Osservatorio delle libertà ed istituzioni religiose

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Osservatorio delle Libertà ed Istituzioni Religiose

Documenti • 22 Novembre 2005

Ordinanza 18 novembre 2005, n.41571

Corte di cassazione. Sezione III penale. Ordinanza 18 novembre 2005, n. 41571.

RITENUTO IN FATTO

1. In data 24 marzo 2005 Adel Smith, citato direttamente a giudizio davanti al Tribunale monocratico di Verona per rispondere del reato previsto e punito dall’art. 403, commi 1 e 2, c.p. per offesa alla religione dello Stato (rectius religione cattolica) mediante vilipendio di chi la professa e dei suoi ministri, ha depositato presso la cancelleria dello stesso Tribunale istanza ex art. 46 c.p.p. volta a ottenere da questa Corte di cassazione la rimessione del processo ad altro giudice.

Deduce al riguardo che nell’aula di udienza dove si celebra il processo, come nelle altre aule della sede giudiziaria veronese, si trova affisso, alle spalle dello scranno del giudice, un crocefisso; e che questa esposizione del crocefisso, imposta non già da una norma di legge ma solo da una circolare dal ministro di Grazia e giustizia Alfredo Rocco, emessa il 29 maggio 1926, configura ai sensi dell’art. 45 c.p.p. una grave situazione locale, non altrimenti eliminabile, tale da pregiudicare la libera determinazione delle persone che partecipano al processo, o quanto meno da determinare un legittimo sospetto, soprattutto in considerazione della specificità del reato contestato, che attiene al vilipendio della religione cattolica.

Precisa l’istante che la esposizione del crocefisso nell’aula giudiziaria, chiaramente contraria alla laicità dello Stato italiano, per la sua valenza di simbolo religioso, rappresenta una intrusione nella sfera di libertà negativa del singolo e può perciò pregiudicare la libera determinazione dei soggetti del processo (dal giudice allo stesso imputato) ovvero costituire un legittimo sospetto sulla imparzialità dello stesso giudice.

Chiede pertanto a questa Corte di designare un altro giudice ex art. 11 c.p.p., o in subordine di adottare ogni utile provvedimento per eliminare la grave situazione locale. In via preliminare fa istanza per la sospensione del processo, se non già disposta dal giudice veronese.

CONSIDERATO IN DIRITTO

2. L’istituto della rimessione del processo di cui all’art. 45 c.p.p., come sostituito dall’art. 1 della l. 248/2002, presuppone che gravi situazioni locali, tali da turbare lo svolgimento del processo e non altrimenti eliminabili, pregiudichino la libera determinazione delle persone che partecipano al processo stesso ovvero la sicurezza e l’incolumità pubblica, oppure determinino motivi di legittimo sospetto sulla imparzialità del giudice.

Secondo l’interpretazione corrente, che ne valorizza la collocazione sotto il titolo primo del libro primo del codice di rito, relativo al giudice, esso tutela l’imparzialità dell’intero ufficio giudicante territorialmente competente, indipendentemente da situazioni che riguardino il giudice individuale o collegiale investito dal processo. A ben vedere, però, l’istituto tutela direttamente e più generalmente il regolare svolgimento del processo, garantendo la libera determinazione di tutte le persone che partecipano al giudizio (giudice, Pm, imputato, testimoni, periti), e soltanto indirettamente e specificamente intende assicurare la imparzialità del giudice.

In conformità a questa ratio, infatti, nel caso di specie la norma dell’art. 45 è invocata propriamente per la tutela della libertà morale dell’imputato, che, chiamato a rispondere del delitto di vilipendio della religione cattolica, si sente (si dichiara) turbato nella sua libertà morale per effetto della esposizione nell’aula giudiziaria del crocefisso, simbolo religioso per eccellenza di quella religione cattolica (e cristiana) che è oggetto giuridico della norma incriminatrice.

3. Come ricorda lo stesso istante, unica fonte normativa dell’esposizione del crocifisso nelle aule di udienza è la circolare emanata il 29 maggio 1929 dall’allora ministro di Grazia e giustizia, il quale prescriveva «che nelle aule di udienza, sopra il banco dei giudici e accanto all’effige di Sua Maestà il Re, sia istituito il Crocefisso, secondo la nostra antica tradizione», spiegando che il “simbolo venerato” doveva essere “solenne ammonimento di verità e di giustizia”. Si tratta quindi di una norma interna, emanata dal ministro competente, e diretta agli uffici giudiziari per disciplinare lo svolgimento dei servizi amministrativi relativi alla giustizia, anche se può avere incidenza indiretta sulle posizioni soggettive di terzi estranei a quella amministrazione.

L’istante contesta radicalmente la legittimità costituzionale nonché la persistente validità ed efficacia di quella circolare, sollevando questioni importanti che tuttavia esulano propriamente dal thema decidendum, il quale riguarda preliminarmente l’applicabilità dell’art. 45 c.p.p.

Solo dopo aver accertato la concreta applicabilità di questa norma, infatti, si potrebbe affrontare il problema evocato nella istanza se, cioè, dopo l’avvento della Carta repubblicana, che all’art. 8 ha introdotto il principio della laicità dello Stato e della parità vincolante per l’amministrazione degli uffici giudiziari (come ha ritenuto la nota 5160 del ministero dell’Interno in data 5 ottobre 1984, in risposta ad apposito quesito sollevato dal ministro di Grazia e giustizia) in virtù dei sopravvenuti Accordi di modificazione dei Patti lateranensi, ratificati con l. 25 marzo 1985, i quali con l’art. 9 hanno stabilito che i principi del cattolicesimo fanno parte del patrimonio storico del popolo italiano. Con la duplice conseguenza – sostenuta dalla citata nota ministeriale e dal successivo parere del Consiglio di stato 63/1988 – che il crocefisso può essere assunto anche come simbolo culturale della nostra tradizionale identità nazionale, e che questo elemento storico culturale può essere invocato per giustiziare la deroga al principio di cui all’art. 8, comma 1, Cost.

Per più ragioni esula dal thema decidendum anche il connesso problema di valutare se la predetta normativa amministrativa sia conforme o non ai principi di laicità e di pluralismo religioso consacrati negli artt. 8 e 19 Cost.

Infatti, il giudice ordinario non può attivare il sindacato di legittimità costituzionale su una questione che non sia rilevante nel processo de quo e che per giunta riguardi una norma di rango non legislativo, ma amministravo, qual è la suddetta circolare ministeriale. In secondo luogo non spetta allo stesso giudice, e tanto meno al giudice di legittimità competente ex artt. 46, comma 3, e 48 c.p.p. il compito di disapplicare una circolare amministrativa che attiene a una materia qual è quella della manutenzione degli uffici giudiziari e dei loro arredi, assolutamente estranea alle attribuzioni giurisdizionali della magistratura.

Al proposito non è inopportuno ricordare che, recentemente in una questione analoga riguardante la esposizione del crocefisso nelle aule scolastiche, la Corte costituzionale ha dichiarato manifestamente inammissibile la questione di legittimità costituzionale, proprio perché detta esposizione era disciplinata da norme di carattere regolarmente prive di rango legislativo (389/2004).

4. Venendo quindi al tema preliminare, giova sottolineare che l’istituto della rimessione ha carattere eccezionale, implicando una deroga al principio costituzionale del giudice naturale precostituito per legge, e pertanto richiede una interpretazione restrittiva delle disposizioni che lo regolano, ivi comprese quelle che stabiliscono i presupposti per la translatio iudicii (cfr., da ultimo, Cassazione, Sezioni unite, ordinanza 13687/2003, Berlusconi e altri, rv. 223638).

Tanto premesso, non è dubitabile che la esposizione del crocefisso nell’aula di udienza è una situazione astrattamente sussumibile nelle fattispecie processuali di cui all’art. 45 c.p.p. se si ha riguardo al suo carattere extraprocessuale. Com’è noto, infatti, dottrina e giurisprudenza escludono che possano assumere rilevanza per la rimessione del giudizio situazioni o fenomeni di turbativa interni alla dialettica processuale. In questo senso sono corrette le argomentazioni svolte nella richiesta sottoscritta da Adel Smith.

È però altrettanto indubitale che la esposizione del crocefisso esula dalla fattispecie processuale de qua perché difetta dell’imprescindibile carattere locale. Proprio in conformità alla natura intrinseca dell’istituto processuale di cui trattasi, che si risolve nel trasferimento del giudizio ad altro ufficio territoriale, la norma dell’art. 45 è chiarissima nell’indicare come presupposto necessario il carattere locale, cioè localmente circoscritto, della situazione idonea a turbare l’imparzialità e serenità del giudizio.

È notorio invece che la esposizione del crocefisso nelle aule giudiziarie non è limitata al Tribunale di Verona, e neppure agli uffici giudiziari di quella città, ma si estende agli uffici di tutto il territorio nazionale; in piena conformità, del resto, al contenuto della menzionata fonte ministeriale, che indirizzava l’obbligo di esporre il crocefisso a tutti i capi degli uffici giudiziari nazionali.

Ne consegue che non può invocarsi l’istituto della rimessione del processo per scongiurare un pericolo di parzialità del giudice o di turbamento del giudizio, quando la situazione che asseritamente genera quel pericolo ha dimensione nazionale, essendo evidente che in tal caso anche la translatio iudicii non sarebbe in grado di rimuovere o evitare quella stessa situazione che si assume pregiudizievole per la imparzialità e serenità del giudizio.

Per questa ragione, del tutto correttamente parte della dottrina ha escluso l’applicabilità dell’istituto quando ricorrono turbative processuali di ampia portata, come le campagne di stampa a livello nazionale sul processo in corso, tali da estendere la propria influenza all’intero territorio nazionale e quindi a una pluralità di organi giudiziari. A maggior ragione l’applicabilità è esclusa nel caso di specie, in cui la dimensione o estensione nazionale della situazione di turbativa non ha carattere sociologico, ma ha natura propriamente giuridica, derivando da una circolare ministeriale che è applicabile e applicata da tutti gli uffici destinatari.

5. Se ne deve concludere che l’istanza di rimessione formulata dallo Smith è inammissibile per difetto dei richiesti presupposti legali.

Tale inammissibilità assorbe la richiesta di sospensione del processo formulata dall’istante in via preliminare.

Secondo la più recente giurisprudenza di questa Corte, al rigetto e alla inammissibilità dell’istanza di rimessione consegue obbligatoriamente la condanna alle spese del processo incidentale ex art. 616, primo periodo, c.p.p. e facoltativamente la condanna a una sanzione pecuniaria a favore della cassa delle ammende ex art. 48, comma 6, c.p.p. (Cassazione, Sezione prima, 4633/1996, Argenti, rv. 205587; Sezione prima, 944/2000, Tiani, rv. 216006).

In concreto, ritiene il collegio che l’istante debba essere condannato anche alla sanzione pecuniaria a favore della cassa delle ammende sebbene quantificata nella misura minima di 1000 euro avendo egli fatto un uso chiaramente strumentale dell’istituto della rimessione per fini estranei alla sua propria funzione istituzionale.

P.Q.M.

La Corte suprema di cassazione dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali nonché al versamento della somma di euro 1000 a favore della cassa delle ammende.