Osservatorio delle libertà ed istituzioni religiose

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Osservatorio delle Libertà ed Istituzioni Religiose

Documenti • 9 Marzo 2004

Ordinanza 06 dicembre 1995, n.529

Pretura di Trento. Sezione distaccata di Borgo Valsugana. Ordinanza 6 dicembre 1995, n. 529.

Il pretore

Letti gli atti del procedimento penale a carico di X.X., nato a XXXXX il XXXXXX ed ivi residente in via XXXXX e X.X., nato a XXXX il XXXXXX, ed ivi residente, via XXXXXXX; imputati “dei reati p. e p. dagli artt. 110, 81, 404, e 635 c.p., perché, in concorso tra loro ed in esecuzione di un medesimo disegno criminoso, danneggiavano l’effigie religiosa di Sant’Antonio da Padova conservata in un capitello di proprietà di Goio Marco, ponendo altresì in essere su tale immagine atti di vilipendio della religione., minandogli sopra e profferendo al suo indirizzo una pluralità di bestemmie; fatto commesso in Levico Terme il 6 agosto 1994”.

Osserva

La difesa degli imputati ha sollevato dubbi in ordine alla legittimità costituzionale dell’art. 404 c.p., con riferimento agli artt. 3 e 8 Cost., che punisce con la reclusione da uno a tre anni “chiunque, in luogo destinato al culto, o in luogo pubblico o aperto al pubblico, offende la religione dello Stato, mediante vilipendio di cose che formino oggetto di culto, o siano consacrate al culto, o siano destinate necessariamente all’esercizio del culto”.L’art. 406 c.p., “Delitti contro i culti ammessi dallo Stato”, punisce sempre, ma con pena diminuita, “chiunque commetta uno dei fatti preveduti dagli articoli 403, 404 e 405 contro un culto ammesso nello Stato”.

La questione è rilevante: ed invero, secondo le prospettazioni della pubblica accusa, che ha provveduto alla formulazione del suddetto capo d’imputazione all’esito, evidentemente, dello svolgimento delle indagini preliminari, la norma di cui all’art. 404 c.p. è astrattamente applicabile al caso di specie e quindi il giudizio non può essere definito indipendentemente dalla risoluzione delle questioni di legittimità costituzionale.

La questione pare altresì non manifestamente infondata.

Analoga questione, sollevata con riferimento agli artt. 7 e 8 Cost., era stata dichiarata non fondata dalla Corte costituzionale con sentenza n. 125 del 1957, in cui la corte aveva osservato che “nessun contrasto esiste con il principio di eguale libertà delle confessioni religiose, poiché l’art. 404 non limita il libero esercizio dei culti e la libertà delle varie confessioni religiose, ne limita la condizione giuridica di chi professa un culto diverso dal cattolico: e inoltre che nessun contrasto vi è per quanto si riferisce alla diversa tutela penale che il codice stabilisce per la religione cattolica rispetto alle altre religioni, poiché il costituente negli artt. 7 e 8 ha dettato norme esplicite, le quali non ne stabiliscono la parità, ma ne differenziano invece la situazione giuridica, che è sì di eguale libertà, ma non di eguale regolamento dei rapporti con lo Stato.

E’ evidente che l’intento originario del legislatore fu quello di configurare quale reato più grave il compimento di determinati atti in dispregio della religione cattolica, in quanto religione dello Stato, come tale riconosciuta, rispetto al compimento dei medesimi atti in dispregio di altre religioni soltanto ammesse dallo Stato, che vengono puniti in maniera più attenuata. Tale differenza di trattamento rispetto ai culti ammessi, nasceva dall’esistenza di tutelare la religione cattolica quale “fattore di unità morale della nazione”, come “bene di civiltà” – secondo quanto precisato dalla relazione ministeriale – di “interesse generale”e “della più ampia importanza, anche per il raggiungimento dei fini etici dello Stato”.

Il venir meno del principio della religione di Stato, per effetto, anzitutto, dei principi costituzionali fondamentali di laicità dello Stato, di uguaglianza senza distinzione di religione e di eguale libertà delle confessioni religiose, ed in seguito, più puntualmente del protocollo addizionale all’accordo di modifica del concordato lateranense recepito nell’ordinamento italiano con legge 25 marzo 1985, n. 121, per cui “si considera non più in vigore il principio originariamente richiamato dai patti lateranensi, della religione cattolica come sola religione dello Stato italiano”avrebbe dovuto indurre il legislatore a rivedere tutte quelle norme di carattere ordinario che viceversa ancora sanciscono una disparità di trattamento tra la “religione dello Stato” e gli altri culti ammessi.

Sennonché così non è avvenuto, tant’è che nel nostro ordinamento sopravvivono ancora siffatte norme,

Quanto alla giurisprudenza della Corte costituzionale, va sinteticamente ricordata la sentenza n. 79/58, la quale, mentre da un lato – con il riconoscimento del sentimento religioso quale diritto inviolabile della persona – sanciva la separazione del sentimento collettivo cattolico dalle commissioni con le finalità dello Stato etico, dall’altra tutelava il principio della “religione dello Stato” come bene della società. della “quasi totalità dei suoi cittadini”, giustificando la disparità di trattamento non con un valore costituzionale, ma con il dato obiettivo della maggioranza. Il criterio del dato quantitativo ha resistito anche con la sentenza del 1973, n. 14, la quale, intendendo il sentimento religioso quale “diritto inviolabile della persona”, ha peraltro invitato il legislatore a voler sanare la discriminazione fra fedeli di diverse confessioni religiose: ed ha resistito anche dopo l’entrata in vigore della citata legge 25 marzo 1985, n. 121: infatti soltanto nel 1988 (sent. n. 925) la Corte, sulla base della novella legislativa, ha riconosciuto che un diritto inviolabile (sentimento religioso) non può essere compresso o diversamente protetto a motivo del “maggiore o minore numero degli appartenenti alle varie confessioni religiose”, pur non arrivando a sanzionare di incostituzionalità quelle norme che ancora sancivano la disparità di trattamento tra la confessione cattolica e le altre confessioni religiose, soltanto per fare (ancora) tempo al legislatore di apportare le indispensabili modifiche normative in tale senso.

Soltanto con la sentenza del 18 ottobre 1995, n. 440, la Corte ha dichiarato l’incostituzionalità dell’art. 724 c.p., che punisce il reato di bestemmia, limitatamente alle parole “o simboli e le persone venerate nella religione dello Stato”, con riferimento ai principi contenuti negli artt. 3 (discriminazione di religione) e 8, primo comma, (uguale libertà di tutti i culti) della Costituzione. Da tali principi – sostiene la Corte – “deve trarsi ora la conseguenza della declaratoria di incostituzionalità della norma che punisce la bestemmia, in quanto differenzia la tutela penale dal sentimento religioso individuale a seconda della fede professata”. E aggiunge: “La perdurante inerzia del legislatore non consente – dopo sette anni dall’ultima scadenza – ribadita nei suoi contenuti dall’ordinanza n. 52 del 1989 – di protrarre ulteriormente l’accertata discriminazione, dovendosi affermare la preminenza del principio costituzionale di uguaglianza in materia di religione su altre esigenze – come quella del buon costume tutelato dall’art. 724 – pur apprezzabili ma di valore non comparabile”.

Orbene, osserva il pretore che analoga questione si presenta con riferimento agli artt. 404 e 406 c.p., nel senso che anche nella fattispecie che sarà esaminata possono valere le considerazioni ed i ragionamenti contenuti nella citata sentenza n. 440 del 1995, sia in ordine all’ormai superato concetto di “religione dello Stato” (art. 404 c.p.) sia in ordine alla disparità di trattamento sanzionatorio di medesimi comportamenti, a seconda che questi costituiscono vilipendio della “religione dello Stato”, ovvero di “un culto ammesso nello Stato” (art. 406 c.p.).

Visti gli artt. 23 e ss. della legge 11 marzo 1953;

P.Q.M.

Ordina l’immediata trasmissione degli atti alla Corte costituzionale;

Sospende il giudizio in corso;

Ordina che la presente ordinanza di trasmissione degli atti alla Corte costituzionale sia notificata, a cura della cancelleria, alle parti in causa e al pubblico ministero, nonché al Presidente del Consiglio dei Ministri, ai Presidenti del Senato della Repubblica e della Camera dei deputati.