Osservatorio delle libertà ed istituzioni religiose

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Osservatorio delle Libertà ed Istituzioni Religiose

Documenti • 3 Marzo 2004

Parere 29 novembre 1995, n.3218

Consiglio di Stato. Sezione Prima. Parere 29 novembre 1995, n. 3218.

(omissis)

4. La Sezione ritiene che sia fondata la tesi dell’illegittimità del decreto ministeriale del 19 aprile 1994.

Si può soprassedere dall’approfondire la problematica – sviluppata dal Ministero con argomenti non manifestamente infondati – circa l’impossibilità di dare oggi applicazione ad una remota normativa, apparentemente non più compatibile con il nuovo ordinamento del Fondo per gli Edifici di Culto.

Ed invero, anche volendo dare per ammesso che possano tuttora giungere a perfezionamento le pratiche di cessione, instaurate tempestivamente – come di certo quella in esame – sulla base dell’art. 20 del r.d. n. 3036 del 1866, pare risolutiva la considerazione che nel caso in esame la cessione al Comune difetterebbe proprio dei presupposti tassativamente indicati dalla stessa norma.

L’art. 20 prevede che i fabbricati ex-conventuali siano ceduti ai comuni ed alle province, in quanto questi enti ne abbiano la necessità per allocarvi uffici e servizi di propria competenza. Nel caso in esame, l’intento originario dei Comune – peraltro mai realizzato, neppure quando l’immobile era nella sua disponibilità di fatto – era quello di utilizzare la Badia Nuova come sede di un istituto tecnico; ma attualmente è esplicita e condivisa da tutte le amministrazioni interessate l’intenzione di mantenere nel “Palazzetto Agnello”, a tempo indeterminato e in regime di locazione, la sede della Soprintendenza ai beni culturali e ambientali.

In concreto, dunque, il “Palazzetto Agnello” entrerebbe nel patrimonio del Comune non come bene strumentale per l’attività istituzionale propria del Comune stesso, ma come bene redditizio; dato in locazione ad un soggetto terzo. Pare manifesto il contrasto con la lettera e la ratio dell’art. 20 del r.d. n. 3036 del 1866.

E poiché l’impegno del Comune a locare il Palazzetto per uso della Soprintendenza è assunto esplicitamente a guisa di conditio sine qua non nella motivazione del decreto ministeriale del 19 aprile 1994, si ravvisa un evidente vizio di legittimità.

5. Conviene ricordare che già con circolare del 6 febbraio 1866 il Ministro Guardasigilli chiariva che siffatte concessioni ai Comuni avevano unicamente lo scopo di agevolare questi ultimi nell’esercizio delle loro funzioni in materia di istruzione, beneficenza, e simili; e raccomandava i prefetti a vigilare che i fabbricati non venissero rivolti ad altri scopi o abbandonati in disuso. Detta circolare si riferiva, per vero, all’applicazione del regolamento 25 settembre 1862, n. 855, art. 27, non essendo ancora stato emanato il decreto n. 3036 di quell’anno; ma le due normative non risultano diverse in modo rilevante, se non nel senso che nel decreto legislativo del 1866 la concessione ai comuni si configura come trasferimento in proprietà, mentre la normativa precedente (riguardante i beni ecclesiastici oggetto delle precedenti leggi eversive, emanate per singole parti del territorio nazionale o singole categorie di enti religiosi, laddove quella del 1866 ha portata più generale) la configurava come concessione in uso (cfr. Olmo, voce Asse ecclesiastico, § 123, in Digesto Italiano, vol. IV-1, Torino 1896). Sicché la circolare ministeriale del 1866 può ben essere utilizzata per intendere la ratio legis e per affermare l’illegittimità di un’assegnazione non conforme a quella ratio.

E se è vero che questo Consiglio, con un parere del 21 aprile 1883, ha affermato che i comuni non sono tassativamente vincolati a destinare gli immobili in questione agli usi considerati dall’art. 20 del r.d. n. 3036 del 1866, è anche vero che ciò è stato detto essenzialmente con riguardo ai mutamenti di destinazione intervenuti una volta perfezionata la concessione (o cessione) al comune, e per negare che in questa evenienza il Fondo per il Culto possa esigere la restituzione di un immobile. Pare molto diverso il caso del quale ora si discute, che non è quello di un mutamento di destinazione che sopravviene una volta perfezionato il trasferimento della proprietà, bensì quello di un provvedimento di concessione (il d.m. del 1994) che palesa nella sua stessa motivazione una finalità incompatibile con quella indicata dalla norma.

6. La proposta di annullamento d’ufficio del decreto ministeriale, oltre che fondata in punto di diritto, risulta anche opportuna e conforme all’interesse pubblico.

Al riguardo conviene ricordare che la giurisprudenza consolidata ritiene che per l’annullamento d’ufficio di un provvedimento amministrativo, in via di autotutela, non sia sufficiente l’esistenza del vizio di legittimità, ma occorra, altresì, la dimostrazione di un interesse pubblico specifico, concreto ed attuale, non identificabile con il generico interesse al ristabilimento della legalità violata.

Si deve, però, sottolineare che il problema dell’interesse pubblico specifico, concreto ed attuale viene solitamente posto in relazione all’esigenza di tutelare gli interessi legittimi del privato che si è avvantaggiato degli effetti di un provvedimento creduto in buona fede legittimo. Si ritiene, così, che l’interesse pubblico debba essere tanto più manifesto, quanto più il tempo trascorso dall’emanazione dell’atto abbia lasciato consolidare situazioni soggettive di vantaggio. Al contrario, si ritiene che non occorra una specifica e rigorosa motivazione sul punto dell’interesse pubblico qualora l’annullamento intervenga a breve distanza di tempo, o comunque non vi siano interessi consolidati (sez. II, 3 luglio 1976, n. 1344/75; sez. V, 24 ottobre 1980, n. 872; sez. V, 31 marzo 1978, n. 360; sez. VI, 25 febbraio 1989, n. 173).

Ora, nel caso in esame non si può parlare di effetti consolidati, trattandosi di procedimento ancora in itinere.

Inoltre non sembra appropriato richiamare i princìpi giurisprudenziali elaborati con riferimento alla tutela della buona fede del privato, perché nella specie il soggetto interessato al provvedimento è il Comune di Palermo, che non è un privato e neppure agisce, nella fattispecie, uti privatus: tutti i soggetti coinvolti nel procedimento sono, da una parte e dall’altra, pubbliche amministrazioni che agiscono per i propri fini istituzionali e che dunque sono in ugual misura interessate, innanzi tutto, alla corretta applicazione della legge che regola i loro rapporti e delimita le rispettive attribuzioni. In questa luce, non sembrano pertinenti concetti come la buona fede e la tutela dell’affidamento.

E va ancora considerato che anche nei rapporti con i privati in buona fede è stata talora ritenuta superflua la motivazione sull’interesse pubblico all’annullamento d’ufficio: ad esempio, quando siano in gioco, da una parte e dall’altra, interessi patrimoniali, si è detto che l’interesse pubblico è in re ipsa (sez. V, 31 gennaio 1984, nn. 20 e 22; sez. VI, 24 novembre 1983, n. 831; sez. I, 20 giugno 1990, n. 773/90).

Per quanto possa occorrere, sta di fatto, comunque, che nel caso in esame e ravvisabile anche un interesse pubblico specifico, attuale e concreto, in quanto il Fondo per gli Edifici di Culto non può essere depauperato – senza che ne ricorrano i presupposti di legge – della proprietà di un Immobile che, allo stato, gli assicura una considerevole rendita utile per i propri fini istituzionali. Al contrario, non si ravvisa un interesse meritevole di tutela nella posizione del Comune di Palermo, giacché quello considerato e protetto dall’art. 20 del citato regio decreto non è, come si è già avvertito, l’interesse a godere delle rendite di un immobile dato in locazione a terzi, ma solo quello ad avvalersi direttamente dell’immobile per le proprie necessità. Questi profili dovranno dunque essere evidenziati nella motivazione dell’emanando atto di autotutela.

7. Si può dunque concludere in senso favorevole all’iniziativa di annullamento d’ufficio del citato decreto ministeriale.

P.Q.M.

nelle suesposte considerazioni è il parere.