Osservatorio delle libertà ed istituzioni religiose

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Osservatorio delle Libertà ed Istituzioni Religiose

Legge 31 dicembre 2012, n.245

Legge 31 dicembre 2012, n. 245: "Norme per la regolazione dei rapporti tra lo Stato e l'Unione Buddhista Italiana, in attuazione dell'articolo 8, terzo comma, della Costituzione". (in "Gazzetta Ufficiale della Repubblica Italiana n. 14 del 17 gennaio 2013) [in vigore dal 1° febbraio 2013] Art. 1 – Rapporti tra lo Stato e l'Unione Buddhista […]

Ordinanza interlocutoria 14 gennaio 2013, n.712

Afferma la Sezione I Civile della Cassazione, nella sentenza n.
1343/2011 [https://www.olir.it/documenti/index.php?documento=5571], che
la prolungata convivenza tra i coniugi rappresenta condizione ostativa
alla delibazione della sentenza ecclesiastica di nullità del
matrimonio concordatario laddove si sia tradotta in un rapporto
corrispondente alla durata del matrimonio o comunque ad un periodo di
tempo considerevole dopo la celebrazione del matrimonio e la scadenza
del termine per l’impugnativa del matrimonio-atto. La costruzione
esegetica, che assume a dato dirimente la durata del matrimonio intesa
quale convivenza prolungata dei coniugi successivamente alla
celebrazione del matrimonio, richiamando espressamente il dettato
delle S.U. n. 19809 del 18 luglio 2008
[https://www.olir.it/documenti/index.php?documento=4915], rileva che
l’ordine pubblico interno matrimoniale manifesta il “favor” per la
validità del matrimonio, quale fonte del rapporto familiare incidente
sulla persona e oggetto di rilievo e tutela costituzionali. A questo
orientamento si è sostanzialmente uniformata la sentenza n. 9844/2012
[https://www.olir.it/documenti/index.php?documento=5898], in un caso in
cui la sentenza del tribunale ecclesiastico aveva dichiarato la
nullità del matrimonio concordatario per difetto di consenso,
assumendo tale vizio psichico a condizione d’inettitudine del
soggetto ad intendere i diritti ed i doveri del matrimonio al momento
della manifestazione del consenso, sostanzialmente conforme
all’ipotesi di invalidità contemplata dall’art. 120 c.c.,
sostenendo all’esito che la durata ventennale del matrimonio
prospettata dalla ricorrente come impeditiva della delibazione non
rilevava nella specie, essendosi la medesima ricorrente limitata a
porre in evidenza solo detto elemento temporale, e non l’effettiva
convivenza dei coniugi nello stesso periodo, che in ogni caso avrebbe
dovuto essere dedotta e provata in sede di delibazione. Anche la
sentenza della Cass. n. 1780 del 2012
[https://www.olir.it/documenti/index.php?documento=5784] ha aderito al
richiamato arresto, con la distinzione concettuale ad esso sottesa tra
matrimonio atto e matrimonio rapporto, pur escludendo nella specie
l’instaurazione di un matrimonio-rapporto duraturo e radicato. Si
è invece consapevolmente discostata da tale orientamento la sentenza
della Cassazione n. 8926 del 2012
[https://www.olir.it/documenti/index.php?documento=5897] che, in un
caso in cui era accertato il vizio simulatorio di uno degli sposi, ha
escluso che la convivenza dei coniugi successiva alla celebrazione del
matrimonio, che pur nella specie considerata si era protratta per
oltre trent’anni, “esprima norme fondamentali che disciplinano
l’istituto del matrimonio e, pertanto, non è ostativa, sotto il
profilo dell’ordine pubblico interno, alla delibazione della sentenza
ecclesiastica di nullità del matrimonio canonico” (nel solco
tracciato dal precedente delle S.U. n. 4700/1988
[https://www.olir.it/documenti/index.php?documento=4023]). Ed invero,
prosegue nella motivazione la sentenza n. 8926/2012, “considerata la
natura dei rapporti fra lo Stato italiano e la Chiesa cattolica,
disciplinati da accordi il cui valore, nell’ambito del principio di
bilateralità, è consacrato nell’art. 7 Cost., comma 2, che fornisce
copertura costituzionale anche agli accordi successivi ai Patti
Lateranensi, ivi espressamente indicati”, e pur nel vigore della L. 25
marzo 1985 n. 121 che ha dato esecuzione all’accordo di modificazioni
ed al protocollo addizionale del 18 febbraio 1984 tra la Santa Sede e
l’Italia, “restando attribuita in via esclusiva al tribunale
ecclesiastico la cognizione sull’invalidità del matrimonio
concordatario, siccome disciplinato nel suo momento genetico dalla
legge canonica”, la Corte d’appello, chiamata in sede di delibazione
ad attribuirne efficacia nel nostro territorio, è tenuta a trovare un
punto di equilibrio nelle non poche ipotesi di divergenza tra il
diritto canonico e quello civile. Di qui la necessità di delimitare
il concetto di “ordine pubblico interno” circoscrivendolo al caso
in cui si ravvisi una contrarietà ai canoni essenziali cui secondo
l’ordinamento interno è improntata la struttura dell’istituto
matrimoniale, tra i quali non si annovera l’instaurazione del
“matrimonio-rapporto” e la stabilità ad esso attribuita dalla
previsione dell’art. 123 comma 2 c.c. La tesi ivi propugnata si
colloca, dunque, in una cornice interpretativa del tutto contrastante
con quella fondante la sentenza n. 1343/2011 e la composizione del
rilevato contrasto, ad avviso della Suprema Corte adita, deve pertanto
essere rimessa alle Sezioni Unite della Cassazione, così come la
definizione delle ulteriori questioni originate dalle riferite opzioni
interpretative allo stato irrisolte.

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La Redazione di OLIR.it ringrazia per la segnalazione del documento
Settimio Carmignani Caridi, Università degli Studi di Roma “Tor
Vergata”, Segretario generale della Consociatio Internationalis
Studio Iuris Canonici Promovendo

Sentenza 15 gennaio 2013

Non tutti gli atti ispirati dal credo religioso sono da considerarsi
una manifestazione della libertà religiosa tutelata
dall'art. 9 della CEDU: per godere della protezione di tale
articolo, deve trattarsi di atti "strettamente connessi alla
religione". La libertà di manifestare il credo, tuttavia,
non è limitata agli atti di culto, ma si estende anche ad altri
comportamenti e pratiche. Per quanto riguarda la tutela della
libertà religiosa nel luogo di lavoro, la giurisprudenza della
Corte europea ha spesso affermato che, qualora vi siano delle
restrizioni alla messa in atto di particolari pratiche connesse alla
religione, la libertà dei lavoratori non sarebbe violata nel
caso in cui possano dimettersi e cambiare lavoro. Tuttavia, in primo
luogo questo criterio non è sempre applicabile e deve tener
conto della tipologia delle restrizioni previste; in secondo luogo,
data l'importanza della libertà religiosa per le
società democratiche, occorre valutare se la possibilità
del lavoratore di cambiare impiego sia accettabile, considerato il
contesto e la proporzionalità delle restrizioni poste a tale
libertà.
Per quanto riguarda il divieto di
discriminazione (art. 14, da analizzare congiuntamente all'art. 9
CEDU), la Corte ricorda che risultano vietati sia trattamenti diversi
di situazioni analoghe, sia trattamenti uguali di situazioni
differenti, a meno che non si tratti del perseguimento di un obiettivo
legittimo e ragionevole, nel rispetto del principio di
proporzionalità.
La proporzionalità (relativa sia
ai limiti alla libertà religiosa, sia alla valutazione della
discriminatorietà di un trattamento) deve essere valutata nel
rispetto del "margine di apprezzamento", ovvero una certa
discrezionalità riconosciuta agli Stati nell'applicazione
dei diritti fondamentali. Nei quattro casi riuniti ed esaminati dalla
sentenza – tutti relativi a controversie avvenute nel Regno Unito a
proposito di pratiche religiose sul luogo di lavoro – la Corte di
Strasburgo ha affermato che:

  • nel caso della prima ricorrente
    (Ms. Eweida), la decisione di British Airways di licenziare una
    hostess che aveva indossato un crocifisso visibile sulla sua divisa
    era da ritenersi non proporzionale e, di conseguenza, i giudici
    nazionali hanno violato il diritto di libertà religiosa nel
    convalidare il licenziamento;
  • nel caso della seconda
    ricorrente (Ms. Chaplin), il divieto di indossare una catenina con la
    croce era invece da considerare proporzionato, perché
    finalizzato alla tutela della salute e sicurezza dei pazienti e dei
    lavoratori di un ospedale pubblico;
  • nel caso della terza
    ricorrente (Ms. Ladele), il rifiuto di registrare le unioni
    omosessuali nel registro dello stato civile era sì un atto
    intimamente connesso al credo cristiano; tuttavia l'intervento
    dello Stato, che ha riconosciuto i medesimi diritti alle coppie
    eterosessuali ed omosessuali, è da ritenersi legittimo e la
    limitazione alla manifestazione del credo è stata
    proporzionale, rientrando nel margine di apprezzamento nazionale la
    valutazione e il bilanciamento dei diritti di non discriminazione
    religiosa e di parità in base all'orientamento
    sessuale;
  • nel caso del quarto ricorrente (Mr. McFarlane),
    analogamente a quello della sig.ra Ladele, le autorità statali
    hanno operato un corretto bilanciamento degli interessi in gioco,
    nell'ambito del loro margine d'apprezzamento, anche tenuto
    conto che il ricorrente aveva volontariamente accettato di svolgere
    attività di consulenza in una società privata, sapendo
    di venire a contatto anche con coppie dello stesso sesso.

(Stella Coglievina)


Le sentenze dei tribunali inglesi:

Eweida
v. British Airways
(Court of Appeal, 12 febbraio 2010)

Eweida v.
British Airways
(Employment Appeal Tribunal, 20 novembre 2008)

Chaplin
v. Royal Devon and Exeter NHS Foundation Trust
(Employment
Tribunal, 21 ottobre 2010)

Ladele v.
London Borough of Islington
(sentenza 15 dicembre 2009)

Caso
McFarlane: Contrasto tra convinzioni religiose e prestazioni
lavorative
(sentenza 29 ottobre 2010)

McFarlane vs.
Relate Avon LTD
(Employment Appeal Tribunal 30 novembre 2009)

Sentenza 11 gennaio 2013, n.6

E’ inammissibile il ricorso del padre che, in sede di impugnazione
della sentenza di affidamento esclusivo del minore alla madre, affermi
il mancato approfondimento – da parte del Tribunale di merito – in
ordine al fatto se la famiglia affidataria del minore, composta da due
donne legate da una relazione omosessuale, fosse idonea sotto il
profilo educativo a garantire l’equilibrato sviluppo del figlio
“in relazione ai diritti della famiglia come società naturale
fondata sul matrimonio ai sensi dell’art. 29 della Costituzione” e
al diritto del minore ad essere educato “secondo i principi
religiosi di entrambi i genitori” (essendo il padre musulmano). Nel
caso di specie, infatti, il ricorrente si è limitato – a giudizio
della Corte adita – a fornire una sintesi del motivo di gravame in
questione, dalla quale non risulta tuttavia alcuna specificazione
circa le concrete ripercussioni negative per la crescita del minore
derivanti da tale ambiente familiare. In tale modo, dunque, si dà per
scontato – afferma la Suprema Corte – ciò che invece è da
dimostrare, ossia la dannosità di quel particolare contesto per la
crescita e lo sviluppo del bambino.

Risoluzione 01 gennaio 2013, n.134

Risoluzione 1 gennaio 2013, n. 134: "Condemning the Government of Iran for its state-sponsored persecution of its Baha’i minority and its continued violation of the International Covenants on Human Rights". H. Res. 134 In the House of Representatives, U. S., January 1, 2013. Whereas, in 1982, 1984, 1988, 1990, 1992, 1994, 1996, 2000, 2006, 2008, […]

Legge 10 dicembre 2012, n.219

Legge 10 dicembre 2012, n. 219: "Disposizioni in materia di riconoscimento dei figli naturali". (in "Gazzetta Ufficiale della Repubblica Italiana" n. 293 del 17 dicembre 2012) [in vigore dal 1° gennaio 2013] Art. 1 Disposizioni in materia di filiazione 1. L'articolo 74 del codice civile e' sostituito dal seguente: «Art. 74 (Parentela). – La parentela […]