Osservatorio delle libertà ed istituzioni religiose

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Osservatorio delle Libertà ed Istituzioni Religiose

Documenti • 1 Dicembre 2005

Parere 30 settembre 2005

Comitato Nazionale per la Bioetica. Parere approvato nella seduta plenaria del 30 settembre 2005: “Interruzione dell’alimentazione ed idratazione di pazienti in stato vegetativo persistente”.

1. Di recente l’opinione pubblica mondiale è stata profondamente scossa dalla storia di una donna vissuta per quindici anni in stato vegetativo e lasciata morire a seguito della decisione di un giudice che ha autorizzato la richiesta del marito (contro il parere dei genitori) a staccare il tubo dell’alimentazione dal quale dipendeva la vita della donna. Considerato il cospicuo numero di persone che, anche in Italia, si trovano a vivere nel cosiddetto stato vegetativo persistente (SVP); considerata altresì la controversia in atto sul considerare o no trattamento medico e/o accanimento terapeutico la nutrizione e idratazione con sondino o con enterogastrostomia percutanea (PEG), il CNB ritiene utile ribadire in proposito alcuni principi bioetici fondamentali.

2. Con l’espressione stato vegetativo persistente (un tempo denominato coma vigile) si indica un quadro clinico (derivante da compromissione neurologica grave) caratterizzato da un apparente stato di vigilanza senza coscienza, con occhi aperti, frequenti movimenti afinalistici di masticazione, attività motoria degli arti limitata a riflessi di retrazione agli stimoli nocicettivi senza movimenti finalistici. I pazienti in SVP talora sorridono senza apparente motivo; gli occhi e il capo possono ruotare verso suoni e oggetti in movimento, senza fissazione dello sguardo. La vocalizzazione, se presente, consiste in suoni incomprensibili; sono presenti spasticità, contratture, incontinenza urinaria e fecale. Le funzioni cardiocircolatorie e respiratorie sono conservate e il paziente non necessita di sostegni strumentali. E’ conservata anche la funzione gastro-intestinale, anche se il paziente è incapace di nutrirsi per bocca a causa di disfunzioni gravi a carico della masticazione e della deglutizione. Se è vero che alcuni malati terminali possono diventare malati in SVP, è pur vero che le persone in SVP non sono sempre malati terminali (potendo sopravvivere per anni se opportunamente assistite). Non è corretto nemmeno associare la condizione dello SVP al coma: lo stato comatoso è infatti privo di veglia, mentre le persone in SVP, pur senza offrire chiari segni esteriori di coscienza, alternano fasi di sonno e fasi di veglia. Il problema bioetico centrale è costituito dallo stato di dipendenza dagli altri: si tratta di persone che per sopravvivere necessitano delle stesse cose di cui necessita ogni essere umano (acqua, cibo, riscaldamento, pulizia e movimento), ma che non sono in grado di provvedervi autonomamente, avendo bisogno di essere aiutate, sostenute ed accudite in tutte le loro funzioni, anche le più elementari. Ciò che va rimarcato con forza è che le persone in SVP non necessitano di norma di tecnologie sofisticate, costose e di difficile accesso; ciò di cui hanno bisogno, per vivere, è la cura, intesa non solo nel senso di terapia, ma anche e soprattutto di cure: esse hanno il diritto di essere accudite. In questo senso si può dire che le persone in SVP richiedono un’assistenza ad alto e a volte altissimo contenuto umano, ma a modesto contenuto tecnologico.

3. Non c’è dubbio che l’ingresso nello SVP sia un evento tragico e che ancor più tragica sia la permanenza (per una durata di tempo difficilmente prevedibile) in tale stato. Ma non c’è nemmeno il dubbio che la tragicità, per quanto estrema, di uno stato patologico, quale indubbiamente va ritenuto lo SVP, possa alterare minimamente la dignità delle persone affette e la pienezza dei loro diritti: non è quindi possibile giustificare in alcun modo non solo la negazione, ma nemmeno un affievolimento del diritto alla cura, di cui godono al pari di ogni altro essere umano. Non bisogna infatti dimenticare che non sono né la qualità della patologia né la probabilità della sua guarigione a giustificare la cura: questa trova la sua ragion sufficiente esclusivamente nel bisogno che il malato, come soggetto debole, ha di essere accudito ed eventualmente sottoposto a terapia medica. E’ peraltro intuizione comune, bioeticamente ben argomentabile, che quanto maggiore è la debolezza del paziente, tanto maggiore sia il dovere etico e giuridico di prendersi cura di lui, che grava sia sul sistema sanitario, sui suoi familiari e su ogni singolo individuo, che ne abbia la capacità e la possibilità. E’ opinione del CNB che qualora la famiglia fosse disponibile ad assistere a domicilio il paziente in SVP sia dovere delle istituzioni supportarne per quanto possibile gli oneri economici e assistenziali.

4. Per giustificare bioeticamente il fondamento e i limiti del diritto alla cura e all’accudimento nei confronti delle persone in SVP, va quindi ricordato che ciò che va loro garantito è il sostentamento ordinario di base: la nutrizione e l’idratazione, sia che siano fornite per vie naturali che per vie non naturali o artificiali. Nutrizione e idratazione vanno considerati atti dovuti eticamente (oltre che deontologicamente e giuridicamente) in quanto indispensabili per garantire le condizioni fisiologiche di base per vivere (garantendo la sopravvivenza, togliendo i sintomi di fame e sete, riducendo i rischi di infezioni dovute a deficit nutrizionale e ad immobilità). Anche quando l’alimentazione e l’idratazione devono essere forniti da altre persone ai pazienti in SVP per via artificiale, ci sono ragionevoli dubbi che tali atti possano essere considerati “atti medici” o “trattamenti medici” in senso proprio, analogamente ad altre terapie di supporto vitale, quali, ad esempio, la ventilazione meccanica. Acqua e cibo non diventano infatti una terapia medica soltanto perché vengono somministrati per via artificiale; si tratta di una procedura che (pur richiedendo indubbiamente una attenta scelta e valutazione preliminare del medico), a parte il piccolo intervento iniziale, è gestibile e sorvegliabile anche dagli stessi familiari del paziente (non essendo indispensabile la ospedalizzazione). Si tratta di una procedura che, rispettando condizioni minime (la detersione, il controllo della postura), risulta essere ben tollerata, gestibile a domicilio da personale non esperto con opportuna preparazione (lo dimostra il fatto che pazienti non in SVP possono essere nutriti con tale metodo senza che ciò impedisca loro una vita di relazione quotidiana). Procedure assistenziali non costituiscono atti medici solo per il fatto che sono messe in atto inizialmente e monitorate periodicamente da operatori sanitari. La modalità di assunzione o somministrazione degli elementi per il sostentamento vitale (fluidi, nutrienti) non rileva dal punto di vista bioetico: fornire naturalmente o artificialmente (con l’ausilio di tecniche sostitutive alle vie naturali) nutrizione e idratazione, alimentarsi o dissetarsi da soli o tramite altri (in modo surrogato, al di fuori dalla partecipazione attiva del soggetto) non costituiscono elementi di differenziazione nella valutazione bioetica. Il fatto che il nutrimento sia fornito attraverso un tubo o uno stoma non rende l’acqua o il cibo un preparato artificiale (analogamente alla deambulazione, che non diventa artificiale quando il paziente deve servirsi di una protesi). Né d’altronde si può ritenere che l’acqua ed il cibo diventino una terapia medica o sanitaria solo perché a fornirli è un’altra persona. Il problema non è la modalità dell’atto che si compie rispetto alla persona malata, non è come si nutre o idrata: alimentazione e idratazione sono atti dovuti in quanto supporti vitali di base, nella misura in cui consentono ad un individuo di restare in vita. Anche se si trattasse di trattamento medico, il giudizio sull’appropriatezza ed idoneità di tale trattamento dovrebbe dipendere solo dall’oggettiva condizione del paziente (cioè dalle sue effettive esigenze cliniche misurate sui rischi e benefici) e non da un giudizio di altri sulla sua qualità di vita, attuale e/o futura.

5. Se è poco convincente definire la PEG un “atto medico”, a maggior ragione si dovrebbe escludere la possibilità che essa si configuri di norma come “accanimento terapeutico”. La decisione di non intraprendere o di interrompere la nutrizione e la idratazione artificiale non è disciplinata dai principi che regolano gli atti medici (con riferimento ad altri supporti vitali): in genere si ritiene doveroso sospendere un atto medico quando costituisce accanimento, ossia persistenza nella posticipazione ostinata tecnologica della morte ad ogni costo, prolungamento gravoso della vita oltre i limiti del possibile (quando la malattia è grave e inguaribile, essendo esclusa con certezza la reversibilità, quando la morte è imminente e la prognosi infausta, le terapie sono sproporzionate, onerose, costose, inefficaci ed inutili per il miglioramento delle condizioni del paziente, sul piano clinico). Nella misura in cui l’organismo ne abbia un obiettivo beneficio nutrizione ed idratazione artificiali costituiscono forme di assistenza ordinaria di base e proporzionata (efficace, non costosa in termini economici, di agevole accesso e praticabilità, non richiedendo macchinari sofisticati ed essendo, in genere, ben tollerata). La sospensione di tali pratiche va valutata non come la doverosa interruzione di un accanimento terapeutico, ma piuttosto come una forma, da un punto di vista umano e simbolico particolarmente crudele, di “abbandono” del malato: non è un caso infatti che si richieda da parte di molti, come atto di coerenza, l’immediata soppressione eutanasica dei pazienti in SVP nei cui confronti si sia decisa l’interruzione dell’alimentazione e dell’idratazione, per evitare che dopo un processo che può prolungarsi anche per due settimane giungano a “morire di fame e di sete”.

6. Non sussistono invece dubbi sulla doverosità etica della sospensione della nutrizione nell’ipotesi in cui nell’imminenza della morte l’organismo non sia più in grado di assimilare le sostanze fornite: l’unico limite obiettivamente riconoscibile al dovere etico di nutrire la persona in SVP è la capacità di assimilazione dell’organismo (dunque la possibilità che l’atto raggiunga il fine proprio non essendovi risposta positiva al trattamento) o uno stato di intolleranza clinicamente rilevabile collegato all’alimentazione.

7. Si deve pertanto parlare di valenza umana della cura (care) dei pazienti in SVP. Se riteniamo comunemente doveroso fornire acqua e cibo alle persone che non sono in grado di procurarselo autonomamente (bambini, malati e anziani), quale segno della civiltà caratterizzata da umanità e solidarietà nel riconoscimento del dovere di prendersi cura del più debole, allo stesso modo dovremmo ritenere doveroso dare alimenti e liquidi a pazienti in SVP, accudendoli per le necessità fisiche e accompagnandoli emotivamente e psichicamente, nella peculiare condizione di vulnerabilità e fragilità. E’ questo un atteggiamento che assume un forte significato oltre che umano, anche simbolico e sociale di sollecitudine per l’altro. Non possiamo ricondurre la decisione di curare/non curare, assistere/non assistere un malato in SVP alla fredda logica utilitaristica del bilanciamento dei costi e dei benefici (considerando scarsi i benefici in termini di recupero e alti i costi economici di assistenza), del calcolo della qualità della vita altrui (e della propria, considerando il malato un “peso” familiare oltre che sociale), limitando le considerazioni alla convenienza e alla opportunità e non anche al dovere e alla responsabilità solidale verso gli altri.

8. Nel contesto del presente documento è opportuno elaborare alcune considerazioni in merito alla possibilità che un soggetto, nel redigere alcune Dichiarazioni anticipate di trattamento, vi inserisca la richiesta di sospensione di alimentazione e idratazione, nella previsione di un suo possibile futuro venirsi a trovare in una situazione di SVP. Non c’è dubbio che la formulazione di questa richiesta sia assolutamente lecita, così come non è dubbio che una simile richiesta non possa che essere del tutto generica, essendo difficilissimo prevedere le modalità specifiche del futuro realizzarsi di eventi così particolari. Il criterio etico fondamentale al quale riferirsi per valutare la legittimità dei contenuti delle Dichiarazioni anticipate è stato individuato dal CNB in un documento dedicato formalmente alle Dichiarazioni anticipate di trattamento e approvato il 18 dicembre 2003. In esso, al § 6, il CNB ha ritenuto unanimemente che nelle Dichiarazioni “ogni persona ha il diritto di esprimere i propri desideri anche in modo anticipato in relazione a tutti i trattamenti terapeutici e a tutti gli interventi medici circa i quali può lecitamente esprimere la propria volontà attuale”. Non è quindi da mettere in dubbio che quando alimentazione e idratazione assumano carattere straordinario e la loro sospensione sia stata validamente richiesta dal paziente nelle proprie Dichiarazioni anticipate, il medico potrebbe accedere a tale richiesta (nelle modalità peraltro indicate dal CNB nel predetto documento), anche se a questa soluzione sembra che osti la grande difficoltà (psicologica ed umana) cui sopra si è fatto cenno, quella di lasciar morire il paziente per inedia. E’ però diversa l’ipotesi – che in queste pagine è ritenuta quella tipica – in cui alimentazione e idratazione più che il carattere di un atto medico, abbiano quello di una ordinaria assistenza di base. Ad avviso dei membri del CNB che sottoscrivono questo documento, la richiesta nelle Dichiarazioni anticipate di trattamento di una sospensione di tale trattamento si configura infatti come la richiesta di una vera e propria eutanasia omissiva, omologabile sia eticamente che giuridicamente ad un intervento eutanasico attivo, illecito sotto ogni profilo.

9. Alla luce delle precedenti considerazioni, il CNB ribadisce conclusivamente che:

a) la vita umana va considerata un valore indisponibile, indipendentemente dal livello di salute, di percezione della qualità della vita, di autonomia o di capacità di intendere e di volere;

b) qualsiasi distinzione tra vite degne e non degne di essere vissute è da considerarsi arbitraria, non potendo la dignità essere attribuita, in modo variabile, in base alle condizioni di esistenza;

c) l’idratazione e la nutrizione di pazienti in SVP vanno ordinariamente considerate alla stregua di un sostentamento vitale di base;

d) la sospensione dell’idratazione e della nutrizione a carico di pazienti in SVP è da considerare eticamente e giuridicamente lecita sulla base di parametri obiettivi e quando realizzi l’ipotesi di un autentico accanimento terapeutico;

e) la predetta sospensione è da considerarsi eticamente e giuridicamente illecita tutte le volte che venga effettuata, non sulla base delle effettive esigenze della persona interessata, bensì sulla base della percezione che altri hanno della qualità della vita del paziente.

(omissis)