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Motu proprio 04 giugno 2016
Risoluzione 12 maggio 2016
Sentenza 02 marzo 2016, n.8401
Il delitto di maltrattamenti in famiglia è configurabile anche
in danno di persona convivente " more uxorio", quando si sia
in presenza di un rapporto tendenzialmente stabile, sia pure naturale
e di fatto, instaurato tra le due persone, con legami di reciproca
assistenza e protezione (cfr. Cass. sez. 6, n. 21329 del 24/01/2007)
Sentenza 04 aprile 2016, n.650
Neel caso di specie, il ricorrente, nella veste di genitore della
persona cui è stata rifiutata l’interruzione del
trattamento di alimentazione e idratazione, ha diritto al risarcimento
sia del danno a titolo di erede, sia di quello iure proprio per
lesione del rapporto parentale. In ordine al danno di natura non
patrimoniale a titolo ereditario va evidenziato come il comportamento
della Regione ha leso il diritto fondamentale ad ottenere
l’interruzione del procedimento di alimentazione artificiale,
atteso che è stato riconosciuto in capo alla paziente, come
pure a ciascun individuo, il diritto assoluto a rifiutare le cure ad
essa somministrate in qualunque fase del trattamento e per qualunque
motivazione (cfr. Cass. Civ., I, 16 ottobre 2007, n. 21748, riferita
proprio al caso de quo), sul presupposto della sussistenza di
specifici presupposti (la cui verifica è stata affidata alla
Corte d’Appello di Milano che ha pronunciato il decreto in data 9
luglio 2008). A fronte dei predetti provvedimenti
giurisdizionali che hanno accertato la sussistenza del diritto ad
ottenere l’interruzione del trattamento sanitario, il rifiuto
espresso con l’atto dirigenziale, contenente il diniego di
ricovero al fine di sospendere il trattamento di idratazione e
alimentazione artificiale – annullato con la sentenza di questo
Tribunale
n. 214 del 2009, confermata dalla decisione del Consiglio
di Stato n. 4460 del 2014 –, ha determinato la lesione del
diritto fondamentale di autodeterminazione in ordine alla
libertà di scelta di non ricevere cure, oltre che della salute,
così come ricostruito nelle sentenze che li hanno riconosciuti
(c.d. diritto di staccare la spina: da ultimo, Cass.,
SS.UU, 22 dicembre 2015, n. 25767), e la lesione del diritto
all’effettività della tutela giurisdizionale; le lesioni
sono state aggravate dalla circostanza che, nemmeno dopo la pronuncia
di questo Tribunale, la Regione ha messo a disposizione una struttura
per eseguire quanto statuito nelle diverse sedi giurisdizionali. Si
tratta poi di danno conseguenza, ossia di lesione che ha avuto degli
effetti, seppure di tipo non patrimoniale, giacché non è
stata rispettata la volontà del soggetto interessato –
per come ricostruita dalla Corte d’Appello – di voler
mettere fine ad un trattamento sanitario; ciò rappresenta una
palese violazione degli artt. 2, 13 e 32 Cost. (Corte costituzionale,
sentenza n. 438 del 2008; Cass. Civ., III, 12 giugno 2015, n.
12205). La quantificazione dei sopra richiamati danni, di tipo
non patrimoniale, che può avvenire soltanto attraverso una
valutazione in via equitativa (Cass. Civ., III, 23 gennaio 2014, n.
1361), va effettuata tenendo conto sia della natura dolosa del rifiuto
regionale, pur a fronte delle numerose iniziative giurisdizionali
intraprese, sfociate nel decreto della Corte d’Appello del 9
luglio 2008, sia del non brevissimo lasso di tempo – dalla
predetta pronuncia – che si è dovuto attendere prima
della interruzione del trattamento sanitario.
Ordinanza 05 aprile 2016
Non è contrario all’ordine pubblico un provvedimento
straniero che abbia statuito un rapporto di adozione piena tra persone
coniugate e i rispettivi figli riconosciuti dei coniugi, anche dello
stesso sesso, una volta valutato in concreto che il riconoscimento
dell’adozione, e quindi il riconoscimento di tutti i diritti e
doveri scaturenti da tale rapporto, corrispondono all’interesse
superiore del minore al mantenimento della vita familiare costruita
con ambedue le figure genitoriali e al mantenimento delle positive
relazioni affettive ed educative che con loro si sono consolidate, in
forza della protratta convivenza con ambedue e dei provvedimenti di
adozione.
Decreto ministeriale 26 maggio 2016, n.2016-683
Legge 20 maggio 2016, n.76
[in vigore dal 5 giugno 2016]
Sentenza 20 maggio 2016, n.579
L’art. 3, comma 3 del D.Lgs. n. 216 del 2003 stabilisce che
“nel rispetto dei principi di proporzionalità e
ragionevolezza e purché la finalità sia legittima,
nell’ambito del rapporto di lavoro o dell’esercizio
dell’attività di impresa, non costituiscono atti di
discriminazione […] quelle differenze di trattamento dovute a
caratteristiche connesse alla religione, […], qualora per la
natura della attività lavorativa o per il contesto in cui essa
viene espletata, si tratti di caratteristiche che costituiscono un
requisito essenziale o determinante ai fini dello svolgimento della
attività medesima”. Nel caso di specie, il giudice di
seconda istanza ha affermato che il “non indossare il
velo” non sia da ritenersi requisito essenziale o determinante
ai fini della selezione per l’attività di hostess,
riformando pertanto la sentenza del Tribunale di primo grado, ed ha
dichiarato il carattere discriminatorio del comportamento posto in
essere dalla società appellata, condannando quest’ultima
al risarcimento del danno non patrimoniale subito
dall’appellante.
Sentenza 13 aprile 2016, n.84
A fronte, dunque, di quella che è stata definita “una
scelta tragica”, tra il rispetto del principio della vita (che
si racchiude nell’embrione ove pur affetto da patologia) e le
esigenze della ricerca scientifica – una decisione così
ampiamente divisa sul piano etico e scientifico, e che non trova
soluzioni significativamente uniformi neppure nella legislazione
europea – la linea di composizione tra gli opposti interessi,
che si rinviene nelle disposizioni censurate, attiene all’area
degli interventi, con cui il legislatore, quale interprete della
volontà della collettività, è chiamato a
tradurre, sul piano normativo, il bilanciamento tra valori
fondamentali in conflitto, tenendo conto degli orientamenti e delle
istanze che apprezzi come maggiormente radicati, nel momento dato,
nella coscienza sociale. Compete dunque a
quest'ultimo la valutazione di opportunità (sulla base
anche delle “evidenze scientifiche” e del loro raggiunto
grado di condivisione a livello sovranazionale) in ordine: alla
utilizzazione, a fini di ricerca, dei soli embrioni affetti da
malattia – e da quali malattie – ovvero anche di quelli
scientificamente “non biopsabili”; alla selezione degli
obiettivi e delle specifiche finalità della ricerca
suscettibili di giustificare il “sacrificio”
dell’embrione; alla eventualità, ed alla determinazione
della durata, di un previo periodo di crioconservazione; nonchè
alla opportunità o meno (dopo tali periodi) di un successivo
interpello della coppia, o della donna, che ne verifichi la confermata
volontà di abbandono dell’embrione e di sua destinazione
alla sperimentazione; alle cautele più idonee ad evitare la
“commercializzazione“ degli embrioni residui.