Sentenza 01 ottobre 1997, n.9585
Corte di Cassazione. Prima Sezione Civile. Sentenza 1 ottobre 1997, n. 9585: “Costruzione di edificio di culto su terreno espropriato”.
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE I CIVILE
Composta dagli Ill.mi Sigg. Magistrati:
Dott.Renato BORRUSO
Presidente
Pellegrino SENOFONTE
Rosario DE MUSIS
Ugo Riccardo PANEBIANCO
Francesco FELICETTI
Relatore
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
sul ricorso proposto da:
GIGLI RITA, GIGLI FRANCO, GIGLI GABRIELLA, tutti nella qualità di eredi di GIGLI ALFREDO, SCALUCCI GIUSEPPA in proprio e nella qualità di erede di GIGLI ALFREDO, SCALUCCI MARIA, PETITA ORLANDO, PETITA LAURA quali eredi di CAMERINI ROSSELLA,
CAMERINI ANNAMARIA, CAMERINI ROSSANA, CAMERINI CLAUDIO, CARPINETI MARIANNA, CARPINETI VALERIA, CARPINETI MARCELLO, elettivamente domiciliati in Roma Via
Donatello 71, presso l’avvocato Valeria Mazzarelli, che li rappresenta e difende giusta delega a margine del ricorso;
Ricorrente
contro
PONTIFICIA OPERA PER LA PRESERVAZIONE DELLA FEDE E LA PROVVISTA DI NUOVE CHIESE IN ROMA, elettivamente domiciliata in Roma Via C.
Poma 4, presso l’avvocato Emilio Conte, che la rappresenta e difende giusta delega a margine del controricorso;
Controricorrente
avverso la sentenza n. 236-96 della Corte d’Appello di Roma, depositata il 22-01-96;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 03-03-97 dal Relatore Consigliere Dott. Francesco Felicetti;
udito per il ricorrente, l’Avvocato Mazzarelli, che ha chiesto l’accoglimento del ricorso;
udito per il resistente, l’Avvocato Conte, che ha chiesto il rigetto del ricorso;
udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.Mario Delli Priscoli che ha concluso per il rigetto del ricorso.
Fatto
1. Gigli Gabriella, Gigli Rita, Gigli Franco, Scalucci Giuseppa, Scalucci Maria, Camerini Claudio, Camerini Rosella, Camerini Anna Maria, Camerini Rossana, Carpineti Marcello, Carpineti Valeria, Carpineti Romeo e Carpineti Marianna, con citazione 22 aprile 1988, convenivano dinanzi al Tribunale di Roma la Pontificia opera per la preservazione della Fede e la provvista di nuove chiese in Roma, esponendo che, con decreto 24 marzo 1977 il Presidente della giunta regionale del Lazio aveva dichiarato la pubblica utilità del complesso parrocchiale da realizzare su di un terreno di 5.000 mq di loro proprietà sito in Roma. Esponevano altresì che l’indennità definitiva di espropriazione era stata determinata nella misura di lire 54.000.000, ad essi versata e da essi accettata. Esponevano ancora che, con successivo decreto del 9 novembre 1978, il Presidente della Giunta regionale aveva pronunciato l’esproprio del terreno a favore della Pontificia opera per la preservazione della Fede e la provvista di nuove chiese in Roma, ma erano inutilmente decorsi i termini stabiliti senza che i lavori fossero stati iniziati. Gl’istanti deducevano che avevano perciò diritto alla restituzione del terreno, previa declaratoria di decadenza della pubblica utilità dell’opera ma che, tuttavia, essendo stata l’opera realizzata, chiedevano la dichiarazione di decadenza della dichiarazione di pubblica utilità, l’affermazione del loro diritto alla retrocessione e – accertata l’avvenuta realizzazione dell’opera e la conseguente irreversibile destinazione di essa ai fini di pubblico interesse, con la definitiva acquisizione della sua proprietà in capo all’espropriante – la condanna della parte convenuta al risarcimento del danno conseguente.
La parte convenuta si costituiva chiedendo il rigetto della domanda.
Il Tribunale, con sentenza 27 maggio 1992, dichiarava la decadenza dalla dichiarazione di pubblica utilità dell’opera, ma respingeva la domanda di risarcimento del danno, affermando che, non essendo la Pontificia Opera equiparabile alla Pubblica Amministrazione, era possibile la retrocessione del bene espropriato e non poteva quindi accogliersi la domanda di risarcimento dei danni per la perdita definitiva della proprietà dello stesso.
Avverso tale sentenza proponevano appello gli attori, assumendo che l’edificio di culto, in particolare l’immobile adibito ad uso parrocchiale, è opera pubblica. Censuravano, pertanto, la sentenza del Tribunale nella parte in cui aveva respinto la loro domanda di risarcimento dei danni affermando la recedibilità della proprietà del bene espropriato.
Nel contraddittorio fra le parti, la Corte d’Appello di Roma rigettava il gravame, osservando che gli enti ecclesiastici non possono qualificarsi come enti pubblici e gli edifici di culto debbono ritenersi beni privati, gravati da vincolo di destinazione, cosicché non può verificarsi l'”accessione invertita” a seguito della costruzione su un suolo privo di un edificio di culto, e potendone i proprietari ottenerne la restituzione secondo la disciplina dettata dall’art. 936 cod. civ.
Avverso tale sentenza, depositata il 22 gennaio 1996, hanno proposto ricorso gli appellanti, con atto notificato alla Pontificia opera per la preservazione della Fede e la provvista di nuove chiese in Roma il 10 maggio 1996, formulando tre motivi di ricorso, ai quali la parte intimata resiste con controricorso.
Diritto
1. Con il primo motivo si deduce la violazione e la falsa applicazione degli artt. 2043 e 2058 cod. civ., nonché degli artt. 831, secondo comma e 936 cod. civ., in quanto secondo i ricorrenti da un lato la scelta tra il risarcimento per equivalente e la reintegrazione in forma specifica nel caso di specie spettava ai proprietari e, dall’altro, la reintegrazione in forma specifica non era possibile, attesa la non sottraibilità al culto del complesso parrocchiale edificato sul suolo di essi ricorrenti.
Con il secondo motivo si deduce la violazione degli artt. 112 e 113 c.p.c., nonché il difetto di motivazione della sentenza, per avere il giudice d’appello respinto la domanda di risarcimento del danno in quanto ha ritenuto che la fattispecie non fosse configurabile come accessione invertita, secondo la prospettazione di essi ricorrenti, ma erroneamente omettendo di riconoscere agli stessi il diritto al risarcimento richiesto sulla base dell’esatta ricostruzione giuridica della fattispecie, che doveva compiere d’ufficio, in relazione ai fatti così come prospettati. La Corte avrebbe omesso, inoltre, di motivare circa la ritenuta natura priva degli edifici costruiti.
Con il terzo motivo si deduce la violazione del principio giurisprudenziale concernente l’accessione invertita, atteso che l’opera costruita, essendo un edificio destinato al culto, usufruirebbe di un regime analogo a quello delle opere pubbliche, dovendosene garantire la destinazione al culto (art. 53 della legge 20 maggio 1985 n. 222), configurandosi quale opera di urbanizzazione secondaria ex art. 4, lett. e) della legge 29 settembre 1964, n. 847 e successive modificazioni, ed essendo sotto tale profilo idonea a giustificare l’espropriazione per pubblico interesse ai sensi della legge n. 865 del 1971, nonché la gratuità della concessione edilizia ai sensi dell’art. 9 della legge 8 (NDR: così nel testo) gennaio 1977, n. 10. Tali caratteristiche dell’opera farebbero sì che essa presenti similitudini accentuate con i beni demaniali e patrimoniali indisponibili, le quali produrrebbero effetti sostanzialmente ablativi sui diritti altrui che vi si contrappongono, quale la proprietà dei ricorrenti. Del resto l’accessione invertita, ai sensi della legge n. 458 del 1988 può verificarsi anche in relazione ad opere private.
2. Va premesso che, secondo quanto risulta dalla sentenza impugnata, il Tribunale di Roma aveva respinto la domanda degli odierni ricorrenti in quanto avevano chiesto, nei confronti della Pontificia Opera per la preservazione della Fede e la provvista di nuove chiese in Roma, – per avere costruito un complesso parrocchiale su di un suolo originariamente di loro proprietà, dopo avere ottenuto il decreto di esproprio, ma iniziando i lavori successivamente al decorso dei termini per il loro completamento in esso stabiliti – il risarcimento del danno ad essi derivato dalla impossibilità di ottenere la retrocessione del bene espropriato, stante la sua definitiva acquisizione in proprietà da parte di essa Opera Pontificia a seguito della edificazione del complesso parrocchiale, da considerarsi opera pubblica.
Avendo il Tribunale respinto la domanda, affermando che non ricorrevano le condizioni perché potesse ritenersi irreversibile l’acquisto della proprietà dell’ara da parte della Pontificia Opera convenuta, con conseguente diritto degli istanti al correlativo risarcimento per equivalente, questi ultimi proponevano appello formulando un unico motivo, con il quale deducevano l’erroneità di tale assunto, sostenendo che il su detto complesso costituiva opera pubblica, ricorrendone i presupposti subbiettivi ed oggettivi per qualificarlo come tale: tesi disattesa anche dalla Corte d’Appello con la sentenza impugnata, la quale ha a sua volta confermato l’assenza dei requisiti necessari perché detto complesso possa qualificarsi opera pubblica, con a conseguente mancanza delle condizioni perché possa ritenersi irreversibilmente acquisita la proprietà del bene espropriato alla su detta Opera Pontificia e l’insussistenza del correlativo diritto degli attori ad ottenere il risarcimento richiesto in relazione all’asserita perdita della proprietà, potendo essi, invece, chiederne la retrocessione.
3. Tale essendo la decisione impugnata e la ricostruzione dei fatti di causa, va precisato innanzitutto che la fattispecie è regolata dall’art. 63 della l. 25 giugno 1865, n. 2359, a norma del quale “fatta l’espropriazione, se l’opera non siasi eseguita e siano trascorsi i termini a tal uopo concessi o prorogati, gli espropriati potranno domandare che sia dall’autorità giudiziaria competente pronunciata la decadenza dall’ottenuta dichiarazione di pubblica utilità, e siano loro restituiti i beni espropriati, mediante il pagamento del prezzo che sarà determinato nel modo indicato dall’art. 60”.
Detta norma, secondo il suo chiaro disposto ed un orientamento giurisprudenziale consolidato, attribuisce all’espropriato, ove l’opera in relazione alla cui esecuzione sia stato emesso il decreto di esproprio non sia stata eseguita entro i termini a tal fine concessi o prorogati – in correlazione con l’inefficacia della dichiarazione di pubblica utilità conseguente a tale decorso a norma dell’art. 13 della legge n. 2359 del 1865 – il diritto potestativo ad ottenere la retrocessione del bene. Questa, peraltro, è attuata solo dalla pronuncia del giudice, che ha valore costitutivo, effetto ex nunc, e dà luogo ad un vero e proprio ritrasferimento della proprietà, prima del quale il titolo ablativo pregresso conserva piena validità ed efficacia (da ultimo Cass. 15 aprile 1996, n. 3528; 3 settembre 1994, n. 7628). Tale diritto al ritrasferimento, secondo un indirizzo giurisprudenziale a sua volta risalente e consolidato (Cass. 21 novembre 1969, n. 3794; 26 aprile 1979, n. 2406; più recentemente Cass. 15 aprile 1996, n. 3528 cit.; 26 giugno 1990, n. 6492), nel caso in cui la restituzione del bene espropriato divenga impossibile per fatto dell’espropriato – quale la sua trasformazione in un bene pubblico appartenente al demanio od al patrimonio indisponibile di un ente pubblico, che non consenta il ritrasferimento al soggetto espropriato del bene – si converte nel diritto al risarcimento del danno per la impossibilità di riacquistare la proprietà del bene.
La norma, tenendo conto che l’espropriazione è ormai avvenuta e il proprietario del bene espropriato ha ricevuto l’indennità dovuta – la quale era pari, secondo i principi della legge n. 2359, al valore venale del bene espropriato – non ha finalità punitive dell’espropriante, ma ha inteso unicamente tutelare l’interesse del proprietario del bene espropriato al riacquisto della proprietà di esso, senza arrecare pregiudizio economico all’espropriante che, avendo esperito la procedura espropriativa pagando la prescritta indennità, ha acquistato la proprietà del bene espropriato e può anche non avere realizzato l’opera nei termini prescritti per fatti a lui non ascrivibili – quali la impossibilità giuridica o di fatto – non ostativi in nessun caso del diritto dell’espropriato alla retrocessione. Da qui l’attribuzione all’esproprio unicamente del diritto a chiedere il ritrasferimento della proprietà del bene corrispondendone il relativo prezzo, da liquidarsi, secondo un indirizzo giurisprudenziale al quale ha aderito anche la Corte costituzionale (Corte cost. 22 maggio 1987, n. 245; Cass. 30 novembre 1985, n. 5979; 9 novembre 1977, n. 4779; 21 giugno 1968, n. 2062) tenendo conto dei criteri alla stregua dei quali si provvide alla stima del bene, ai fini della determinazione dell’indennità di esproprio ai sensi della legislazione sopravvenuta alla legge n. 2359 del 1865. Va peraltro in proposito sottolineato che nel testo originario della legge n. 2359 (art. 60) era previsto che il prezzo di retrocessione non potesse superare l’ammontare dell’indennità di esproprio ricevuta (“salvo che vi fossero dall’espropriante eseguite nuove opere che ne avessero aumentato il valore”) mentre, significativamente, tale testo è stato modificato dal r.d.l. n. 691 del 1923 il quale, per evitare che l’espropriato lucrasse in danno dell’espropriante i vantaggi che gli sarebbero altrimenti derivati dalla forte inflazione di quegli anni, eliminò anche per il caso che non fossero state compiute opere incrementative il limite del valore dell’indennità di esproprio.
Evidente è, pertanto, l’intento legislativo espresso nella formulazione dell’art. 63, di attribuire al proprietario del bene espropriato, nell’ipotesi ivi prevista, unicamente un diritto di scelta fra il trattenere l’indennità di espropriazione, lasciando all’espropriante la proprietà del bene espropriato ovvero, secondo una valutazione economica affidata al suo esclusivo apprezzamento, pagarne il valore attuale – quantificato tenendo conto delle modalità di calcolo utilizzate per la liquidazione dell’indennità di esproprio, ma comprensivo di quello delle opere costruite – riacquistandone la proprietà nello stato in cui si trova. Risponde pertanto alla ratio legis che il diritto alla retrocessione possa trasformarsi in un diritto al risarcimento del danno solo nelle ipotesi eccezionali in cui la retrocessione della proprietà sia giuridicamente impossibile, per l’avvenuta costruzione di un opera entrata a far parte del demanio o del patrimonio indisponibile di un ente pubblico, alle quali può essere equiparata l’ipotesi, altrettanto eccezionale, della esistenza sull’opera costruita di un vincolo permanente e tendenzialmente irreversibile che renda la retrocessione del bene espropriato sostanzialmente priva di ogni contenuto economico.
All’esame dei singoli motivi va premesso ancora che, secondo la Costituzione, la laicità dello Stato è uno dei “principi supremi” del nostro ordinamento (C. Cost. 12 aprile 1989, n. 203), il quale non implica indifferenza dianzi alle religioni, ma garanzia dello Stato per la salvaguardia della libertà di religione in reme di pluralismo confessionale e culturale, attraverso tutti gli interventi, anche di ordine economico – purché attentamente non discriminanti – a tal fine necessari od opportuni. Dal principio di laicità dello Stato, consegue peraltro che le finalità di culto non possono rientrare sotto altro aspetto tra i fini istituzionali dello Stato e degli altri enti pubblici e formare oggetto di “servizio pubblico” in senso stretto, cosicché agli enti di culto non può essere riconosciuta la personalità giuridica pubblica, che oltre tutto comporterebbe una ingerenza dello Stato, attraverso i conseguenti controlli, incompatibile con la libertà ad essi garantita dagli artt. 8 e 19 della Costituzione (C. cost. 25 maggio 1990, n. 259, che ha dichiarato costituzionalmente illegittima l’attribuzione della personalità di diritto pubblico alle Comunità israelitiche).
Nell’ottica di tali principi ed in base alle considerazioni che seguono il ricorso va rigettato, ancorché la motivazione della Corte di Appello vada parzialmente rettificata ex art. 384, comma secondo, c.p.c. nei sensi che si diranno.
4. In parte infondato e in parte inammissibile è, innanzitutto, il primo motivo, con il quale si denuncia la violazione degli artt. 2043, 2058, 831 e 936 cod. civ. sostenendosi da un lato che la scelta fra la reintegrazione in forma specifica e risarcimento per equivalente spetta all’espropriato e, d’altro lato, che la reintegrazione in forma specifica non era possibile, attesa la non sottraibilità al culto del complesso parrocchiale ormai edificato.
In proposito va affermata in primis l’erroneità della ritenuta applicabilità alla fattispecie – anche da parte della sentenza impugnata – dell’art. 936 cod. civ., il quale riguarda le costruzioni fatte da un terzo su suolo altrui con materiali propri. Nel caso di specie, infatti, era pacifico in causa che si trattasse di costruzione fatta dalla Pontificia Opera su suolo di sua proprietà, in quanto ad essa trasferito in base a decreto di esproprio, non ritrasferendosi detta proprietà agli espropriati, in base ai principi sopra esposti, per il solo fatto che la costruzione non fosse stata ultimata nei termini prescritti, e non potendo avere effetto retroattivo neppure la eventuale sentenza che ne attuasse la retrocessione.
Erronea è, parimenti, la tesi dei ricorrenti secondo la quale, ai sensi degli artt. 2043 e 2058 cod. civ., ad essi spettava la scelta fra reintegrazione in forma specifica e risarcimento del danno per equivalente, non tenendo essa conto che la fattispecie è specificamente regolata dal sopra riportato art. 63 della legge n. 2359 del 1865 il quale non configura la mancata esecuzione dell’opera nei termini prescritti quale fatto illecito. Esso, infatti, come si è detto, si limita ad attribuire agli espropriati, in tale ipotesi, stante la perdita di efficacia della dichiarazione di pubblica utilità, il diritto alla retrocessione della proprietà del bene espropriato nello stato in cui si trova, previo pagamento del relativo prezzo, commisurato (art. 32) al suo valore al momento in cui viene disposta la retrocessione e senza alcun indennizzo, con la conseguente inapplicabilità degli artt. 2043 e 2054 cod. civ. alla fattispecie se non quando, dopo la nascita del diritto alla retrocessione, l’espropriante lo leda rendendo impossibile – giuridicamente o nel senso già sopra indicato – il concreto ritrasferimento del diritto di proprietà sul bene nel suo contenuto essenziale. Ipotesi la prima non ricorrente nel caso di specie e la seconda tardivamente prospettata solo in questa sede, ma non allegata a fondamento della domanda, basata unicamente, anche secondo la sua prospettazione in grado di appello, sull’asserita non ritrasferibilità della proprietà del bene espropriato, essendo stato costruito sul suolo espropriato un’opera pubblica.
Va osservato in proposito che il regime degli edifici di culto stabilito dall’art. 831 cod. civ., del quale con il motivo si deduce la violazione, non prevede la riserva in proprietà agli enti ecclesiastici degli edifici di culto, ma prevede espressamente che essi possano essere di proprietà di qualunque soggetto privato, con il vincolo di non potere essere sottratti alla loro destinazione fino alla cessazione di questa in conformità delle leggi che li riguardano. La disposizione, va inoltre sottolineato, per la sua chiara lettera e l’esplicito riferimento alle norme (canoniche) relative alle modalità della cessazione della deputatio ad cultum, è riferibile unicamente agli edifici di culto e non anche alle pertinenze di essi che nono siano strettamente indispensabili per l’esercizio del culto, in relazione alle quali non pone alcun vincolo di destinazione. Ne consegue che tale norma non poteva ritenersi di per sè ostacolo giuridico alla retrocessione del complesso in questione, non ponendo alcun divieto alla sua proprietà da parte di soggetti privati diversi da enti ecclesiastici e non estendendosi neppure automaticamente il vincolo da essa previsto a tutti i beni che ne fanno parte.
Inammissibile è invece il motivo quanto al profilo attinente alla impossibilità di concreta reintegrazione in forma specifica, in relazione al vincolo di destinazione gravante sull’opera edificata.
Trattasi, infatti di motivo non formulato in appello, il quale richiede accertamenti di fatto estranei al giudizio di legittimità, relativi alla natura e consistenza delle opere costruite ed al rapporto esistente dal punto di vista economico fra quelle gravate dal su detto vincolo di destinazione e quelle eventualmente non gravate, in modo da accertare se il vincolo nascente dall’art. 831 cod. civ. (ed eventualmente da quello, più ampio, ma limitato nel tempo, previsto dall’art. 53 della legge n. 222 del 1985, gravante sull’opera se in concreto finanziata con contributi comunali o regionali) avesse reso la retrocessione del bene espropriato sostanzialmente priva di contenuto economico, con il conseguente sorgere del diritto al risarcimento per equivalente.
Ne consegue il rigetto del primo motivo.
5. Il secondo e il terzo motivo – con i quali si lamenta che la Corte di Appello avrebbe omesso di motivare circa la natura privata degli edifici costruiti; in violazione degli artt. 112 e 113 c.p.c., avrebbe erroneamente negato la configurabilità nel caso di specie della “accessione invertita”, non avrebbe riconosciuto agli appellanti il diritto al risarcimento del danno in base all’esatta ricostruzione giuridica della fattispecie, da compiersi d’ufficio – sono infondati.
La Corte di Appello, ha esattamente motivato sulla natura privata del complesso edificato, ricollegandola alla mancanza, nell’ordinamento italiano, della qualità di ente pubblico nella proprietaria Opera Pontificia convenuta. Trattasi di questione di diritto, in relazione alla quale non è allegabile il vizio di motivazione ed in ordine alla quale va comunque affermato che gli enti ecclesiastici, in quanto tali, secondo quanto già affermato da questa Corte con giurisprudenza consolidata (Cass.
SS.UU. 11 gennaio 1990, n. 61; 5 novembre 1990, n. 10607; 6 dicembre 1995, n. 12359), nel regime sia anteriore che successivo alle modificazioni del Concordato fra lo Stato e la Chiesa cattolica, attuate con l’accordo del 18 febbraio 1984 (ratificato con legge 25 marzo 1985, n. 121) ed alla legge 20 maggio 1985, n. 222 (sugli enti ecclesiastici), non sono enti pubblici nell’ordinamento italiano, mancando una norma che riconosca ad essi, ex lege, tale qualificazione e prevedendo invece gli artt. 1 e 5 della legge n. 222 anzi detta il loro riconoscimento agli effetti civili secondo lo schema del riconoscimento delle persone giuridiche private, in conformità con i principi costituzionali sopra evidenziati. Ne consegue la natura privatistica dei diritti reali di tali enti sui beni di loro appartenenza e, conseguentemente, la retrocedibilità ai privati che ne abbiano diritto dei beni che ne formino oggetto, secondo le regole generali, non facendo essi parte nè di beni demaniali nè di beni patrimoniali indisponibili di enti pubblici e non esistendo pertanto, rispetto ad essi, limitazione alcuna alla emissione di sentenze costitutive.
A diverso avviso non conducono le argomentazioni svolte nel ricorso, secondo le quali gli edifici destinati al culto dovrebbero ritenersi oggetto di “accessione invertita” in quanto sottoposte ad un regime giuridico che li ha equiparati alle opere pubbliche, come si evincerebbe dall’art. 53 della legge 20 maggio 1985, n. 222; dall’art. 4 della legge 29 settembre 1964, n. 847; dell’art. 8 della legge n. 865 del 1971; dall’art. 9 della legge 8 (NDR: così nel testo) gennaio 1977, n. 10.
In proposito è assorbente, infatti, la non attinenza alla fattispecie in esame dell’istituto della “accessione invertita”, la quale, secondo il consolidato orientamento al riguardo, si verifica quando un ente pubblico – in carenza di un provvedimento espropriativo operativo di effetti, o perché mai emanato o perché caducato per illegittimità – occupa un suolo privato e radicalmente ed irreversibilmente lo trasforma in un bene pubblico assoggettato al regime proprio dei beni demaniali o patrimoniali indisponibili, su di esso realizzando un’opera pubblica, oggetto di una precedente valida dichiarazione di pubblica utilità (Cass. SS.UU. 26 febbraio 1983, n. 1464; 10 giugno 1988, n. 3940; Cass. 15 dicembre 1995, n. 12841;
Cass. SS.UU. 4 marzo 1997, n. 1907; Corte cost. 27 dicembre 1991, n. 486). Nel caso in esame, invece, è incontroverso che l’opera era stata costruita dopo la emanazione di un legittimo provvedimento espropriativo il quale, secondo il meccanismo previsto dagli artt. 13 e 62 della legge n. 2359 del 1865, conserva la sua validità ed efficacia nonostante la scadenza dei termini per il completamento dell’opera, cosicché l’espropriante conserva la proprietà del bene espropriato finché non sia emanata la sentenza di retrocessione ed acquisisce perciò la proprietà dell’opera edificata dopo la scadenza dei termini all’uopo fissati in quanto proprietario del suolo, secondo i principi generali, e non in forza di “accessione invertita”.
Quanto alla dedotta violazione degli artt. 112 e 113 c.p.c., essa non sussiste, avendo gli odierni ricorrenti, con l’atto di appello, allegato unicamente che il complesso edificato doveva ritenersi opera pubblica, con la conseguenza che non ne poteva essere disposta la retrocessione ed il correlativo loro diritto ad ottenere il risarcimento per equivalente. La Corte di Appello, pertanto, esattamente ha deciso su tale unico motivo, non essendo stato dedotto un vizio di interpretazione della domanda da parte del giudice di primo grado, nè potendo essa, mancandone le condizioni, ricostruire la fattispecie in modo tale da riconoscere agli istanti il diritto al risarcimento dei danni, in difformità della causa petendi e dell’unico motivo d’impugnazione dedotto.
Ne deriva che il ricorso deve essere rigettato, con compensazione delle spese di questo grado del giudizio, sussistendone giuste ragioni.
P.Q.M
La Corte di cassazione rigetta il ricorso. Compensa le spese.
Autore:
Corte di Cassazione - Civile
Dossier:
Edifici di culto
Nazione:
Italia
Parole chiave:
Enti ecclesiastici, Edifici di culto, Espropriazione, Retrocessione, Pubblico interesse, Decreto di esproprio, Sadenza dei termini, Accessione invertita
Natura:
Sentenza