultima al rango di sola <> in quanto fattore di unità morale della Nazione e, per questo, elemento costitutivo della compagine statale – con alcuni dei principi fondamentali caratterizzanti la Costituzione repubblicana: in particolare, il principio di uguaglianza dei cittadini senza distinzioni di religione (art. 3), quello di eguale libertà delle confessioni religiose davanti alla legge (art. 8), il diritto per ogni cittadino di professare liberamente la propria fede religiosa (art. 19).

Abbandonando progressivamente l’ottica interpretativa delle sentenze meno recenti, che fondavano la legittimità costituzionale del suddetto impianto normativo ricorrendo a criteri di ordine statistico sociale (quali la maggiore ampiezza ed intensità delle reazioni sociali alle offese alla religione cattolica, in quanto professata dalla quasi totalità o comunque dalla maggioranza dei cittadini: cfr. sentt. 125/57, 79/58, 39/65), la Corte – dopo aver sancito il venir meno della contrapposizione tra la religione cattolica quale “sola religione dello Stato” e gli altri “culti ammessi”, per effetto delle modifiche ai Patti Lateranensi del 1984, recepite dalla legge 25-3-85 n. 121: cfr. sent. n. 925/88 – ha ormai saldamente posto a fondamento, nell’individuazione dell’oggetto della tutela penale assicurata dalle norme in questione, la protezione del sentimento religioso. Quest’ultima “è venuta ad assumere il significato di un corollario del diritto costituzionale di libertà di religione, corollario che, naturalmente, deve abbracciare allo stesso modo l’esperienza religiosa di tutti coloro che la vivono, nella sua dimensione individuale e comunitaria, indipendentemente dai diversi contenuti di fede delle diverse confessioni” (sent. 329/97).

In definitiva, l’atteggiamento dello Stato nei confronti delle varie confessioni religiose non può che essere di equidistanza ed imparzialità (ferma restando la possibilità di regolare bilateralmente i rapporti con la chiesa cattolica tramite lo strumento concordatario, e con le altre confessioni tramite intese: artt. 7 e 8 Cost.): tale atteggiamento costituisce un “riflesso” del principio di laicità, che secondo la Corte assurge al rango di vero e proprio “< >, caratterizzando in senso pluralistico la forma del nostro Stato, entro il quale hanno da convivere, in uguaglianza di libertà, fedi, culture e tradizioni diverse” (sent. 508/00, cit.).

Non è questa, evidentemente, la sede per una compiuta disamina di tale evoluzione giurisprudenziale, e delle riserve spesso formulate dalla dottrina in sede di commento. E’ sufficiente qui richiamare il dispositivo delle due decisioni che, ponendosi nell’ottica interpretativa testè ricordata, avevano già sensibilmente modificato – prima della sentenza 508 – la struttura e la portata di alcune norme incriminatrici contenute nel codice penale.

Da un lato, la sentenza n. 440 del 1995 aveva dichiarato costituzionalmente illegittimo l’art. 724 c.p. limitatamente alle parole “o i simboli o le persone venerati nella religione dello Stato”: in sostanza, con una rilettura in chiave “binaria” della contravvenzione di bestemmia, la Corte aveva ritenuto immune da censure l’incriminazione delle espressioni ingiuriose “nei riguardi della Divinità” (quale che essa sia), dichiarando invece l’incostituzionalità della bestemmia verso persone o simboli venerate dalla (sola) religione cattolica.

D’altro lato, la già citata sentenza n. 329 del 1997 ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 404 c.p. (offese alla religione dello Stato mediante vilipendio di cose) nella parte in cui prevede la pena della reclusione da uno a tre anni, anziché la pena diminuita prevista dall’art. 406 c.p. (il quale estende la punibilità – seppure, appunto, con una diminuzione della pena – per i fatti di cui agli articoli 403, 404 e 405 commessi nei confronti di un culto ammesso nello Stato).

La suddetta evoluzione giurisprudenziale aveva indotto la dottrina, per un verso, a ritenere ormai inevitabile l’intervento della Corte anche sull’art. 402, attesa l’evidente disparità di trattamento tra la religione cattolica (tutelata appunto anche dal c.d. vilipendio “generico”) e le altre confessioni. Per altro verso, era stata pronosticata in modo pressoché unanime una “caducazione secca” dell’art. 402, il cui tenore letterale (“Chiunque pubblicamente vilipende la religione dello Stato è punito…”) sembrava precludere la possibilità di operazioni di “ortopedia” quali quelle poste in essere dalla Corte con le richiamate sentenze n. 440/95 e 329/97: operazioni che, come si è poc’anzi rilevato, avevano consentito una equiparazione “verso l’alto” della tutela penale, da un lato con l’estensione dell’ambito applicativo dell’art. 724 c.p. a tutte le confessioni, dall’altro con la previsione di un unico ed indifferenziato trattamento sanzionatorio per il vilipendio di cose, indipendentemente dalla confessione religiosa colpita da questo genere di offesa.

Le previsioni dottrinarie si sono rivelate pienamente fondate: la sentenza 508 – pur riconoscendo l’astratta possibilità che il ripristino dell’uguaglianza violata possa avvenire non solo eliminando la norma discriminatrice, ma anche estendendo la portata di quest’ultima ai casi discriminati, e pur ribadendo che il principio di laicità dello Stato non implica indifferenza e astensione dinanzi alle religioni, legittimando al contrario interventi legislativi a protezione della libertà di religione – ha ritenuto possibile e doverosa la prima alternativa, ovvero la totale espunzione dell’art. 402 dall’ordinamento. E ciò in ossequio al principio costituzionale della riserva di legge in materia di reati e pene (art. 25 comma), principio ostativo all’emissione di sentenze di illegittimità costituzionale aventi valenza additiva.
Pertanto, dopo la sentenza 508 (e la depenalizzazione della contravvenzione di bestemmia, ad opera del d. lgs. 30-1-99 n. 507), gli strumenti di tutela penale del sentimento religioso risultano ormai costituiti – nella perdurante assenza di un intervento sistematico del legislatore, più volte stigmatizzata dalla unanime dottrina e dalla stessa Corte costituzionale – dalle sole fattispecie incriminatrici “speciali” previste dagli articoli 403 (offesa alla religione mediante vilipendio di persone), 404 (offesa alla religione mediante vilipendio di cose) e 405 (turbamento di funzioni religiose); nonché dall’estensione assicurata dall’art. 406 ai fatti commessi ai danni di altre confessioni.

E’ infatti ormai venuta meno la tutela, assicurata dall’art. 402, contro le espressioni (verbali, scritte, figurative ecc.) di scherno, dileggio, disprezzo, vituperio ecc. nei confronti delle verità di fede affermate dalla religione cattolica, e dei simboli e persone ivi oggetto di culto e venerazione: tutela che, secondo la unanime elaborazione dottrinale, aveva carattere generico e sussidiario rispetto alle richiamate fattispecie speciali.
In altri termini, nei casi in cui il vilipendio aveva ad oggetto credenti o cose, o determinava il turbamento di una funzione religiosa, le norme incriminatrici di cui, rispettivamente, agli artt. 403/405 c.p. trovavano esclusiva applicazione in virtù del principio di specialità (art. 15 c.p.), ed il vilipendio c.d. generico di cui all’art. 402 c.p. assumeva il carattere di elemento costitutivo di una delle predette fattispecie “specifiche”.

All’udienza dell’11-12-00, il Pubblico Ministero – chiamato ad interloquire sulla richiesta difensiva di immediato proscioglimento ex art. 129 c.p.p. in ordine al capo A) dell’imputazione, a seguito della pubblicazione della sentenza n. 508 della Corte costituzionale – ha contestato agli imputati l’ulteriore reato di offesa della religione mediante vilipendio di cose. Come si è accennato in narrativa, tale ulteriore contestazione è stata formulata sia con riferimento alle scene – tratte dal terzo episodio del film – già incriminate ai sensi dell’art. 402, sia in relazione ad ulteriori scene (tutte relative al primo episodio, ad eccezione di una, desunta anch’essa dalla terza ed ultima parte del film).

Appare peraltro ultronea ogni indagine in ordine alla configurabilità, nelle scene contestate, di atti di vilipendio: e ciò in quanto non è stata in alcun modo provata, da parte dell’accusa, la sussistenza – quale oggetto della condotta lesiva – di “cose” ai sensi e per gli effetti di cui all’art. 404 c.p..

Quest’ultimo, come è noto, punisce l’offesa alla religione commessa “mediante vilipendio di cose che formino oggetto di culto, o siano consacrate al culto, o siano destinate necessariamente all’esercizio del culto”. Sin da epoca risalente, l’elaborazione dottrinale e giurisprudenziale individua le cose che “formano oggetto di culto” in quelle verso cui il culto si tributa, e sono pertanto adorate, venerate ecc., e sono oggetto di preghiera per il fatto di rappresentare o simboleggiare l’essenza divina: si tratta delle immagini sacre, del crocifisso ecc. (la natura mobile o immobile, la commerciabilità o meno delle cose, l’avvenuta consacrazione o benedizione delle stesse sono indifferenti, < > – così si esprime autorevolissima dottrina – <>). Tra le “cose consacrate al culto” vengono ricomprese quelle (chiese, altari, calici, tabernacoli, ecc.) che hanno ricevuto il particolare atto rituale della consacrazione del vescovo o benedizione del sacerdote, atto che sottrae la cosa ad ogni uso profano o improprio). Infine, “cose necessariamente destinate all’esercizio del culto” sono quelle che, non appartenenti alle altre due categorie, sono comunque necessarie per lo svolgimento della liturgia o del rito sacro (paramenti, stendardi, ceri, ecc.).

Ciò che occorre evidenziare, per il decisivo rilievo che assume nell’odierno procedimento, è il fatto che, secondo la pacifica interpretazione della dottrina, il vilipendio può essere commesso non solo con atti materiali, ma anche con parole o qualunque altro mezzo idoneo; è invece imprescindibile che la condotta sia posta in essere direttamente sopra o verso la cosa in questione, e comunque in sua presenza. Invero, come si è di recente sottolineato (peraltro in piena sintonia con le autorevoli elaborazioni meno recenti), <>.

In buona sostanza, nell’accertamento della sussistenza del reato di cui all’art. 404 c.p., non può in alcun modo prescindersi dalla presenza – quale oggetto della condotta di vilipendio – di una cosa che sia realmente ed effettivamente oggetto di culto o consacrata, ovvero destinata all’esercizio del culto (con l’ulteriore e simmetrica precisazione, quanto a tale ultima categoria, per cui la destinazione deve essere attuale e non solo possibile, come ad es. nell’ipotesi della cosa in vendita o in riparazione).

Con riferimento alla fattispecie in esame, deve osservarsi che il Pubblico Ministero – nonostante abbia suppletivamente contestato agli imputati la violazione dell’art. 404 c.p. – non ha fornito alcuna prova a tale specifico riguardo. Non è stata infatti dimostrata la riconducibilità di alcuno tra gli oggetti (croci, statue, edicole votive, ecc.), utilizzati in sede di produzione delle scene per cui è causa, all’una o all’altra delle categorie di “cose” di cui all’art. 404 (nel senso tecnico poc’anzi precisato).

Al contrario, sono risultate pienamente credibili e convincenti le dichiarazioni degli imputati REAN MAZZONE e MARESCO in ordine all’utilizzo di oggetti fabbricati appositamente durante la produzione, ovvero noleggiati al momento presso negozi specializzati: oggetti del tutto inidonei a concretare, secondo quanto si è osservato, l’oggetto materiale del reato di cui all’art. 404. Si veda, in particolare, quanto affermato dal REAN MAZZONE in ordine alla costruzione delle croci da parte dei falegnami stipendiati dalla produzione, nonché alla realizzazione e/o noleggio presso negozi specializzati delle statue, arredi sacri ecc. (pagg. 56 segg. ud. 12-4-01). Con specifico riferimento all’edicola votiva utilizzata nelle scene denominate “Vicolo Marotta” ed appartenenti al primo episodio (v. la copia della sceneggiatura in atti), il REAN MAZZONE ha chiarito: che l’edicola in questione era stata costruita ex novo ed aveva finito di esistere alla fine del film; che le scene erano state girate non già nel predetto vicolo, ma in un cortile; che era stata realizzata un’intercapedine tale da consentire la sostituzione della statua dell’Ecce Homo, appositamente noleggiata, con il protagonista dell’episodio. Del tutto analoghe sono risultate le dichiarazioni dell’altro imputato, il regista MARESCO, il quale ha affermato che non vi è mai stata alcuna edicola nel cortile utilizzato per quelle scene: era stata adattata una struttura esistente (un vano o una porta) in modo da consentire l’inserimento del personaggio in carne ed ossa, ed assicurare l’effetto di dissolvenza incrociata tra l’immagine dell’Ecce Homo e quella di “Paletta” (ovvero dell’attore Marcello MIRANDA, protagonista del primo episodio).

Sul punto, all’udienza conclusiva, il Pubblico Ministero ha chiesto l’acquisizione di alcune fotografie scattate dalla Squadra Mobile e relative ad un’edicola votiva esistente a Palermo in via Maqueda 369 (alle spalle del vicolo Marotta), assumendo che l’edicola stessa fosse stata posizionata, all’epoca della lavorazione del film, nel predetto vicolo, e successivamente spostata nell’attuale indirizzo. La richiesta è apparsa peraltro ininfluente ai fini del decidere, sia perché dalla stessa relazione di P.G., esibita insieme alle fotografie, non emergeva in alcun modo che l’edicola in questione fosse stata posizionata in luoghi diversi da via Maqueda 369, sia soprattutto perché la statua del Cristo contenuta nell’edicola, ben visibile nelle fotografie citate, è risultata diversa – in diversi particolari: barba, corona di spine, bocca, ecc. – da quella utilizzata nella lavorazione del film (al riguardo, appare dirimente il raffronto tra le predette immagini e le fotografie tratte dalla lavorazione del film e contenute nel volume “El sentimiento cinico de la vida – il cinema, i video, la televisione di Ciprì e Maresco da Cinico TV a Totò che visse due volte”, allegato agli atti). In definitiva, la richiesta istruttoria sollecitata ex art. 507 c.p.p. è risultata del tutto inidonea a confutare la ricostruzione dei fatti proposta dagli imputati.

E’ appena il caso di osservare, conclusivamente, che nelle scene oggetto di contestazione avrebbe potuto ravvisarsi – avuto riguardo alle obiettive modalità di rappresentazione ed allusione, ivi contenute, alle verità di fede e ad alcuni tra i più significativi simboli caratterizzanti la religione cattolica – l’elemento materiale del delitto di cui all’art. 402 c.p. (cfr. ad es. la scena 11 del terzo episodio, in cui tre uomini grassi violentano il personaggio “Tonino”, abbigliato da angelo; nonché la scena 19 dello stesso episodio, evidentemente ispirata all’Ultima Cena, in cui gli apostoli attendono il protagonista Totò lasciandosi andare a battute e barzellette pesanti, e vengono insultati poi dallo stesso Totò, fino all’entrata in scena della prostituta “Tremmotori”, ecc.). Ciò che invece deve escludersi è la possibilità – dopo l’espunzione dall’ordinamento del c.d. vilipendio generico – di ampliare in via interpretativa la portata dell’art. 404 del codice, fino a farvi rientrare gli atti compiuti in presenza non già di cose che siano realmente “oggetto di culto o consacrate al culto”, ma di imitazioni o duplicazioni delle cose stesse, realizzate a fini meramente denigratori, o di rappresentazione cinematografica, ecc..

Una siffatta soluzione interpretativa si pone infatti in contrasto – prima ancora ed oltre che con l’art. 14 delle preleggi – con i fondamentali principi di legalità, tassatività e riserva di legge di cui all’art. 25 comma 2 Cost.: è del resto evidente che all’impossibilità, per la stessa Corte costituzionale, di intervenire sulle norme penali con sentenze additive (e dunque con modalità diverse da quella “esclusivamente ablativa”: v. sent. 508/00, cit.), non può che corrispondere una preclusione assoluta, per questo Giudice, alla valorizzazione di opzioni esegetiche che violino il divieto di analogia in malam partem.

Quanto precede impone di adottare una pronuncia di assoluzione, nei confronti di tutti gli imputati, dall’imputazione loro ascritta al capo A). Appare conseguentemente ultroneo, in questa sede, ogni approfondimento relativo all’applicabilità, nella fattispecie in esame, della causa di giustificazione di cui all’art. 51 c.p. in relazione all’art. 21 della Costituzione, argomentando – in una prospettiva volta ad individuare adeguati criteri di bilanciamento tra diritti di rilievo costituzionale – dalla necessità di ricondurre l’opera cinematografica in questione tra le manifestazioni artistiche del diritto di libera manifestazione del pensiero, e quindi di escludere l’antigiuridicità di eventuali espressioni lesive del “sentimento religioso” tutelato, quale corollario del diritto di libertà religiosa (cfr. supra), dalle norme di cui al titolo quarto del libro secondo del codice penale. La superfluità di ulteriori indagini in proposito ha ovviamente determinato, dopo l’esame degli imputati, la revoca dell’ordinanza ammissiva degli ulteriori testi indicati sul punto dalla difesa (al riguardo, cfr. di recente Cass., Sez. III, 27-10-00 n. 11057, in ordine al carattere < > di approfondimenti istruttori tendenti ad accertare l’eventuale insussistenza, o non attribuibilità all’imputato, di un fatto al quale la legge non attribuisce più un significato penalmente rilevante).

Per ciò che riguarda il delitto di tentata truffa in danno dello Stato, deve anzitutto osservarsi che il fulcro dell’accusa è costituito – come risulta anche dalla stessa lettura dell’imputazione sub B) – dal raffronto tra il preventivo di spesa presentato dal MAZZONE (nella qualità di legale rappresentante della TEA NOVA s.r.l., società produttrice del film) in sede di richiesta del finanziamento agevolato di cui alla l. 153/94, e l’importo delle spese effettivamente sostenute per la realizzazione dell’opera, secondo la quantificazione operata “a posteriori” dal dr. CEREA, consulente del Pubblico Ministero (importo nettamente minore, trattandosi del 33,79% di quanto richiesto).

Ad una simile discrasia non può non attribuirsi, in prima battuta, una specifica e concreta valenza accusatoria. Ritiene peraltro il Giudicante che, avuto riguardo alle altre risultanze dibattimentali, tale elemento sia del tutto insufficiente per giungere ad un’affermazione di penale responsabilità: non risultano infatti ravvisabili, nella presentazione del citato preventivo, i requisiti della idoneità ed univocità dell’atto indispensabili per la sussistenza di un delitto tentato ai sensi dell’art. 56 c.p..

Dalla documentazione acquisita, e dalle dichiarazioni dei testi citati dall’accusa, è emerso il positivo esperimento, nella fattispecie in esame, della procedura prevista dalla l. 1213/65 (modificata dalla l. 153/94) per ottenere l’erogazione di mutui a tasso agevolato nel settore cinematografico.
In particolare, tale normativa prevede tra l’altro la possibilità, per le opere “riconosciute di interesse culturale nazionale”, della concessione di un mutuo a tasso agevolato in misura pari al 90% dell’importo: mutuo assistito da un apposito fondo di garanzia operante – per la suddetta categoria di opere – fino al 70% dell’erogazione (cfr. artt. 8 e 16 l. 153/94). Viene inoltre stabilito (artt. 7 e 17 della legge) che la concessione del mutuo è deliberata, dopo un’apposita valutazione tecnico economica, dalla società concessionaria (ovvero dalla Banca nazionale del lavoro – Sezione di credito cinematografico e teatrale s.p.a.) a favore dei progetti che abbiano riportato il parere del Comitato per il credito cinematografico. Quanto alle concrete modalità dell’erogazione, l’art. 2 del D.P.C.M. del 24-3-94 dispone che i finanziamenti sono erogati a stati di avanzamento, previa presentazione di idonea documentazione di spesa, ivi incluse le fatture da liquidare entro e non oltre tre mesi dalla loro emissione.

Nella specie, la Commissione consultiva per il cinema (insediata presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri – Dipartimento dello spettacolo), nella seduta del 16-7-97, riconosceva all’opera per cui è causa (inizialmente intitolata “Tremmotori”) il carattere di “film di interesse culturale nazionale” (v. al riguardo anche i testi BOVA e VENTURA). Successivamente, la Grant Thornton s.p.a effettuava – su incarico della B.N.L. Credito cinematografico – un’analisi tecnico economica del preventivo di costo e del piano finanziario del film, avvalendosi, per la valutazione dei costi di lavorazione cinematografica, di una consulenza della A.I.P. s.r.l. (v. i testi BILOTTI, ANNESI, PENNISI e PONTIS).

In particolare, con l’elaborato in data 15-10-97, la Grant Thornton detraeva dal preventivo (pari a £ 1.724.000.000) la somma di £ 155 milioni ivi indicate per le spese di stampa e pubblicità, nonché la corrispondente percentuale di spese generali (28 milioni). La residua somma di £ 1.541.000.000 veniva ritenuta ragionevole, così come positivo risultava il giudizio sul piano di lavorazione allegato; si precisava inoltre che la TEA NOVA aveva stipulato, in data 11-7-97, un contratto di distribuzione e finanziamento i cui importi erano stati quasi interamente incassati (su questa ultima circostanza, di notevole rilievo ai fini che qui interessano, si avrà modo di tornare in seguito).

Basandosi su tale valutazione tecnica, la Commissione per il credito cinematografico della Presidenza del Consiglio, nella seduta del 22-12-97, esprimeva all’unanimità un parere favorevole ad un finanziamento ammissibile pari a £ 1.178.000.000 (percentuale dell’85%, riservandosi di concedere un ulteriore 5% all’esito di un’ulteriore istruttoria relativa all’accertamento della presenza ultraquinquennale sul mercato della società richiedente. Sul meccanismo della individuazione e quantificazione di queste voci percentuali, v. in particolare i testi BOVA e VENTURA).

A seguito del suddetto parere favorevole, in data 16-2-98, i funzionari tecnici della B.N.L. Credito Cinematografico s.p.a., FEOLI e BILOTTI, proponevano al comitato esecutivo della stessa società, con il proprio parere favorevole, la concessione del finanziamento richiesto (anche su tale articolata proposta si avrà modo di soffermarsi nelle pagine seguenti).

Qui si interrompe il procedimento in questione: non vi è stata, infatti, l’approvazione della proposta da parte del comitato esecutivo della B.N.L., che avrebbe consentito la stipulazione del contratto di finanziamento (e la conseguente erogazione dello stesso in favore della TEA NOVA). Tale improvvisa interruzione è stata causata dal sequestro del fascicolo, operato presso la B.N.L. dalla Procura della Repubblica successivamente alla uscita del film nelle sale e alle conseguenti denunce per vilipendio (cfr. sul punto il teste BILOTTI).

Come si è accennato, il consulente CEREA ha analizzato la congruità del preventivo di spesa “a posteriori”, esaminando anche la documentazione di spesa prodotta dalla TEA NOVA: in particolare, il consulente ha quantificato in 582 milioni i costi documentati (importo risultante anche dalla esclusione di alcune spese – di importo peraltro non rilevante: acquisto di alcuni beni strumentali, ecc. – ritenute non pertinenti alla lavorazione del film). Nella consulenza, il CEREA ha anche tenuto conto di un elenco – fornito dal MAZZONE, rappresentante della TEA NOVA – relativo a spese non ancora sostenute e a spese sostenute ma non documentate (elenco ammontante a 765 milioni). Nella deposizione dibattimentale, il consulente ha chiarito che il suddetto elenco concerneva essenzialmente alcuni contratti prodotti dal MAZZONE, inerenti la retribuzione di attori, sceneggiatori, maestranze ecc.; infatti, accanto alla documentazione dell’avvenuto pagamento nei minimi contrattuali, erano stati prodotti dei contratti con cui la produzione si impegnava a corrispondere cifre superiori: impegno condizionato alla effettiva erogazione del finanziamento pubblico, e comunque al raggiungimento di un determinato volume di introiti (i contratti in questione sono stati allegati alla consulenza, e prodotti autonomamente anche dalla difesa degli imputati). Il consulente ha sottolineato come il suddetto elenco di spese non poteva esser preso in considerazione, trattandosi appunto di impegni condizionati: peraltro, anche a volerne tenere conto, si raggiungeva la complessiva somma di £ 1.348.327.000, ben lontana comunque dall’importo inizialmente richiesto dalla TEA NOVA.

Sia in sede di dichiarazioni spontanee, sia nel successivo esame reso in dibattimento, l’imputato MAZZONE ha fornito la propria ricostruzione dei fatti, giustificando la differenza tra il preventivo a suo tempo presentato e le spese documentate ed accertate dal consulente del Pubblico Ministero.
Egli ha anzitutto sottolineato di aver acconsentito alla richiesta dei registi di iniziare le riprese già nel febbraio del 1997, dopo due sole settimane dalla presentazione della richiesta di finanziamento (e dunque assai prima dello svolgersi dell’iter procedimentale sopra descritto). Tale decisione – del tutto anomala, poiché si è soliti attendere, prima della lavorazione del film, notizie positive dai vari possibili finanziatori – determinò una lavorazione “in economia”, e dunque il mancato rispetto dell’originario preventivo, che peraltro già si segnalava per il basso budget (il MAZZONE ha ricordato, in proposito, che la legge consentiva l’erogazione di finanziamenti fino a otto miliardi). Peraltro, dopo la decisione di iniziare a girare, vennero stipulati – con le persone che erano state coinvolte nell’iniziativa ed avevano accettato retribuzioni nei minimi sindacali – contratti che condizionavano l’erogazione di ulteriori compensi all’effettiva concessione del finanziamento pubblico e comunque al raggiungimento di un determinato volume di vendite (videocassette, pay tv, ecc.). Il MAZZONE ha inoltre chiarito che la realizzazione in economia del film fu resa possibile dalla conclusione, nel luglio 1997, di un contratto di distribuzione e finanziamento con la LUCKY RED s.r.l. e l’ISTITUTO LUCE s.p.a.: queste due società versarono complessivamente, quale contributo alle spese di produzione (“minimo garantito”), la somma di 400 milioni, oltre ad un impegno ad anticipare complessivi 270 milioni per le spese di edizione, pubblicità e lancio (il contratto in questione è stato prodotto dalla difesa); al riguardo, l’imputato ha tenuto a sottolineare che l’esistenza e l’importo del contratto in questione furono tempestivamente comunicati alla B.N.L.. Il MAZZONE ha quindi dichiarato di non aver mai contestato le decurtazioni operate dalla Grant Thornton nel preventivo – dovute al fatto che si era alla prima esperienza con i finanziamenti pubblici – né le rettifiche operate dal consulente (pur volendo sottolineare che, ad es., una cucina è necessaria quando si gira all’aperto). Quanto ai contratti condizionati, l’imputato ha sostenuto di averli stipulati per cautelarsi, e di averli prodotti nel momento in cui gli sono stati richiesti (ovvero dal CEREA in sede di consulenza); egli ha precisato di aver appreso solo in udienza, dalla deposizione del PONTIS, che i contratti stessi non sarebbero stati ritenuti da lui validi: in ogni caso, il relativo importo sarebbe stato comunque detratto, dal momento che la B.N.L. pagava a consuntivo. Con riferimento alla mancata erogazione finale, il MAZZONE ha infine affermato di aver sollecitato, presso la B.N.L., la conclusione del contratto di finanziamento, ma gli fu risposto che la pratica non poteva andare avanti sin quando il Tribunale non avesse dissequestrato il fascicolo: in tale situazione, egli non ritenne opportuno ricorrere agli avvocati.

Alla luce dell’istruttoria dibattimentale sin qui sintetizzata, ritiene il Giudicante che nella presentazione del preventivo di spesa da parte della TEA NOVA s.r.l. non sia configurabile un’attività punibile ai sensi dell’art. 56 c.p.; attività in ogni caso riconducibile esclusivamente al MAZZONE, e non anche agli altri imputati, che hanno radicalmente negato ogni addebito (cfr. le dichiarazioni rese nel corso dell’esame dal MARESCO e durante le indagini dal CIPRI’), e che non sono risultati in alcun modo coinvolti nell’attività procedimentale relativa alla richiesta di finanziamento.

Deve anzitutto essere sottolineato che, ai sensi del già citato art. 2 D.P.C.M. 24-3-94, l’erogazione dei finanziamenti di cui alla l. 153/94 avviene esclusivamente a stati di avanzamento, previa presentazione di idonea documentazione di spesa. Tali modalità di erogazione sarebbero certamente state applicate anche nella fattispecie in esame: infatti, l’articolata proposta di concessione del finanziamento, redatta dai funzionari della B.N.L. nel febbraio 1998, prevede appunto l’erogazione “ad accertamento del costo sostenuto” (cfr. pag. 3 del documento, allegato agli atti, nonché la deposizione del teste BILOTTI).

E’ dunque evidente l’inidoneità del preventivo di spesa, in sé considerato, a determinare l’erogazione del finanziamento nella misura inizialmente richiesta: erogazione che, al contrario, sarebbe potuta avvenire esclusivamente nei limiti delle spese accertate e documentate dalla consulenza espletata dal dr. CEREA.

A diverse conclusioni, evidentemente, si sarebbe potuti giungere qualora il MAZZONE avesse tentato di “stringere i tempi” con la B.N.L., pretendendo la liquidazione di somme maggiori di quelle documentate (magari allegando falsa documentazione di pagamenti in realtà mai avvenuti, o sollecitando in altro modo l’erogazione di anticipazioni in violazione del richiamato art.2). Peraltro, nulla di tutto ciò è emerso in dibattimento: al contrario, il teste BILOTTI ha espressamente dichiarato che il MAZZONE, dopo il blocco del procedimento conseguente al sequestro del fascicolo, si recò in B.N.L. per chiedere la formalizzazione del contratto di finanziamento, ma lo fece senza alcuna “battaglia” o “pressione” (cfr. pag. 105 ud. 9-4-01: “…proprio la pressione, <> questo no, me lo ricordo benissimo. Sempre in termini civili è venuto a domandare”); lo stesso imputato, del resto, ha dichiarato – in modo del tutto credibile – di non aver voluto “mettere un avvocato” nel momento in cui gli veniva comunicata l’impossibilità di procedere oltre.
Nessun particolare rilievo, ai fini che qui specificamente interessano, sembra potersi attribuire ai c.d. “contratti condizionati”, prodotti dal MAZZONE al CEREA durante l’espletamento della consulenza al fine di giustificare, in larga parte, la discrasia esistente tra il preventivo iniziale e le spese documentate. E’ vero che il teste PONTIS, esperto di lavorazioni cinematografiche interpellato dalla Grant Thornton, ha dichiarato di non ricordare di aver esaminato i contratti in questione, precisando comunque che accordi retributivi di questo genere – come tutti quelli collegati a ricavi futuri – sarebbero stati detratti dai costi del film. Altrettanto vero, peraltro, è che, qualora la B.N.L. avesse condiviso tale impostazione, avrebbe certamente e radicalmente negato qualsiasi erogazione richiesta sulla base degli accordi condizionati. Né sembra possibile, comunque, ravvisare il perseguimento di un “ingiusto profitto”, ai sensi e per gli effetti di cui all’art. 640 c.p., nella stipula di contratti volti ad assicurare, ai soggetti coinvolti nella decisione di iniziare immediatamente le riprese, dei compensi superiori ai minimi sindacali, e tuttavia ampiamente ricompresi nel preventivo a suo tempo presentato: un preventivo peraltro ritenuto “irrisorio” dal PONTIS (cfr. la deposizione dibattimentale), e “con budget limitato” dalla Grant Thornton (pag. 4 dell’elaborato in atti); lo stesso teste VENTURA (particolarmente attendibile, non avendo egli effettuato alcuna valutazione in proposito, nel corso del procedimento) ha definito “medio-basso” il costo del film in questione.

Per ciò che riguarda l’univocità dell’atto, non si può anzitutto fare a meno di sottolineare che, nel preventivo per cui è causa, era stata inserita anche la somma di 155 milioni per le spese di stampa e pubblicità: spese integralmente eliminate (unitamente alla relativa percentuale di spese generali) dalla Grant Thornton, su conforme indicazione del PONTIS.

Ad avviso di questo Giudice, l’indicazione nel preventivo di voci di spesa pacificamente estranee all’ambito del finanziamento ex l. 153/94 appare del tutto significativa in ordine all’insussistenza di finalità illecite: essendo evidente che, in una maliziosa ricerca di indebite erogazioni, il MAZZONE avrebbe avuto cura di “gonfiare” ad arte le richieste suscettibili di rimborso, evitando di inserire voci non accoglibili e perciò destinate alla sicura eliminazione da parte dell’organismo incaricato dell’istruttoria procedimentale (operazioni truffaldine tanto più agevoli nella fattispecie in esame, avuto riguardo alla modesta entità complessiva del preventivo e della conseguente richiesta di finanziamento). Al contrario, tale aspetto costituisce una significativa conferma delle affermazioni del MAZZONE inerenti la propria assoluta inesperienza nel settore dei finanziamenti pubblici, prima del procedimento per cui è causa.

Ancor più significativa appare poi la vicenda del contratto di distribuzione e finanziamento stipulato nel luglio 1997 dalla società di produzione TEA NOVA con la LUCKY RED s.r.l. e con l’ISTITUTO LUCE s.p.a.: contratto che, come si è visto, ha assicurato un’immediata erogazione di complessivi 400 milioni a titolo di contributo alle spese di produzione (oltre ad una garanzia di anticipazione di ulteriori 270 milioni per le spese di edizione, promozione e lancio). E’ infatti evidente che, in una prospettiva volta a raggirare l’autorità preposta alla concessione del finanziamento, il MAZZONE avrebbe in ogni modo cercato di nascondere sia l’esistenza del contratto in questione, sia soprattutto le conseguenti non trascurabili erogazioni ricevute ben prima della conclusione del procedimento amministrativo.

Anche in questo caso, le risultanze documentali consentono di pervenire a conclusioni opposte: sia l’avvenuta conclusione del contratto con LUCKY RED e ISTITUTO LUCE, sia l’importo delle erogazioni, sia l’impiego di queste ultime per far fronte ai costi di lavorazione del film, risultano infatti tempestivamente comunicati alla Grant Thornton (pagg. 7 e 9 dell’elaborato).

Inoltre, e soprattutto, la ricezione dei 400 milioni è stata adeguatamente presa in considerazione nella proposta al comitato esecutivo della B.N.L., in cui si precisa testualmente che “è da tener presente che la Cliente ha già incassato un minimo garantito di complessive £ 400 mil. e che pertanto il finanziamento non verrà erogato per l’intero importo deliberato dal Dipartimento dello Spettacolo, ma presumibilmente per circa £ 872 milioni” (pag. 5 della proposta in atti). Né può dubitarsi della possibilità di valutare tale specifico aspetto, pur successivo alla presentazione del preventivo oggetto dell’imputazione: la giurisprudenza della Corte di cassazione è infatti costante nell’affermare che “la univocità della direzione degli atti, ai fini del tentativo, può essere desunta non solo dalla significazione oggettiva degli atti medesimi, ma anche dagli altri elementi sintomatici rilevabili aliunde, nella valutazione globale complessiva di qualsiasi elemento di prova” (così ad es. Cass., Sez. II, 19-6-76 n. 7250; sulla necessità di prendere in considerazione il complessivo comportamento dell’agente, ai fini della valutazione dell’univocità dell’atto, cfr. anche Cass., Sez. II, 11-4-84 n. 3263).

In definitiva, le risultanze fin qui esposte inducono a ritenere che la discrasia tra preventivo iniziale e spese documentate, accertata dal consulente CEREA, sia in realtà priva della valenza accusatoria attribuibile in via di prima approssimazione. L’ultimazione delle riprese ben prima della conclusione del procedimento – circostanza anch’essa tempestivamente comunicata nelle sedi competenti: cfr. pag. 6 dell’elaborato Grant Thornton e pag. 2 della proposta B.N.L. – induce piuttosto a ritenere credibile che si sia voluto iniziare e proseguire la realizzazione del film senza attendere l’esito della procedura amministrativa, facendo ricorso a lavorazioni in economia e a strumenti negoziali poco compatibili con il procedimento ex l. 153/94, ma in sé certamente inidonei a comprovare la fondatezza dell’ipotesi accusatoria.

P. Q. M.

visto l’art. 530 c.p.p.

assolve REAN MAZZONE Duilio, CIPRI’ Daniele, MARESCO Francesco e IACOLINO Calogero dal reato di cui all’art. 404 c.p. perché il fatto non sussiste e dalla residua imputazione loro ascritta al capo A) perché il fatto non è più previsto dalla legge come reato.
Assolve inoltre tutti i predetti imputati dal reato loro ascritto al capo B) dell’imputazione perché il fatto non sussiste;
visto l’art. 544 c.p.p.
indica in giorni novanta il termine per il deposito della sentenza.

Roma, 1 ottobre 2001
IL GIUDICE
(Dr. Vittorio PAZIENZA)