Osservatorio delle libertà ed istituzioni religiose

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Osservatorio delle Libertà ed Istituzioni Religiose

Documenti • 8 Giugno 2012

Ordinanza 22 maggio 2012, n.150

Corte Costituzionale. Ordinanza 22 maggio – 7 giugno 2012, n. 150

 
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori:
          Alfonso                         QUARANTA                                Presidente
          Franco                          GALLO                                          Giudice
          Luigi                             MAZZELLA                                          "
          Gaetano                        SILVESTRI                                           "
          Sabino                          CASSESE                                             "
          Giuseppe                      TESAURO                                            "
          Paolo Maria                  NAPOLITANO                                    "
          Giuseppe                     FRIGO                                                  "
          Alessandro                   CRISCUOLO                                       "
          Paolo                            GROSSI                                                "
          Giorgio                         LATTANZI                                           "
          Aldo                             CAROSI                                               "
          Marta                           CARTABIA                                          "
          Sergio                           MATTARELLA                                    "
          Mario Rosario              MORELLI                                             "

ha pronunciato la seguente
ORDINANZA
 
nei giudizi di legittimità costituzionale degli articoli 4, comma 3, 9, commi 1 e 3, e 12, comma 1, della legge 19 febbraio 2004, n. 40 (Norme in materia di procreazione medicalmente assistita), promossi dal Tribunale ordinario di Firenze con ordinanza del 6 settembre 2010, dal Tribunale ordinario di Catania con ordinanza del 21 ottobre 2010 e dal Tribunale ordinario di Milano con ordinanza del 2 febbraio 2011, rispettivamente iscritte ai nn. 19, 34 e 163 del registro ordinanze 2011 e pubblicate nella Gazzetta Ufficialedella Repubblica nn. 6, 10 e 30, prima serie speciale, dell’anno 2011.
Visti gli atti di costituzione di S.B. ed altre, di P.C. ed altri, della società cooperativa U.M.R. – Unità Medicina della Riproduzione, nonché gli atti di intervento di B.S. ed altri e del Movimento per la vita italiano, federazione dei Movimenti per la vita e dei Centri di aiuto alla vita d’Italia (M.P.V.), dell’Associazione WARM (World Association of Reproductive Medicine), fuori termine, e del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nell’udienza pubblica del 22 maggio 2012 il Giudice relatore Giuseppe Tesauro;
uditi gli avvocati Carlo Casini per il Movimento per la vita italiano, federazione dei Movimenti per la vita e dei Centri di aiuto alla vita d’Italia (M.P.V.), Gian Domenico Caiazza per S. B. ed altre, Marilisa D’Amico e Massimo Clara per P.C. ed altri, Pietro Rescigno per la società Cooperativa U.M.R. – Unità Medicina della Riproduzione e l’avvocato dello Stato Gabriella Palmieri per il Presidente del Consiglio dei ministri.
 
Ritenuto che il Tribunale ordinario di Firenze, il Tribunale ordinario di Catania ed il Tribunale ordinario di Milano, rispettivamente con ordinanze del 6 settembre, del 21 ottobre 2010 e del 2 febbraio 2011, hanno sollevato, in riferimento agli articoli 117, primo comma, e 3 della Costituzione – in relazione agli articoli 8 e 14 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (d’ora in avanti: CEDU), ratificata e resa esecutiva con legge 4 agosto 1955, n. 848 –, nonché agli articoli 2, 3, 31 e 32 della Costituzione (la seconda e la terza ordinanza) ed all’articolo 29 della Costituzione (la terza ordinanza), questione di legittimità costituzionale dell’articolo 4, comma 3, della legge 19 febbraio 2004, n. 40 (Norme in materia di procreazione medicalmente assistita) (tutte le ordinanze), e degli articoli 9, commi 1 e 3, limitatamente all’inciso «in violazione del divieto di cui all’articolo 4, comma 3», e 12, comma 1, di detta legge (la seconda e la terza ordinanza);
 
che la legge n. 40 del 2004 disciplina la procreazione medicalmente assistita e, in particolare: l’art. 4, comma 3, stabilisce che «è vietato il ricorso a tecniche di procreazione medicalmente assistita di tipo eterologo»; l’art. 9, commi 1 e 3, dispone che, «qualora si ricorra a tecniche di procreazione medicalmente assistita di tipo eterologo in violazione del divieto di cui all’articolo 4, comma 3, il coniuge o il convivente il cui consenso è ricavabile da atti concludenti non può esercitare l’azione di disconoscimento della paternità nei casi previsti dall’articolo 235, primo comma, numeri 1) e 2), del codice civile, né l’impugnazione di cui all’articolo 263 dello stesso codice» e che, «in caso di applicazione di tecniche di tipo eterologo in violazione del divieto di cui all’articolo 4, comma 3, il donatore di gameti non acquisisce alcuna relazione giuridica parentale con il nato e non può far valere nei suoi confronti alcun diritto né essere titolare di obblighi»; l’art. 12, comma 1, stabilisce che «chiunque a qualsiasi titolo utilizza a fini procreativi gameti di soggetti estranei alla coppia richiedente, in violazione di quanto previsto dall’articolo 4, comma 3, è punito con la sanzione amministrativa pecuniaria da 300.000 a 600.000 euro»;
 
che, secondo l’ordinanza di rimessione del Tribunale di Firenze, nel processo principale, introdotto con ricorso ai sensi dell’art. 700 del codice di procedura civile, S.B. e F.B., coniugati dal 2004, hanno dedotto di non essere riusciti a concepire un figlio per vie naturali, a causa della sterilità del marito, provata dalla documentazione medica prodotta, ed hanno chiesto che sia accertato il loro diritto a «ricorrere alle metodiche di procreazione medicalmente assistita di tipo eterologo», utilizzando «il materiale genetico di terzo donatore anonimo acquisito direttamente» da essi istanti, ovvero dal centro medico convenuto in giudizio, nell’osservanza delle disposizioni dei decreti legislativi 6 novembre 2007, n. 191 (Attuazione della direttiva 2004/23/CE sulla definizione delle norme di qualità e di sicurezza per la donazione, l’approvvigionamento, il controllo, la lavorazione, la conservazione, lo stoccaggio e la distribuzione di tessuti e cellule umani) e 25 gennaio 2010, n. 16 (Attuazione delle direttive 2006/17/CE e 2006/86/CE, che attuano la direttiva 2004/23/CE per quanto riguarda le prescrizioni tecniche per la donazione, l’approvvigionamento e il controllo di tessuti e cellule umani, nonché per quanto riguarda le prescrizioni in tema di rintracciabilità, la notifica di reazioni ed eventi avversi gravi e determinate prescrizioni tecniche per la codifica, la lavorazione, la conservazione, lo stoccaggio e la distribuzione di tessuti e cellule umani), e che, in attesa della definizione del giudizio di merito e dell’eventuale giudizio di legittimità costituzionale, sia disposta «la crioconservazione degli embrioni prodotti e destinati al ciclo di PMA di tipo eterologo»;
 
che i ricorrenti hanno dedotto che il centro medico specializzato al quale si sono rivolti (convenuto nel giudizio principale) ha rifiutato di eseguire tale tecnica di procreazione medicalmente assistita (PMA), esclusivamente in quanto vietata dal citato art. 4, comma 3, e, per tale ragione, hanno chiesto che il giudice adito, preso atto della sentenza della Prima Sezione della Corte europea dei diritti dell’uomo (di seguito: Corte EDU) del 1° aprile 2010, S.H. e altri c. Austria, e tenuto conto dell’art. 6, comma 2, del Trattato di Lisbona del 13 dicembre 2007, ratificato e reso esecutivo con legge 2 agosto 2008, n. 130, che modifica il Trattato sull’Unione europea e il Trattato che istituisce la Comunità europea (entrato in vigore il 1° dicembre 2009), disapplichi detta disposizione, della quale, in linea gradata, hanno eccepito l’illegittimità costituzionale;
che nel giudizio principale si è costituito il Centro Demetra s.r.l., in persona del legale rappresentante, condividendo la tesi dei ricorrenti in ordine al potere del giudice comunedi non applicare il citato art. 4, comma 3, sostenendo la praticabilità della tecnica di procreazione medicalmente assistita di tipo eterologo, e, inoltre, sono intervenute l’Associazione Luca Coscioni per la libertà di ricerca scientifica, l’Associazione Amica Cicogna Onlus, l’Associazione Cerco un bimbo e l’Associazione Liberididecidere, in persona dei legali rappresentanti, svolgendo argomenti a conforto della tesi dei ricorrenti;
 
che, secondo il Tribunale di Firenze, i ricorrenti versano nella condizione prevista dall’art. 5 della legge n. 40 del 2004 e ricorrono i presupposti stabiliti dagli artt. 1, comma 2, e 4, comma 1, di detta legge, risultando dimostrato che, nella specie, l’unica tecnica di PMA utilmente praticabile è quella di tipo eterologo, vietata dalla norma censurata;
che il rimettente svolge ampie argomentazioni, per sostenere, sulla scorta dei principi enunciati da questa Corte, che la disposizione nazionale in contrasto con la CEDU viola l’art. 117, primo comma, Cost. e, anche dopo l’entrata in vigore dell’art. 6 del Trattato sull’Unione europea, nel testo modificato dal Trattato di Lisbona, il giudice comune non ha il potere di disapplicare la prima, e tuttavia, ritenendo impossibile porre rimedio a detto contrasto mediante l’interpretazione convenzionalmente conforme, solleva questione di legittimità costituzionale dell’art. 4, comma 3, della legge n. 40 del 2004 in riferimento ai suindicati parametri, motivando diffusamente in ordine alla rilevanza della questione ed alla sua proponibilità nel giudizio cautelare;
 
che, secondo l’ordinanza di rimessione del Tribunale di Catania, i coniugi P.C. e G.R., hanno dedotto che P.C. è affetta da sterilità assoluta causata da menopausa precoce e, per tale ragione, si sono rivolti alla società cooperativa U.M.R. – Unità Medicina della Riproduzione s.c.r.l. (infra: UMR), chiedendo che ella fosse sottoposta ad una terapia di «bombardamenti ormonali», ritenuta inutile e potenzialmente dannosa dal responsabile di detta società, che ha indicato quale unica possibilità per essi istanti di generare un figlio il ricorso alla cosiddetta «ovodonazione», che, tuttavia, ha rifiutato di praticare, perché vietata dall’art. 4, comma 3, della legge n. 40 del 2004, e, conseguentemente, detti coniugi hanno chiesto, ai sensi dell’art. 700 cod. proc. civ., che sia ordinato alla UMR di eseguire «secondo l’applicazione delle metodiche della procreazione assistita, la c.d. fecondazione eterologa e nel caso di specie la donazione di gamete femminile», eccependo, in linea gradata, l’illegittimità costituzionale del citato art. 4, comma 3;
 
che nel processo principale si è costituita la UMR, dichiarandosi disponibile ad eseguire la tecnica di PMA di tipo eterologo, qualora sia rimosso il divieto stabilito da detta norma, e sono intervenute le associazioni HERA O.N.L.U.S., Sos Infertilità O.N.L.U.S. e Menopausa Precoce, nelle persone dei legali rappresentanti, svolgendo argomenti a conforto della domanda;
 
che, secondo il Tribunale di Catania, la ricorrente è affetta da sterilità assoluta e, sussistendo i presupposti stabiliti dalla legge n. 40 del 2004 per la PMA, nella specie sarebbe indispensabile praticare una tecnica di tipo eterologo che, però, è vietata dal citato art. 4, comma 3;
che, a suo avviso, benché tale disposizione violi la CEDU, al giudice comune, anche dopo l’entrata in vigore del Trattato di Lisbona, non spetta il potere di disapplicarla, e, quindi, non essendo possibile offrire della stessa un’interpretazione costituzionalmente orientata, censura le norme in esame, in riferimento ai parametri costituzionali sopra indicati, motivando in ordine alla rilevanza della sollevata questione di legittimità costituzionale;
 
che, secondo l’ordinanza di rimessione del Tribunale di Milano, nel giudizio principale, promosso con ricorso, ai sensi dell’art. 700 cod. proc. civ., due coniugi (E.P. e M.M.) hanno chiesto che sia ordinato in via d’urgenza ad un medico-chirurgo di praticare la PMA di tipo eterologo, mediante donazione di gamete maschile, in quanto il ricorrente è affetto da azoospermia completa e, quindi, solo mediante detta tecnica essi potrebbero dare alla luce un figlio, come ha riconosciuto il medico-chirurgo al quale si sono rivolti che, tuttavia, ha rifiutato di effettuarla, poiché è vietata dal citato art. 4, comma 3;
 
che, nella prima fase, la domanda cautelare è stata rigettata e sono stati dichiarati inammissibili gli interventi nel giudizio di alcune associazioni, le quali avevano svolto argomenti a conforto della tesi dei ricorrenti; proposto reclamo avvero il provvedimento di rigetto, il rimettente ha confermato la dichiarazione di inammissibilità di detti interventi ed ha reputato, invece, fondate le censure proposte dai ricorrenti, ritenendoli titolari di «un interesse soggettivo giuridicamente rilevante ad una eventuale pronuncia di merito azionabile, consistente in un “fare” (procedere alla PMA eterologa)»;
 
che, dopo avere indicato le ragioni della rilevanza e della incidentalità della questione, il rimettente approfondisce la sentenza della Corte EDU sopra richiamata ed espone diffusamente gli argomenti in virtù dei quali, a suo avviso, «non può trovare accoglimento la richiesta interpretazione convenzionalmente e costituzionalmente orientata» del citato art. 4, comma 3, non potendo, inoltre, il giudice comune «“disapplicare” la legge nazionale che risulti in contrasto con la Convenzione europea dei diritti dell’uomo come interpretata dalla Corte di Strasburgo», dando «diretta applicazione delle norme CEDU» e, conseguentemente, censura le disposizioni sopra indicate, in riferimento ai succitati parametri costituzionali;
 
che i rimettenti, dopo avere riportato ampi brani della sentenza della Prima Sezione della Corte EDU 1° aprile 2010, S.H. e altri c. Austria, deducono che le norme da essi rispettivamente censurate violerebbero l’art. 117, primo comma, Cost., in relazione agli artt. 8 e 14 della CEDU, come interpretati da detta pronuncia, in quanto, secondo il giudice europeo, nonostante l’ampio margine di discrezionalità degli Stati, qualora sia disciplinata la PMA, la relativa regolamentazione deve essere coerente e considerare adeguatamente i differenti interessi coinvolti, in accordo con gli obblighi derivanti dalla Convenzione, con conseguente irragionevolezza del divieto assoluto delle tecniche di procreazione medicalmente assistita di tipo eterologo e lesione delle citate disposizioni convenzionali, dal momento che lo stesso non costituirebbe l’unico mezzo possibile per evitare il rischio di sfruttamento delle donne e di abuso di tali tecniche e per impedire parentele atipiche, non costituendo il diritto del bambino a conoscere la sua discendenza effettiva un diritto assoluto;
 
che, ad avviso del Tribunale di Firenze, dette argomentazioni e la considerazione che la possibilità di effettuare le più idonee metodiche di PMA è negata ai soggetti completamente sterili, nonostante che l’art. 1, comma 2, della legge n. 40 del 2004 permetta il ricorso alla procreazione medicalmente assistita «qualora non vi siano altri metodi terapeutici efficaci per rimuovere le cause di sterilità o infertilità», dimostrebbero la lesione anche dell’art. 3 Cost.;
 
che, secondo il Tribunale di Catania, le norme censurate si porrebbero, altresì, in contrasto, con gli artt. 3 e 31 Cost., recando vulnus ai principi di non discriminazione, ragionevolezza, coerenza dell’ordinamento giuridico ed al diritto fondamentale alla «creazione di una famiglia», in quanto, tenuto conto che l’esigenza di impedire che vi siano persone con una madre biologica ed una genetica diverse non è stato ritenuto «degno di pregio» dalla Corte europea, la disciplina in esame: a) non ragionevolmente, da un canto, vieta la PMA di tipo eterologo, dall’altro, stabilisce sanzioni amministrative soltanto in danno dei medici che la praticano (art. 12, comma 1), dall’altro ancora, riconosce gli «effetti dell’eventuale violazione», nel senso che il citato art. 9 prevede «che il figlio nato in seguito a procreazione assistita di tipo eterologo sia legittimo» e vieta «la possibilità del disconoscimento della paternità e dell’anonimato della madre da parte dei genitori biologici ma non genetici, ed esclude qualsiasi legame giuridico parentale rispetto ai donatori di gameti»; b) realizza una non ragionevole disparità di trattamento delle coppie che versano nell’impossibilità di procreare, a seconda del tipo di sterilità che le colpisce, penalizzando quelle che presentano un quadro clinico più grave, in contrasto con la finalità della legge, di risolvere i problemi procreativi della coppie, benché la tecnica in esame non leda «i diritti dichiarati oggetto di tutela (la salute e la dignità dei soggetti coinvolti)»; c) stabilisce un divieto preordinato ad evitare parentele atipiche ed a tutelare l’identità genetica del nascituro sproporzionato rispetto a tali scopi e lesivo del diritto, costituzionalmente tutelato, «alla formazione di una famiglia e alla maternità/paternità», anche perché esistono nell’ordinamento istituti giuridici che ammettono la possibilità di una discrasia tra genitorialità genetica e genitorialità legittima, in virtù di una concezione dei rapporti di filiazione che pone a fondamento delle relazioni giuridiche familiari i rapporti affettivi, senza prevedere come necessaria la relazione biologica; prevede un divieto che «opera solo sul piano dei principi», in quanto la violazione dello stesso non è sanzionata ed una coppia può ricorrere alla PMA di tipo eterologo, ottenendo riconoscimento e tutela degli effetti della stessa, qualora si rivolga a medici operanti al di fuori del territorio dello Stato, con conseguente ulteriore discriminazione fra coppie sterili, in danno di quelle che versano in una condizione economica tale da impedire il ricorso a detti medici;
che, secondo il rimettente, le norme in esame violerebbero anche l’art. 2 Cost., poiché il divieto stabilito dal citato art. 4, comma 3, non garantirebbe alle coppie affette da sterilità o infertilità irreversibile il diritto alla vita privata e familiare, il diritto di identità e di autodeterminazione, il diritto di costruire liberamente la propria vita, desumibili da tale parametro costituzionale, sia se interpretato in modo aperto, sia in quanto tali diritti sono «previsti dalle norme internazionali convenzionali e comunitarie sui diritti umani, che non possono non essere considerati quale strumento interpretativo ed evolutivo dei diritti umani tutelati dalla Costituzione», avendo la Corte EDU affermato che «il diritto di una coppia a concepire un figlio e a far uso a tal fine della procreazione assistita dal punto di vista medico rientra nell’ambito dell’art. 8, in quanto tale scelta è chiaramente un’espressione della vita privata e familiare»;
 
che, secondo il Tribunale di Catania, le norme censurate si porrebbero, infine, in contrasto con gli artt. 3 e 32 Cost., in quanto: aa) il divieto in esame comprometterebbe «l’integrità fisio-psichica delle coppie infertili o sterili», inducendole a sottoporsi alle «pratiche mediche meno indicate, dai risultati più incerti e magari pericolosi per la salute», con irragionevole limitazione della libertà e del dovere del medico di suggerire e praticare la cura più efficace; bb) la scelta del protocollo medico non potrebbe essere riservata al legislatore, al quale non spetterebbe «stabilire direttamente e specificatamente (…) le pratiche terapeutiche ammesse», identificandone limiti e condizioni, dal momento che in tale materia «la regola di fondo deve essere la autonomia e la responsabilità del medico, che, con il consenso del paziente, opera le necessarie scelte professionali», costituendo le tecniche di PMA presidi terapeutici, perché pongono rimedio ad una causa patologica impeditiva della procreazione ed alle sofferenze provocate dalla difficoltà della piena realizzazione di colui che ne è affetto, anche diventando genitore; cc) il divieto potrebbe essere aggirato ricorrendo alla PMA di tipo eterologo all’estero e, in tal modo, molte coppie sarebbero costrette ad affrontare «il disagio psicologico ed emotivo di allontanarsi dal luogo degli affetti per ottenere ciò che in Italia è concesso solo alle coppie con meno gravi forme d’infertilità», con il rischio di essere contagiate «da malattie trasmesse dal donatore o dalla donatrice, per carenza di controlli e di informazioni» e con la conseguenza che sarebbe incentivato un «turismo procreativo», che «mette a repentaglio la stessa integrità psicofisica della coppia»;
 
che, ad avviso del Tribunale di Milano, le norme in esame violerebbero anche gli artt. 2, 29 e 31 Cost., poiché alle coppie colpite da sterilità o infertilità irreversibile non sarebbe garantito il diritto alla piena realizzazione della vita privata familiare ed il diritto di autodeterminazione in ordine alla medesima, tutelando l’art. 2 Cost. il diritto alla formazione di una famiglia (riconosciuto, altresì, dall’art. 29 Cost.);
 
che, inoltre, sarebbero lesi gli artt. 3 e 31 Cost., poiché, alla luce della finalità della legge n. 40 del 2004, di favorire la soluzione dei problemi riproduttivi derivanti dalla sterilità o dall’infertilità della coppia mediante il ricorso alla PMA, il divieto in esame avrebbe carattere discriminatorio e non ragionevolmente comporterebbe che sono «trattate in modo opposto coppie con limiti di procreazione, risultando differenziate solo in virtù del tipo di patologia che affligge l’uno o l’altro dei componenti» della stessa, poiché, nonostante gli elementi di diversità delle tecniche di PMA ammesse e vietate, «l’esame comparato delle due situazioni evidenzia comunque nel confronto tra le condizioni delle due categorie di coppie infertili una loro sostanziale sovrapponibilità, pur in assenza di coincidenza di tutti gli elementi di fatto»;
 
che, infine, secondo il Tribunale di Milano, le norme censurate recherebbero vulnus agli artt. 3 e 32 Cost., poiché il divieto in esame «rischia di non tutelare l’integrità fisica e psichica delle coppie in cui uno dei due componenti non presenta gameti idonei a concepire un embrione» e, nella regolamentazione delle pratiche terapeutiche, dovrebbe essere lasciato spazio all’autonomia ed alla responsabilità del medico, il quale, con il consenso del paziente, deve effettuare le più opportune scelte professionali;
che nel giudizio davanti a questa Corte, promosso dal Tribunale di Firenze, si sono costituiti i ricorrenti nel processo principale chiedendo l’accoglimento della questione di legittimità costituzionale, previa riunione dello stesso con i giudizi promossi dal Tribunale di Catania e dal Tribunale di Milano;
 
che nei giudizi promossi dai Tribunali di Catania e di Milano si sono costituiti, con separati atti, di contenuto in larga misura coincidente, i ricorrenti nei processi a quibus, chiedendo l’accoglimento delle questioni, sviluppando ampie argomentazioni a conforto delle censure proposte dai rimettenti, dirette a dimostrare che: a1) le situazioni delle coppie che possono porre rimedio alla causa di sterilità o infertilità mediante le differenti tecniche di PMA in esame sarebbero omologhe, con conseguente violazione dell’art. 3 Cost.; a2) il divieto stabilito dal citato art. 4, comma 3, non sarebbe giustificato da esigenze di tutela di carattere psicologico del nascituro, basate su presunti, ed inesistenti, disturbi e sofferenze dello stesso, quando abbia un solo genitore biologico, potendo essere altrimenti tutelato l’interesse all’identità biologica, al fine di assicurare la cura di eventuali malattie; a3) le norme censurate sarebbero viziate da irragionevolezza sia “interna” (a causa dell’incoerenza tra mezzi e fini, conseguente al difetto di ogni ragionevole giustificazione del divieto in questione, che impedisce di conseguire la finalità della legge n. 40 del 2004, non diversamente da quanto ritenuto dalla Corte in relazione al profilo esaminato dalla sentenza n. 151 del 2009), sia “esterna”, poiché l’istituto dell’adozione già rende ammissibile la discrasia tra genitorialità genetica e legittima; le coppie sarebbero irragionevolmente discriminate in base alla situazione patrimoniale, dal momento che quelle abbienti possono fare ricorso alla PMA di tipo eterologo all’estero, risultando in tal modo alimentato una sorta di “turismo procreativo”; a4) studi scientifici avrebbero dimostrato che il difetto di parentela genetica non compromette lo sviluppo del bambino (risultando, quindi, confortate le censure riferite all’art. 31 Cost.), avendo la sentenza n. 151 del 2009 fatto emergere un valore costituzionale nuovo, costituito dalle «esigenze della procreazione»; a5) il divieto assoluto stabilito dal citato art. 4, comma 3, comprometterebbe l’integrità psichica delle coppie con più gravi problemi di sterilità o infertilità, in violazione dell’art. 32 Cost., e la disciplina in esame non garantirebbe alle stesse il proprio diritto all’identità ed autodeterminazione, espresso dal principio personalistico dell’art. 2 Cost., nella configurazione offertane dalla sentenza n. 138 del 2010; la violazione dell’art. 117, primo comma, Cost. sarebbe chiaramente dimostrata dalla sentenza della Prima Sezione della Corte di Strasburgo 1° aprile 2010 S.H. ed altri c. Austria, correttamente richiamata da entrambi i rimettenti, sostenendo – nell’atto relativo al giudizio promosso dal Tribunale di Catania – che sussisterebbe l’obbligo di conformarsi a detta pronuncia, soprattutto qualora fosse confermata dalla Grande Camera;
 
che nel giudizio promosso dal Tribunale di Firenze si sono costituite, con un unico atto, l’Associazione Luca Coscioni per la libertà di ricerca scientifica, l’Associazione Amica Cicogna Onlus, l’Associazione Cerco un bimbo, nonché, con separato atto, l’Associazione Liberididecidere, in persona dei rispettivi legali rappresentanti, intervenute nel processo principale, chiedendo l’accoglimento della questione di legittimità costituzionale;
 
che nel giudizio promosso dal Tribunale di Catania si sono costituite, con distinti atti, la UMR, nonché, le associazioni Sos Infertilità O.N.L.U.S., HERA O.N.L.U.S. e Menopausa precoce, in persona dei legali rappresentanti (queste ultime intervenute nel processo a quo), chiedendo l’accoglimento delle questioni;
che in tutti i giudizi è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che le questioni siano dichiarate inammissibili e, comunque, infondate;
 
che, a suo avviso, la questione sollevata dal Tribunale di Firenze sarebbe inammissibile, per difetto di rilevanza, a causa «dell’omesso richiamo» (e cioè della mancata censura) degli artt. 9, commi 1 e 3, e 12, commi 1 e 9, della legge n. 40 del 2004; tutte le questioni sarebbero, inoltre, inammissibili, in quanto: i rimettenti avrebbero affermato la praticabilità della PMA di tipo eterologo, senza esplicitare «l’elemento fondamentale attinente alle modalità di reperimento dei gameti» (ovvero «degli ovociti») da «utilizzare per la fecondazione eterologa», restando in tal modo «non specificata, assolutamente vaga e indeterminata la modalità di esecuzione dell’obbligazione»; il settore della procreazione richiede una disciplina frutto di «un’alta mediazione, un’attenta prudente composizione dei conflitti di interesse», all’esito di una «delicata opera di bilanciamento dei valori costituzionali» in gioco, e la legge n. 40 del 2004 sarebbe riconducibile alle leggi ordinarie «la cui eliminazione determinerebbe la soppressione di una tutela minima per situazioni che tale tutela esigono secondo la Costituzione» e «creerebbe incolmabili vuoti normativi e rilevanti questioni per la tutela dei soggetti coinvolti», in difetto di una disciplina dei molteplici profili che necessitano di una specifica regolamentazione;
 
che, secondo l’Avvocatura generale, le questioni non sarebbero fondate, poiché la suindicata sentenza della Corte di Strasburgo, richiamata dai rimettenti a conforto delle censure, concernerebbe una legge della Repubblica d’Austria, censurata per profili non riferibili alle norme in esame, spettando, inoltre, agli Stati membri della Convenzione un ampio margine di apprezzamento nella materia in esame e sussistendo l’esigenza che questi emanino norme «con equilibrio, favorendo la protezione dei diritti e dell’interesse dei bambini e del diritto alla salute delle persone coinvolte»;
 
che, ad avviso dell’interveniente, la ratio del divieto stabilito dal citato art. 4, comma 3, sarebbe identificabile nell’intento di evitare il ricorso ad una tecnica che può incidere negativamente sull’equilibrio personale e familiare, a causa della mancanza di un rapporto biologico tra figlio e genitore, e di favorire il concepimento all’interno della coppia, in virtù di una scelta non irragionevole ed incensurabile, riconducibile alla discrezionalità spettante al legislatore ordinario, il quale ha stabilito una disciplina che tiene conto dei progressi della scienza medica, ma è preordinata anche a tutelare il diritto all’identità biologica del nascituro e gli interessi dello stesso, senza che, in contrario, possa essere richiamato l’istituto dell’adozione, preordinato alla tutela del minore che, orfano o abbandonato, è accolto in una famiglia in grado di assicurargli benessere affettivo e materiale;
 
che nei giudizi conseguenti alle ordinanze di rimessione del Tribunale di Firenze e del Tribunale di Catania è intervenuta l’Associazione UDI, Unione donne italiane, in persona del legale rappresentante, deducendo di «ritenersi legittimata ad intervenire», chiedendo l’accoglimento della questione di legittimità costituzionale, ma rinunciando successivamente a detti interventi, con atti depositati a mezzo posta il 16 febbraio 2012 e notificati alle parti ed all’interveniente;
che nel giudizio promosso dal Tribunale di Catania è intervenuto il Movimento per la vita italiano, federazione dei Movimenti per la vita e dei Centri di aiuto alla vita d’Italia (M.P.V.), in persona del legale rappresentante, il quale non è parte del processo principale, ma sostiene che, alla luce degli obiettivi fissati nel proprio statuto ed in considerazione della asserita peculiarità del processo, determinata dalla sostanziale assenza di contraddittorio, in quanto il convenuto non si è opposto alla domanda degli attori, sarebbe titolare di un interesse idoneo a legittimarlo all’intervento e, nel merito, svolge ampie argomentazioni per dimostrare l’inammissibilità e, comunque, l’infondatezza delle questioni;
che nel giudizio promosso dal Tribunale di Milano sono, altresì, intervenuti S.B. ed F.B., nonché, con un unico atto, l’Associazione Luca Coscioni per la libertà di ricerca scientifica, l’Associazione Amica Cicogna Onlus, l’Associazione Cerco un bimbo e l’Associazione Liberididecidere, in persona dei rispettivi legali rappresentanti, parti del processo principale davanti al Tribunale di Firenze nel quale è stata pronunciata la suindicata ordinanza di rimessione, che hanno chiesto l’accoglimento delle questioni e, in particolare, dette associazioni hanno sostenuto di essere legittimate all’intervento anche in considerazione dell’attività svolta e dei loro scopi statutari;
 
che, in prossimità dell’udienza pubblica, nel giudizio promosso dal Tribunale di Firenze, hanno depositato memorie di contenuto in larga misura coincidente S.B. ed F.B., nonché l’Associazione Luca Coscioni per la libertà di ricerca scientifica, l’Associazione Amica Cicogna Onlus, l’Associazione Cerco un bimbo (con un unico atto) e l’Associazione Liberididecidere, insistendo per l’accoglimento delle conclusioni svolte negli atti di costituzione;
 
che le parti contestano le eccezioni di inammissibilità proposte dall’Avvocatura generale dello Stato, deducendo che il d.lgs. n. 191 del 2007, il d.lgs. n. 16 del 2010 ed alcune circolari ed ordinanze del Ministro della sanità emanate anteriormente all’entrata in vigore della legge n. 40 del 2004, conterrebbero disposizioni e direttive dalle quali desumere la disciplina della PMA di tipo eterologo, qualora sia accolta la questione di legittimità costituzionale;
 
che, inoltre, dopo avere ribadito ed ulteriormente sviluppato le argomentazioni svolte negli atti di costituzione, deducono che la sopravvenuta sentenza della Grande Camera della Corte di Strasburgo del 3 novembre 2011, S.H. e altri c. Austria, benché abbia rimeditato il principio enunciato dalla Prima sezione della Corte con la sentenza del 1° aprile 2010, non influirebbe sulla fondatezza delle censure, in quanto concerne la disciplina della PMA vigente nella Repubblica d’Austria, differente da quella stabilita dalla legge n. 40 del 2004, e che, comunque, sarebbe stata esaminata in riferimento alla situazione esistente dal 1999, quindi, sarebbe priva di «valore generale ed attuale», non avrebbe pregiudicato la soluzione che gli Stati possono offrire alla questione in esame e «più che una presa di posizione a favore del divieto di eterologa», la sentenza «delega totalmente i paesi a decidere in modo esclusivo su questioni di tale rilevanza»;
 
che nei giudizi promossi dal Tribunale di Catania e dal Tribunale di Milano, in prossimità dell’udienza pubblica, i ricorrenti nel processo principale hanno presentato distinte memorie, di contenuto sostanzialmente identico, contestando le eccezioni di inammissibilità sollevate dal Presidente del Consiglio dei ministri ed insistendo per l’accoglimento delle conclusioni formulate negli atti di costituzione;
 
che, inoltre, le parti approfondiscono diffusamente la citata sentenza dalla Grande Camera della Corte di Strasburgo del 3 novembre 2011, deducendo che i giudici europei non avrebbero negato la sindacabilità delle scelte operate dai legislatori nazionali in tema di PMA, benché questi abbiano al riguardo «un ampio margine di apprezzamento», sottolineando un profilo di contraddittorietà che, a loro avviso, caratterizzerebbe la pronuncia, poiché ha stigmatizzato che il legislatore austriaco non ha tenuto conto dell’evoluzione scientifica e del monito rivoltogli dal Giudice costituzionale austriaco, ma ha poi negato la denunciata violazione della CEDU, e, quindi, svolgono ampie argomentazioni per dimostrare che detta sentenza non permetterebbe di escludere la fondatezza delle censure svolte dai rimettenti sulla scorta della precedente pronuncia della Corte EDU;
 
che nel giudizio promosso dal Tribunale di Catania, in prossimità dell’udienza pubblica, ha depositato memoria la UMR che, dopo avere contestato le eccezioni dell’Avvocatura generale e l’ammissibilità dell’intervento del Movimento per la vita italiano, federazione dei Movimenti per la vita e dei Centri di aiuto alla vita d’Italia (M.P.V.), ribadisce la tesi svolta nell’atto di costituzione ed anch’essa approfondisce l’incidenza sulle questioni della citata sentenza della Grande Camera della Corte EDU, esponendo gli argomenti in virtù dei quali, a suo avviso, la stessa «non appare idonea a ribaltare le considerazioni di merito sulle quali si fondava» la pronuncia del 2010, richiamata dal rimettente a conforto delle sollevate questioni di legittimità costituzionale;
 
che nel giudizio promosso dal Tribunale di Milano, in prossimità dell’udienza pubblica, hanno depositato memorie gli intervenienti S.B. ed F.B., nonché l’Associazione Luca Coscioni per la libertà di ricerca scientifica, l’Associazione Amica Cicogna Onlus, l’Associazione Cerco un bimbo e l’Associazione Liberididecidere (con un unico atto), facendo propri gli argomenti svolti nella memoria depositata in detto giudizio dai ricorrenti nel processo principale, sopra sintetizzata;
che in tutti i giudizi l’Avvocatura generale ha depositato memorie di contenuto sostanzialmente coincidente, insistendo per l’inammissibilità e, comunque, per l’infondatezza delle questioni, reiterando le argomentazioni svolte negli atti di intervento e deducendo che le censure, in larga misura, erano basate sulla sentenza della Prima Sezione della Corte EDU del 1° aprile 2010, S.H. e altri c. Austria, rimeditata dalla Grande Camera, con la sentenza del 3 novembre 2011, la quale, quindi, incide sulla fondatezza delle stesse, alla luce del vincolo interpretativo che, secondo la giurisprudenza costituzionale, connota le pronunce del giudice europeo;
 
che, infine, con atto depositato il 21 maggio 2012, nel giudizio promosso dal Tribunale di Firenze, è intervenuto il WARM (World Association of Reproductive Medicine), chiedendo l’accoglimento della questione di legittimità costituzionale anche in riferimento a parametri non evocati dal rimettente.
 
Considerato che il Tribunale ordinario di Firenze, il Tribunale ordinario di Catania ed il Tribunale ordinario di Milano, con ordinanze del 6 settembre, del 21 ottobre 2010 e del 2 febbraio 2011, hanno sollevato, in riferimento agli articoli 117, primo comma, e 3 della Costituzione – in relazione agli articoli 8 e 14 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (d’ora in avanti: CEDU), ratificata e resa esecutiva con legge 4 agosto 1955, n. 848 –, nonché agli articoli 2, 3, 31 e 32 della Costituzione (la seconda e la terza ordinanza) ed all’articolo 29 della Costituzione (la terza ordinanza), questione di legittimità costituzionale dell’articolo 4, comma 3, della legge 19 febbraio 2004, n. 40 (Norme in materia di procreazione medicalmente assistita) (tutte le ordinanze), e degli articoli 9, commi 1 e 3, limitatamente all’inciso «in violazione del divieto di cui all’articolo 4, comma 3», e 12, comma 1, di detta legge (la seconda e la terza ordinanza);
 
che, preliminarmente, va ribadito quanto statuito con l’ordinanza della quale è stata data lettura in udienza, allegata al presente provvedimento, in ordine alla disposta riunione dei giudizi (aventi ad oggetto, in parte, le stesse norme, censurate in relazione a parametri costituzionali, per profili e con argomentazioni in larga misura coincidenti) ed all’inammissibilità degli interventi: del WARM (World Association of Reproductive Medicine) nel giudizio promosso dal Tribunale di Firenze, perché tardivo, essendo stato il relativo atto depositato oltre il termine stabilito dall’art. 4, comma 4, delle norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale; del Movimento per la vita italiano, federazione dei Movimenti per la vita e dei Centri di aiuto alla vita d’Italia (M.P.V.), nel giudizio promosso dal Tribunale di Catania, nonché dell’Associazione Luca Coscioni per la libertà di ricerca scientifica, dell’Associazione Amica Cicogna Onlus, dell’Associazione Cerco un bimbo, dell’Associazione Liberididecidere e di S.B. ed F.B. nel giudizio promosso dal Tribunale di Milano, poiché non sono parti dei processi principali, né portatori di un interesse qualificato, immediatamente inerente al rapporto sostanziale dedotto in giudizio e non semplicemente regolato, al pari di ogni altro, dalla norma o dalle norme oggetto di censura, essendo altresì irrilevante – ai fini dell’ammissibilità degli interventi dalle citate associazioni e di S.B. ed F.B. –l’assunzione della qualità di parte in un giudizio diverso da quello oggetto dell’ordinanza di rimessione, nel quale sia stata sollevata analoga questione di legittimità costituzionale, occorrendo, inoltre, dare atto che l’UDI ha rinunciato agli interventi nei giudizi promossi dal Tribunale di Firenze e dal Tribunale di Catania;
 
che, ancora in linea preliminare, va ricordato che, secondo la giurisprudenza di questa Corte, la questione di legittimità costituzionale può essere sollevata in sede cautelare, qualora il giudice non abbia provveduto sulla domanda (come accaduto nella specie), ovvero quando abbia concesso la relativa misura, purché tale concessione non si risolva nel definitivo esaurimento del potere del quale il giudice fruisce in tale sede (ex plurimis, sentenza n. 151 del 2009; ordinanza n. 307 del 2011) e, quindi, sotto questo profilo, le questioni sono ammissibili;
 
che l’eccezione di inammissibilità per irrilevanza della questione sollevata dal Tribunale di Firenze, proposta dall’Avvocatura generale sul rilievo che il rimettente non avrebbe censurato gli artt. 9, commi 1 e 3, e 12, commi 1 e 8, della legge n. 40 del 2004, non è fondata, poiché la norma della quale il rimettente deve fare applicazione nel processo principale è soltanto il citato art. 4, comma 3, mentre la mancata considerazione di quelle ulteriori norme richiamate dall’interveniente neppure influisce sulla correttezza della ricostruzione del quadro normativo di riferimento;
 
che del pari non sono fondate le ulteriori eccezioni di inammissibilità proposte dal Presidente del Consiglio dei ministri, deducendo che i rimettenti non avrebbero specificato le modalità di esecuzione della tecnica di procreazione alla quale intendono accedere i ricorrenti dei processi principali, mentre la procreazione medicalmente assistita richiederebbe una disciplina frutto di «un’alta mediazione» e di una «delicata opera di bilanciamento dei valori costituzionali», poiché la legge n. 40 del 2004 sarebbe riconducibile nel novero delle leggi ordinarie «la cui eliminazione determinerebbe la soppressione di una tutela minima per situazioni che tale tutela esigono secondo la Costituzione» e «creerebbe incolmabili vuoti normativi e rilevanti questioni per la tutela dei soggetti coinvolti»;
 
che, in particolare, in ordine a tali eccezioni, va anzitutto confermato che la legge n. 40 del 2004 costituisce la «prima legislazione organica relativa ad un delicato settore (…) che indubbiamente coinvolge una pluralità di rilevanti interessi costituzionali, i quali, nel loro complesso, postulano quanto meno un bilanciamento tra di essi che assicuri un livello minimo di tutela legislativa» e deve ritenersi «costituzionalmente necessaria» (sentenza n. 45 del 2005), ma, in parte qua, non ha contenuto costituzionalmente vincolato e questa Corte ha, infatti, dichiarato ammissibile la richiesta di referendum popolare per l’abrogazione, tra gli altri, dell’art. 4, comma 3, di detta legge, in quanto l’eventuale accoglimento della proposta referendaria non era «suscettibile di far venir meno un livello minimo di tutela costituzionalmente necessario, così da sottrarsi alla possibilità di abrogazione referendaria» (sentenza n. 49 del 2005);
 
che, superati i suindicati profili preliminari, va osservato che tutti i rimettenti sollevano anzitutto questione di legittimità costituzionale delle norme dianzi indicate in riferimento all’art. 117, primo comma, Cost., in relazione agli artt. 8 e 14 della CEDU, e, dopo avere sintetizzato la giurisprudenza di questa Corte in ordine al rapporto tra norme interne e norme della Convenzione, premettono che devono applicare queste ultime «nell’interpretazione offertane dalla Corte di Strasburgo» con la sentenza della Prima Sezione del 1° aprile 2010, S.H. e altri c. Austria (ordinanza r.o. n. 19 del 2011); inoltre, che, «stante la portata della pronuncia della CEDU, si pone, allora, un serio problema di costituzionalità» delle disposizioni censurate (ordinanza r.o. n. 34 del 2011), spettando a questa Corte «il compito di verificare che detto contrasto sussista» rispetto «alla norma convenzionale, nella lettura datane» dal giudice europeo (ordinanza r.o. n. 163 del 2011);
 
 che, a conforto delle censure, i giudici a quibus riportano ampi brani di detta pronuncia, per sostenere che le norme censurate violerebbero il suindicato parametro costituzionale, dato che, secondo la Corte di Strasburgo, nonostante l’ampio margine di discrezionalità spettante agli Stati nella materia in esame, qualora sia stabilita una disciplina della PMA, la relativa regolamentazione deve essere coerente e considerare adeguatamente i differenti interessi coinvolti, in accordo con gli obblighi derivanti dalla Convenzione, con conseguente irragionevolezza del divieto assoluto delle tecniche di procreazione medicalmente assistita di tipo eterologo e violazione degli artt. 8 e 14 della CEDU, dal momento che esso non sarebbe l’unico mezzo possibile per evitare il rischio di sfruttamento delle donne e di abuso di tali tecniche e per impedire parentele atipiche, non costituendo il diritto del bambino a conoscere la sua discendenza effettiva un diritto assoluto;
 
che, successivamente a tutte le ordinanze di rimessione, la Grande Camera della Corte di Strasburgo – alla quale, ai sensi dell’art. 43 della CEDU, è stato deferito il caso deciso dalla Prima Sezione – con la sentenza del 3 novembre 2011, S.H. e altri c. Austria, si è pronunciata diversamente sul principio enunciato con la sentenza richiamata dai rimettenti per identificare il contenuto delle norme della CEDU ritenute lese dalle disposizioni censurate;
 
che la sentenza della Grande Camera, dopo avere osservato, tra l’altro, che ad essa non spetta «considerare se il divieto della donazione di sperma e ovuli in questione sarebbe o meno giustificato dalla Convenzione», ma spetta, invece, decidere «se tali divieti fossero giustificati», ha affermato che «il legislatore austriaco non ha all’epoca ecceduto il margine di discrezionalità concessogli né per quanto riguarda il divieto di donazione di ovuli ai fini della procreazione artificiale né per quanto riguarda il divieto di donazione di sperma per la fecondazione in vitro» ed ha escluso la denunciata violazione dell’art. 8 della Convenzione, reputando che non vi fosse «alcuna ragione di esaminare separatamente i medesimi fatti dal punto di vista dell’articolo 14 in combinato disposto con l’articolo 8 della Convenzione»;
 
che la sopravvenienza della sentenza della Grande Camera impone di ricordare che la giurisprudenza di questa Corte è costante nell’affermare che la questione dell’eventuale contrasto della disposizione interna con la norme della CEDU va risolta, per quanto qui interessa, in base al principio in virtù del quale il giudice comune, al fine di verificarne la sussistenza, deve avere riguardo alle «norme della CEDU, come interpretate dalla Corte di Strasburgo» (tra le molte, sentenza n. 236 del 2011, richiamando le sentenze n. 348 e n. 349 del 2007 e tutte le successive pronunce che hanno ribadito detto orientamento), «specificamente istituita per dare ad esse interpretazione e applicazione» (da ultimo, sentenza n. 78 del 2012), poiché il «contenuto della Convenzione (e degli obblighi che da essa derivano) è essenzialmente quello che si trae dalla giurisprudenza che nel corso degli anni essa ha elaborato» (per tutte, sentenze n. 311 del 2009 e n. 236 del 2011), occorrendo rispettare «la sostanza» di tale giurisprudenza, «con un margine di apprezzamento e di adeguamento che le consenta di tener conto delle peculiarità dell’ordinamento giuridico in cui la norma convenzionale è destinata a inserirsi» (ex plurimis, sentenze n. 236 del 2011 e n. 317 del 2009), ferma la verifica, spettante a questa Corte, della «compatibilità della norma CEDU, nell’interpretazione del giudice cui tale compito è stato espressamente attribuito dagli Stati membri, con le pertinenti norme della Costituzione» (sentenza n. 349 del 2007; analogamente, tra le più recenti, sentenze n. 113 e n. 303 del 2011);
 
che, inoltre, secondo la giurisprudenza costituzionale, deve essere ordinata la restituzione degli atti al giudice a quo, affinché questi proceda ad un rinnovato esame dei termini della questione, qualora all’ordinanza di rimessione sopravvenga una modificazione della norma costituzionale invocata come parametro di giudizio (tra le tante, ordinanze n. 14, n. 76, n. 96, n. 117, n. 165, n. 230 e n. 386 del 2002), ovvero della disposizione che integra il parametro costituzionale (per tutte, ordinanze n. 516 del 2002 e n. 216 del 2003), oppure qualora il quadro normativo subisca considerevoli modifiche, pur restando immutata la disposizione censurata (tra le tante, ordinanza n. 378 del 2008);
 
che, alla luce di siffatti principi, la diversa pronuncia della Grande Camera in ordine all’interpretazione accolta dalla sentenza della Prima Sezione, espressamente richiamata dai rimettenti – operata all’interno dello stesso giudizio nel quale è stata resa quest’ultima pronuncia – incide sul significato delle norme convenzionali considerate dai giudici a quibus e costituisce un novum che influisce direttamente sulla questione di legittimità costituzionale così come proposta;
 
che siffatta conclusione si impone: in primo luogo, perché costituisce l’ineludibile corollario logico-giuridico della configurazione offerta da questa Corte in ordine al valore ed all’efficacia delle sentenze del giudice europeo nell’interpretazione delle norme della CEDU che, come sopra precisato, i rimettenti hanno correttamente considerato, al fine di formulare le censure in esame; in secondo luogo, in quanto una valutazione dell’incidenza sulle questioni di legittimità costituzionale del novum costituito dalla sentenza della Grande Camera (la cui rilevanza è, peraltro, resa palese anche dall’approfondita lettura, significativamente divergente, offertane dalle parti nelle memorie depositate in prossimità dell’udienza pubblica) svolta per la prima volta da questa Corte, senza che su di essa abbiano potuto interloquire i giudici a quibus, comporterebbe un’alterazione dello schema dell’incidentalità del giudizio di costituzionalità, spettando anzitutto ai rimettenti accertare, alla luce della nuova esegesi fornita dalla Corte di Strasburgo, se ed entro quali termini permanga il denunciato contrasto;
 
che l’imprescindibilità di tale conclusione, in relazione all’ordinanza di rimessione del Tribunale di Firenze, è resa palese dalla constatazione che questo ha sollevato questione di legittimità costituzionale esclusivamente in riferimento all’art. 117, primo comma, Cost., limitandosi ad osservare, in ordine all’ulteriore parametro costituzionale evocato, che «le stesse considerazioni esposte dalla Corte EDU in ordine alla irragionevolezza della norma in questione paiono pertinenti per il rilievo della questione di legittimità costituzionale anche sotto il profilo dell’art. 3 Cost.»;
 
che, inoltre, essa si impone anche in ordine ai restanti provvedimenti di rimessione, poiché i giudici a quibus non solo hanno proposto la questione di legittimità costituzionale riferita all’art. 117, primo comma, Cost. in linea preliminare rispetto alle altre pure sollevate, ma hanno altresì ripetutamente richiamato la suindicata sentenza della Prima Sezione della Corte di Strasburgo, allo scopo di trarne argomenti a conforto delle censure proposte in relazione agli ulteriori parametri costituzionali;
che, in tal senso, sono, infatti, univocamente significative, tra le altre, le considerazioni svolte dal Tribunale di Catania, il quale, nel motivare la denunciata violazione degli artt. 3 e 31 Cost., ha espressamente invocato detta pronuncia, per sostenere che essa apporta «ulteriori e solidi argomenti a sostegno della violazione dell’art. 3 Cost., con riferimento alla violazione del principio di non discriminazione», deducendo, in relazione alla censura riferita all’art. 2 Cost., che la Corte europea «ha chiarito che occorre garantire, in quanto rientrante nel diritto al rispetto della vita privata e familiare tutelato dalla convenzione dei diritti dell’uomo, il diritto della coppia di scegliere di diventare genitori anche ricorrendo alle tecniche di fecondazione assistita»;
 
che, analogamente, nel censurare le norme in esame, il Tribunale di Milano: in riferimento all’art. 2 Cost., ha sottolineato che il «processo evolutivo» nell’interpretazione di detto parametro non può «prescindere da quanto affermato nei principi della CEDU nei termini in cui gli stessi sono stati definiti dalla Corte europea dei diritti dell’uomo», enfatizzando che quest’ultima, nella citata sentenza della Prima Sezione, «ha affermato – in sintesi – il diritto di identità e di autodeterminazione della coppia in ordine alla propria genitorialità», ritenuto «compromesso dal divieto di accesso ad un determinato tipo di fecondazione», sottolineando «che occorre garantire, in quanto appartenente al diritto al rispetto della vita privata e familiare tutelato dall’art. 8 della CEDU, il diritto della coppia di scegliere di diventare genitori anche ricorrendo alle tecniche di fecondazione assistita»; mentre in ordine alle censure proposte in relazione agli artt. 3 e 31 Cost., ha dedotto che detta pronuncia della Corte EDU «offre utili argomenti a sostegno della violazione dell’art. 3 della Costituzione, con riferimento alla violazione del principio di non discriminazione, poiché i motivi proposti dai giudici europei circa la violazione dell’art. 14 della CEDU possono essere contemporaneamente formulati nell’interpretazione dell’art. 3» Cost., sostenendo che essa ha «utilizzato argomentazioni traslabili de plano a fondamento della natura discriminatoria del divieto totale di fecondazione eterologa» e ritenendo, in conclusione, che «l’interpretazione delle norme costituzionali, applicate alla luce delle indicazioni offerte dalla Corte EDU» dimostrerebbe la «natura discriminatoria del divieto di fecondazione eterologa tra coppie sterili ed infertili a seconda del grado di sterilità o di infertilità evidenziato»;
 
che, pertanto, alla luce della sopravvenuta sentenza della Grande Camera del 3 novembre 2011, S.H. e altri c. Austria, deve essere disposta la restituzione degli atti, affinché i rimettenti procedano ad un rinnovato esame dei termini delle questioni.
PER QUESTI MOTIVI
LA CORTE COSTITUZIONALE
riuniti i giudizi,
ordina la restituzione degli atti al Tribunale ordinario di Firenze, al Tribunale ordinario di Catania e al Tribunale ordinario di Milano.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 22 maggio 2012.
F.to:
Alfonso QUARANTA, Presidente
Giuseppe TESAURO, Redattore
Gabriella MELATTI, Cancelliere
 
Depositata in Cancelleria il 7 giugno 2012.
Il Direttore della Cancelleria
F.to: Gabriella MELATTI
Allegato:
ordinanza letta all’udienza del 22 maggio 2012
ORDINANZA
            Rilevato che i giudizi hanno ad oggetto, in parte, le stesse norme, censurate in relazione a parametri costituzionali, per profili e con argomentazioni in larga misura coincidenti e, quindi, vanno riuniti per essere decisi con una stessa pronuncia;
            che nel giudizio Reg. ord. n. 19 del 2011, promosso dal Tribunale di Firenze, è intervenuto il WARM (World Association of Reproductive Medicine), che non è parte nel processo principale, con atto depositato il 21 maggio 2012;
            che nel giudizio Reg. ord. n. 34 del 2011, promosso dal Tribunale di Catania, è intervenuto il Movimento per la vita italiano, Federazione dei Movimenti per la vita e dei centri di aiuto alla vita d’Italia (M.P.V.), che non è parte nel processo principale;
            che nel giudizio Reg. ord. n. 163 del 2011, promosso dal Tribunale di Milano, sono intervenuti: a) con un unico atto, l’Associazione Luca Coscioni, per la libertà di ricerca scientifica, l’Associazione Amica Cicogna Onlus, l’Associazione Cerco un bimbo e l’Associazione Liberididecidere, intervenienti nel processo principale in corso davanti al Tribunale di Firenze e nel quale è stata sollevata questione di legittimità costituzionale (Reg. ord. n. 19 del 2011), deducendo di essere titolari di un interesse qualificato immediatamente inerente al rapporto; b) S.B. ed F.B., parti nel giudizio di legittimità costituzionale promosso dal Tribunale di Firenze;
            che, secondo la costante giurisprudenza di questa Corte, sono ammessi a intervenire nel giudizio incidentale di legittimità costituzionale le sole parti del giudizio principale ed i terzi portatori di un interesse qualificato, immediatamente inerente al rapporto sostanziale dedotto in giudizio e non semplicemente regolato, al pari di ogni altro, dalla norma o dalle norme oggetto di censura (per tutte, sentenze n. 304, n. 293 e n. 199 del 2011; n. 151 del 2009), mentre la circostanza che un soggetto sia parte in un giudizio diverso da quello oggetto dell’ordinanza di rimessione, nel quale sia stata sollevata analoga questione di legittimità costituzionale, neppure è idonea a rendere ammissibile l’intervento (ex plurimis, sentenza n. 470 del 2002; ordinanza pronunciata all’udienza del 4 aprile 2006, nel giudizio definito dalla sentenza n. 172 del 2006);
            che, peraltro, ai sensi dell’art, 4, comma 4, delle norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale, l’atto di intervento “deve essere depositato non oltre venti giorni dalla pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale dell’atto introduttivo del giudizio”, termine che, secondo il costante orientamento di questa Corte, deve essere ritenuto perentorio (tra le molte, sentenza n. 303 del 2010) e che non risulta osservato dal WARM (l’ordinanza di rimessione del Tribunale di Firenze è stata pubblicata nella Gazzetta Ufficiale, prima serie speciale, n. 6 del 2 febbraio 2011, mentre l’atto di intervento è stato depositato il 21 maggio 2012).

per questi motivi
 
LA CORTE COSTITUZIONALE
 
riuniti i giudizi,
 
dichiara inammissibili gli interventi del WARM (World Association of Reproductive Medicine) nel giudizio introdotto con l’ordinanza Reg. ord. n. 19 del 2011; del Movimento per la vita italiano, Federazione dei Movimenti per la vita e dei centri di aiuto alla vita d’Italia (M.P.V.) nel giudizio introdotto con l’ordinanza Reg. ord. n. 34 del 2011; dell’Associazione Luca Coscioni, per la libertà di ricerca scientifica, dell’Associazione Amica Cicogna Onlus, dell’Associazione Cerco un bimbo, dell’Associazione Liberididecidere e di S.B. ed F.B. nel giudizio introdotto con l’ordinanza Reg. ord. n. 163 del 2011.

F.to: Alfonso Quaranta, Presidente