Osservatorio delle libertà ed istituzioni religiose

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Osservatorio delle Libertà ed Istituzioni Religiose

Sentenza 22 maggio 2002, n.4558

E’ inammissibile il ricorso proposto dalla Unione degli atei e degli
agnostici razionalisti tendente ad ottenere la rimozione dei
crocifissi dai seggi elettorali prima dell’inizio delle operazioni
di voto in quanto le leggi vigenti e la Costituzione non prevedono
alcun divieto di esposizione del crocifisso e di oggetti sacri nei
seggi elettorali e negli uffici pubblici in genere, con ciò lasciando
intendere che il Ministero non è tenuto ad adottare particolari
disposizioni per la rimozione di tali oggetti. Infatti, secondo i
principi stabiliti dalla Costituzione in tema di liberta’ religiosa,
come interpretati dalla Corte costituzionale, non sussiste un obbligo
né un divieto circa l’esposizione del crocifisso negli uffici
pubblici in genere.

Sentenza 01 marzo 2000, n.439

Cassazione. Quarta Sezione Penale. Sentenza 1 marzo 2000, n. 439. (Battisti; Bianchi) 1. – Marcello Montagnana veniva condannato dal pretore di Cuneo alla pena di lire 400.000 di multa per il reato di cui all’art.108 d.p.r. 30.3.1957, n. 361, perché, designato in occasione delle elezioni politiche del marzo 1994 all’ufficio di scrutatore del seggio elettorale […]

Sentenza 22 maggio 1995, n.5838

L’affermazione, secondo cui non avrebbe “alcun rilievo né interesse
stabilire l’esatta natura delle idee professate da …
(un’)associazione, siano esse filosofiche, religiose o meramente
culturali, ovvero non abbiano alcuno di questi requisiti … dal
momento che dette dottrine ricevono in ogni caso, come qualsiasi altra
manifestazione del pensiero, tutela nel nostro ordinamento”, non
sembra condivisibile. Vi è, infatti, una non trascurabile differenza
tra la tutela costituzionale del diritto di manifestare liberamente il
proprio pensiero con la parola, lo scritto ed ogni altro mezzo di
diffusione, prevista dall’art. 21 della Costituzione e la tutela
delle confessioni religiose e della libertà di religione, prevista
dagli articoli 8, 19 e 20 della stessa Carta costituzionale. Ed, in
vero, alcune norme del nostro ordinamento giuridico stabiliscono
particolari agevolazioni per le confessioni religiose;
conseguentemente è necessario che la pubblica amministrazione o, in
caso di controversia, gli organi giurisdizionali accertino se un
gruppo di persone rivesta effettivamente tale qualità, ovvero non si
tratti di un gruppo che, facendo leva sul desiderio di religiosità
diffuso, persegua interessi personali (profani) dei suoi fondatori o
amministratori. Anzi, in tal caso, se più persone dovessero riunirsi
e fondare una “chiesa”, prevedendo nello statuto riti ed attività che
consistano (esclusivamente) in condotte integranti gli estremi di
fatti penalmente perseguibili, costoro – a prescindere dalla
commissione dei singoli reati – si renderebbero in ogni caso
responsabili del delitto di associazione per delinquere, per la cui
sussistenza è irrilevante l’eventuale mancata consumazione dei
delitti programmati. Viceversa lo svolgimento, sin dalle origini, di
un’eventuale attività di tipo commerciale – anche se di vaste
proporzioni – da parte di una “chiesa” non è sufficiente a farle
perdere la connotazione di “confessione religiosa” di cui
all’articolo 8 della Costituzione. Pur nella sua specificità la
libertà religiosa non si presenta nell’ordinamento giuridico
italiano come una libertà sconfinata e non soggetta ad alcun freno.
Il diritto corrispondente non può essere esercitato, infatti, con
azioni in contrasto con valori e interessi aventi la stessa rilevanza
costituzionale della libertà religiosa e la cui commissione
costituisca una violazione delle norme e dei principi posti a tutela
dei così detti “diritti personalissimi” o del “diritto alla salute” o
dei valori supremi ai quali devono conformarsi anche le disposizioni,
che godono, come quelle concordatarie, di una particolare “copertura
costituzionale”, oltre che del “buon costume” (espressamente) previsto
dall’articolo 19 della Carta costituzionale. Per altro, ad avviso
della Corte, l’espressione “buon costume” non può essere intesa nel
senso penalistico di osceno o contrario alla pubblica decenza, ma in
quello più ampio di attività conforme ai principi etici che
costituiscono la morale sociale, in quanto ad essi uniforma il suo
comportamento la generalità delle persone oneste, corrette, di buona
fede e di sani principi, in un determinato ambiente ed in una
determinata epoca. L’accertamento del carattere religioso di
Scientology appare essenziale, giacché una “chiesa”, con regole
statutarie ben precise, non può trasformarsi in associazione per
delinquere, salvo che tutti i suoi aderenti non decidano di cambiare
le regole in precedenza adottate, dando così vita ad un nuovo
soggetto, diverso dall’originario. L’accertamento del caso di
specie non può fondarsi, per altro, sull’autoqualificazione dei
membri di Scientology come appartenenti ad una confessione religiosa.
Pur in mancanza di una definizione legislativa, la Corte
costituzionale (sent. n. 195 del 1993) ha precisato che per
l’ammissione a determinati benefici, connessi alla natura religiosa
di un gruppo, non può bastare che il richiedente si autoqualifichi
come confessione religiosa, ed ha enucleato alcuni indici utili per
riconoscere le realtà autenticamente confessionali. Tali indici non
sono sicuramente esaustivi e lasciano un ampio margine discrezionale
all’interprete, che è libero di elaborarne altri; essi
rappresentano, tuttavia, un punto di partenza obbligato per affrontare
il tema della religiosità o no di un gruppo che si autoqualifica come
“confessione” o “chiesa”. Si tratta, per altro, di un tema che
l’interprete istituzionale non può eludere tutte le volte in cui
l’accertamento di cui si è detto è necessario ai fini di una
decisione. Chiarito che una “chiesa” non può identificarsi con una
associazione per delinquere, salvo che tutti i suoi aderenti non
decidano di cambiare le originarie regole statutarie, i giudici del
merito avrebbero dovuto accertare se l’organizzazione di Scientology
fosse o no una confessione religiosa, e nell’ipotesi affermativa se
– avuto riguardo ai reati commessi da alcuni dei suoi appartenenti –
essa si fosse trasformata in una associazione per delinquere; ovvero
se – come era stato già sostenuto dalla Procura ed appare
ipotizzabile – nell’ambito di una attività lecita
dell’organizzazione possa essere sorta, in modo distinto ed
autonomo, una associazione illecita. Qualora venga accertato che i
fini di una associazione, così come indicati nello statuto, siano
perfettamente leciti, così da escludere la responsabilità dei
dirigenti in ordine al reato associativo, gli stessi possono
rispondere a titolo di concorso morale dei reati-fine, rientranti nel
programma delinquenziale, commessi dagli autori materiali solo se si
dimostra che i medesimi dirigenti abbiano voluto anch’essi lo
specifico reato-fine apprestandovi consapevolmente un contributo
causale. A tal fine, in assenza di prove dirette, il giudice può
fondare legittimamente il proprio convincimento su prove indirette
(indizi), purché si tratti di elementi gravi precisi e concordanti ex
art. 192, comma 2, del C.p.p. del 1988. Alla luce del principio
implicito in tale disposto non appare corretto ricorrere ad una
praesumptio de praesumpto al fine di affermare la responsabilità
penale di un imputato. é pertanto censurabile il ragionamento seguito
dai giudici di merito, quando hanno ritenuto che gli imputati i quali
si trovavano ai vertici dell’associazione “non potevano non avere
avuto conoscenza” di una determinata pratica e quindi dei metodi
adottati dai singoli operatori. Se, infatti, il giudice può, partendo
da un fatto noto, risalire da questo ad un fatto ignoto, non può in
alcun caso porre quest’ultimo come fonte di un’ulteriore
presunzione, in base alla quale motivare una sentenza di condanna. Non
può sostenersi l’esclusione dell’elemento soggettivo dei reati di
truffa, adducendo che i riti di Scientology non sarebbero un artificio
e un raggiro per indurre taluno in errore, al fine di procurare a sé
o ad altri un ingiusto profitto, in quanto si concretizzerebbero, al
contrario, in atti di esercizio del diritto di libertà religiosa. Si
è, infatti, precisato che, per l’ordinamento giuridico italiano,
qualsiasi rito incontra limiti ben precisi, tra i quali quello di
compiere fatti di reato, o fatti la cui commissione costituisca una
violazione del buon costume, ovvero dei principi costituzionali dei
quali si è fatto cenno. Alla stessa stregua non esclude la
punibilità del delitto di esercizio abusivo della professione medica
il ritenere in buona fede di agire nel superiore interesse
dell’”anima” del paziente, giacché, per come si è già accennato,
la tutela alla salute costituisce un limite indubbio
all’esplicazione della libertà religiosa. L’adozione di una serie
di comportamenti insistenti e molesti – sia pure reiterati – o di
comportamenti concretantisi in meri “ricatti morali”, non è
sufficiente a realizzare gli estremi del delitto di estorsione, che
può essere commesso solo mediante la violenza fisica o la minaccia,
intesa come prospettazione di un male futuro la cui verificazione
dipenda dall’agente. Non è sostenibile che, nella specie, ricorrano
gli estremi di una causa di non punibilità, ai sensi dell’art. 152,
comma 2, del C.p.p. del 1930. Ed in vero, l’applicabilità o meno
nel caso concreto dell’articolo 20, comma 2, del D.P.R. 29 settembre
1973, n. 598, nella parte in cui esonera dal pagamento di imposta le
cessioni di beni e le prestazioni di servizi “effettuate in
conformità alle finalità istituzionali da associazioni politiche,
sindacali e di categoria, religiose etc.”, richiede, anzitutto, che
all’organizzazione di Scientology sia riconosciuta la natura di
associazione religiosa, fatto questo non evidente e che dovrà essere
accertato dai giudici del rinvio. Né apparirebbe evidente, ancorché
fosse stata provata la religiosità della Chiesa di Scientology, che
le suddette cessioni e prestazioni siano state effettuate in
conformità alle finalità istituzionali dell’associazione stessa,
risultando anzi, dalla sentenza di secondo grado, che tali operazioni
avevano vera e propria natura commerciale.

Ordinanza 17 maggio 1996

La legittimazione attiva alla reintegra nel possesso di una Chiesa
evangelica locale aperta al culto pubblico non spetta alle ADI, nella
qualità di proprietarie dell’edificio, bensì alla comunità
evangelica locale che ne risulti possessore, a nulla rilevando in
senso contrario né la mera indicazione di fonti documentali come
prova della dipendenza del possessore dal titolare di un diritto reale
sul bene, né eventuali provvedimenti disciplinari destinati ad
operare esclusivamente all’interno dell’ordinamento confessionale
specifico.

Sentenza 21 marzo 2001, n.857

Tar Veneto. Sezione II. Sentenza 21 marzo 2001, n. 857. (Trivellato; Stevanato) Il Tribunale Amministrativo Regionale per il Veneto, Sezione seconda,ha pronunziato la seguente SENTENZA sul ricorso n. 567/2001 proposto dalla ASSOCIAZIONE DEI TESTIMONI DI GEOVA di Noale, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dall’avv. Raffaela Rampazzo, come da mandato in […]

Sentenza 09 dicembre 1992, n.421

Gli Enti di culto non cattolici (quale, nella specie, la Congregazione
cristiana dei testimoni di Geova), ancorché riconosciuti dallo Stato
italiano, non possono ricevere parte della quota dei proventi di cui
alla L. 28 gennaio 1977 n. 10, che la Regione Umbria destina per le
chiese ed edifici religiosi, in quanto a tal fine è necessario che
tali Enti abbiano stipulato intese , senza le quali non è possibile
alcun tipo di relazione giuridica con lo Stato italiano.

Ordinanza 04 dicembre 2001, n.88

Tar Lombardia. Ordinanza 4 dicembre 2001, n. 88. IL TRIBUNALE AMMINISTRATIVO REGIONALE Ha pronunciato la seguente ordinanza sul ricorso n. 4316/95 R.G. proposto dalla “Congregazione cristiana dei testimoni di Geova”, in persona del presidente p.t., rappresentata e difesa dal prof. avv. Riccardo Villata, presso il cui studio e’ elettivamente domiciliata, in Milano, via S. Barnaba […]

Ordinanza 25 gennaio 1993

Il giudizio di finita locazione di un immobile destinato
all’esercizio pubblico del culto ebraico che sia stato instaurato
dal proprietario anteriormente alla legge 8 marzo 1989, n. 101, non
esclude l’applicabilità della predetta legge se la scadenza della
locazione o la data di rilascio risultano fissate per un tempo
successivo all’entrata in vigore della stessa, dovendosi altresì
ritenere che, in ogni caso, il recupero dell’immobile non concreta
l’automatica sottrazione di esso alla destinazione di culto.
L’applicazione dell’art. 15 della legge n. 101 deve avvenire
interpretando la norma conformemente alla Costituzione, ossia nel
senso che a rilevare non è la salvaguardia soggettiva di singoli
conduttori o occupanti, ma la tutela oggettiva del luogo, perché esso
sia disponibile all’uso da parte dei fedeli. Va, quindi, rigettata
l’istanza di sospensione dell’esecuzione fondata dal conduttore
dell’immobile sul convincimento che il rapporto locatizio debba
intendersi procastinato sine die, almeno finché non cessi la
destinazione; mentre, il relativo procedimento di opposizione
all’esecuzione deve essere rimesso al tribunale competente, una
volta separato da quello relativo all’opposizione ai singoli atti
esecutivi che si rinvia per la definizione.

Ordinanza 08 febbraio 1993

É illegittimo il ricorso all’assistenza della forza pubblica da
parte dell’ufficiale giudiziario nel compimento di atti esecutivi
promossi nei confronti del conduttore di un immobile di proprietà
privata adibito all’esercizio pubblico del culto ebraico, stante il
chiaro disposto dell’art. 15 della legge 8 marzo 1989, n. 101, che
deve considerarsi applicabile anche ai luoghi di culto ebraico aperti
al pubblico per i quali sia stato ottenuto giudizialmente il rilascio
per finita locazione.

Ordinanza 16 agosto 1991

Il superamento dei limiti massimi di esposizione al rumore fissati dai
regolamenti amministrativi non integra di per sé la prova
dell’intollerabilità delle immissioni acustiche. Nel giudizio sulla
normale tollerabilità, ex art. 844 c.c., di immissioni acustiche
provocate dall’uso di campane a scopo di culto, va effettuato, in
estensione del 2º comma di tale articolo, un equo contemperamento tra
le ragioni della proprietà e le esigenze della vita religiosa.