Provvedimento 24 giugno 2005, n.6444
Commissione Tributaria Centrale. Sezione sez. 21^. Provvedimento 24 giugno 2005, n. 6444: “Regime tributario applicabile alle spese per il culto”.
(Omissis)
Pres. DI TARSIA DI BELMONTE,
Rel. COLAIANNI;
Uff. Imposte dirette di Teramo contro P.;
(Omissis)
Con la decisione sopra menzionata veniva confermata quella di primo grado, con cui era stata riconosciuta la non assoggettabilità ad imposta dell’assegno per spese di culto percepito dal parroco M.P. per il 1978.
Ricorre l’Amministrazione ribadendo i motivi posti a base dell’appello: l’assegno per spese di culto non figura tra i redditi esclusi dalla base imponibile o tra gli oneri deducibili a norma degli artt. 3 e 10 dpr 597/1973 e d’altro canto la non soggezione ad imposta, disposta dall’art. 25 u.co. r.d. 227/1931, siccome non considerata dal dpr 601/73, deve ritenersi ormai priva di applicazione ai sensi dell’art. 42 del decreto medesimo, con la conseguenza che l’assegno – per cui viene rilasciato il modello 101 – si cumula con l’assegno di congrua, costituendo un unico emolumento assimilato al reddito da lavoro dipendente.
Resiste il contribuente deducendo la natura non reddituale dell’assegno per spese di culto a norma della legge 26.7.1974, n. 343, oltre che delle leggi precedenti nelle parti da quella non modificate.
Il ricorso è infondato e la decisione va confermata, pur se con motivazione in parte diversa.
L’assegno per spese di culto, gravante sugli enti locali e sullo Stato in base a leggi antiche o successive a quelle di “eversione” dell’asse ecclesiastico, ha un’evidente natura giuridica di ristoro o di indennizzo per spese le spese intrinseche al culto, diversa da quella alimentare propria dell’assegno di congrua. Esso, infatti, a norma dell’art. 14 dpr. 29 gennaio 1931, n. 228, copre le spese per provvista di cera, olio, ostie, vino, incenso, illuminazione, retribuzioni al sacrestano e al campanaro, ecc. E se ordinariamente viene corrisposto, come l’assegno di congrua, al titolare del beneficio, in caso di vacanza di questo – e, quindi, di mancata corresponsione dell’assegno di congrua – continua ad essere corrisposto all’Ordinario diocesano, quale amministratore del beneficio vacante (art. 68 R.D. 29 gennaio 1931, n. 227). Segno, questo, evidente della differente natura dei due assegni, per cui, anche in assenza di un soggetto da alimentare, rimangono, tuttavia, le spese per il culto: di guisa che, se non viene corrisposto il primo assegno, il secondo viene corrisposto, ovviamente all’amministratore pro tempore.
La fonte dell’omologazione asserita dall’amministrazione finanziaria, anche con una risoluzione di carattere generale –cui essa si appella nel ricorso -, sarebbe negli artt. 24 e 25 del r.d. cit., laddove il legislatore disciplina l’assegno per spese di culto unitamente agli assegni di congrua allo scopo dichiarato di escludere quelle spese dalle passività patrimoniali computabili per stabilire il reddito netto del beneficio parrocchiale (artt. 3 e 24 r.d. cit.): trattandosi, infatti, di spese quantificabili e controllabili solo dal titolare dell’ufficio ecclesiastico, esse sono idonee, se aumentate, a diminuire fino a tendenzialmente azzerare il reddito beneficiale. Di qui la norma indicata, con cui per un verso si escludono dalle passività le spese e per altro verso si concede a ristoro delle stesse un assegno pari al 15% della congrua.
L’utilizzazione di questo parametro non muta, tuttavia, la natura giuridica dell’assegno per spese di culto, che non è assimilabile a quella alimentare dell’assegno di congrua: tant’è che, ai sensi dell’ultimo comma di detto art. 25, detto assegno è dichiarato – a differenza di quello di congrua: art. 73 rd cit. e, ora, art. 33 l. 343/1974 – “non soggetto a imposta”.
Non si tratta di un’agevolazione nei confronti di un reddito, altrimenti imponibile, ma di una radicale inidoneità all’imposizione dovuta alla natura non reddituale dell’assegno: che è sostanzialmente quella di un rimborso delle spese per il culto, ancorché forfettariamente determinato ex lege. Ciò spiega come sia vano ricercarne la menzione tra i redditi per cui il dpr 601/73 prevede agevolazioni tributarie: un provento di natura non reddituale (e cioe` indennitaria o risarcitoria) non abbisogna di una norma espressa di esenzione fiscale, essendo per quella sua natura non assoggettabile all’imposizione diretta. Non rileva, quindi, nella specie l’invocato disposto dell’art. 42 del citato D.P.R. n.601.
A conferma di questa linea interpretativa del sistema si pongono due leggi successive alla riforma tributaria, che entrambe presuppongono e nominano le disposizioni contenute negli artt. 24 e 25 dpr 227/1931. La legge 26 luglio 1974 n. 343, che contiene modifiche alle norme sulla liquidazione e concessione dei supplementi di congrua e degli assegni per spese di culto al clero, all’art. 33 considera reddito di lavoro dipendente e classifica nella categoria C di cui all’articolo 6 del decreto del Presidente della Repubblica 29 settembre 1973, n. 597, agli effetti dell’imposta sul reddito delle persone fisiche e dell’imposta, locale sui redditi, solo “le congrue ed i supplementi di congrua corrisposti sui bilanci del Fondo per il culto e del Fondo di beneficenza e di religione nella citta` di Roma, sia per concessione delle amministrazioni suddette sia per concessione anteriore dello Stato, qualunque ne sia l’origine e la causa”.
Nessuna menzione degli assegni per spese di culto, che quindi rimangono assoggettati, anche sotto il profilo tributario, alle disposizioni di cui al regio decreto 29 gennaio 1931, n. 227, e successive modificazioni, ritenute ancora vigenti. L’opposta interpretazione è sostenuta dalla risoluzione ministeriale 23.12.1983, prot. 8/1134, sul presupposto che, siccome alla data di entrata in vigore di detta legge (1 gennaio 1975) “l’abrogazione dell’agevolazione fiscale risultante da detto art. 25 era gia` operante (a decorrere dal 1 gennaio 1974), la mancanza assoluta di menzione della disposizione dell’articolo stesso, anziche` confermarne la vigenza, non puo` che comportare conferma dell’avvenuta abrogazione del medesimo”. Senonchè, a parte le assorbenti e sostanziali ragioni sopra enunciate, va osservato che, se così fosse, la legge avrebbe dovuto citare l’art. 24 (come fa in diverse disposizioni: artt. 19, 30, 32) non nella sua interezza originale ma nel testo risultante dalle successive modificazioni (comportanti, in ipotesi, l’abrogazione dell’ultimo comma).
Così non è ed in effetti la norma citata è stata abrogata solo a partire dal 1° gennaio 1985: come stabilito espressamente dall’art. 51 della legge n. 222 del 1985, integrante l’accordo di revisione del concordato (l. 121/1985), che ha riordinato l’intera materia ed ha precisato al capoverso che “le somme liquidate per l’anno 1984 a titolo di supplemento di congrua, onorari e spese di culto continuano ad essere corrisposte, in favore dei medesimi titolari, nel medesimo ammontare e con il medesimo regime fiscale, previdenziale e assistenziale per il periodo 1° gennaio 1985 – 31 dicembre 1986”. La precisazione riguardante la medesimezza del regime fiscale acquista senso sul presupposto (non dell’unicità del regime fiscale, cioè della comune sottoposizione al tributo, ma solo) della differenziazione del regime fiscale, che prevede l’inassoggettabilità a tributo delle spese di culto.
PQM
La Commissione tributaria centrale rigetta il ricorso dell’Ufficio.
Autore:
Commissione Tributaria
Nazione:
Italia
Parole chiave:
Parrocchie, Esenzioni fiscali, Regime tributario, Agevolazioni fiscali, Benefici ecclesiastici, Imposte, Indennità, Spese per il culto, Reddito da lavoro dipendente, Assegno di congrua
Natura:
Provvedimento