Decreto 13 luglio 2006
Corte d’appello di Roma. Decreto 13 luglio 2006: “Intrascrivibilità del matromonio contratto all’estero tra persone dello stesso sesso”.
In Olir: Tribunale di Latina. Decreto 10 giugno 2005, n. 3 (I grado)
(Omissis)
Con il decreto indicato in epigrafe [decreto 10 giugno 2005 – n.d.r.] il Tribunale di Latina ha rigettato il ricorso proposto da G.A. ed O.M. avverso il rifiuto dell’Ufficiale dello stato civile del Comune di Latina a trascrivere nei registri dello Stato civile il matrimonio da loro contratto a L’Aja (Olanda) il 1° giugno 2002.
Avverso il decreto citato i ricorrenti hanno proposto reclamo a questa Corte chiedendo che venga revocato il provvedimento e conseguentemente ordinato all’Ufficiale dello stato civile del Comune di Latina di trascrivere l’atto di matrimonio olandese, ovvero, nel caso in cui la Corte non ritenga di poter accogliere il reclamo nel merito, che venga dichiarata non manifestamente infondata la questione di illegittimità costituzionale dell’art. 18 d.P.R. 396/2000 per contrasto con l’art. 29 Cost., nella interpretazione prospettata dai medesimi ricorrenti in coerenza con l’art. 2 Cost.
Con memoria depositata in data 13 ottobre 2005, si è costituita, per il Sindaco di Latina nella qualità di Ufficiale del Governo, l’Avvocatura Generale dello Stato, che ha chiesto rigetto del reclamo.
All’udienza del 2 febbraio 2006 sono comparsi i reclamanti di persona ed il loro procuratore costituito, su richiesta del quale la Corte ha rinviato la trattazione, concedendo alle parti termine per il deposito di note e documenti.
Alla successiva udienza del 27 aprile 2006 il procuratore dei ricorrenti ha ribadito richieste e deduzioni formulate nel ricorso introduttivo e nelle note depositate nel termine assegnato e la Corte si è riservata la decisione.
A scioglimento della riserva, rileva la Corte che i reclamanti hanno sostanzialmente riproposto le argomentazioni già formulate dinanzi al Tribunale in merito all’illegittimità del rifiuto opposto dall’Ufficiale dello stato civile alla trascrizione del loro matrimonio, argomentazioni con le quali viene sostenuta, sotto diversi e non sempre chiari profili, la medesima tesi: anche se la possibilità di contrarre matrimonio tra due persone dello stesso sesso non è contemplata dal diritto italiano, deve egualmente riconoscersi efficacia nel nostro ordinamento giuridico al matrimonio tra persone dello stesso sesso celebrato in uno stato estero ove ciò è possibile secondo la legislazione vigente in quello stato perché:
1) tale riconoscimento non contrasta con nessun principio irrinunciabile fra quelli immanenti al nostro ordinamento e costituzionalmente garantiti, tenuto conto della evoluzione nella società delle realtà di tipo familiare e della necessità di armonizzare le legislazioni in materia di rapporti familiari dei vari stati appartenenti alla Comunità Europea,
2) il rifiuto del riconoscimento si porrebbe in contrasto con la necessità di assicurare tutela alle libertà e ai diritti individuali garantiti dagli artt. 2 e 3 della nostra Costituzione.
Investito di tale questione, il Tribunale di Latina si è pronunciato negativamente, ritenendo non suscettibile di riconoscimento un atto che non presenta i caratteri essenziali propri dell’istituto matrimoniale così come disciplinato dal nostro ordinamento e garantito dall’art. 29 Cost. Il Tribunale ha inoltre precisato che la trascrizione nei registri dello stato civile del matrimonio tra persone dello stesso sesso sarebbe comunque impedita dall’art. 18 d.P.R. cit., in quanto contraria all’ordine pubblico internazionale, individuato nei principi fondamentali e caratterizzanti l’atteggiamento etico-giuridico dell’ordinamento in un determinato periodo storico.
Premessa in questi termini la questione centrale oggetto della decisione impugnata e ora rimessa a questa Corte, va precisato che i reclamanti hanno formulato le seguenti specifiche argomentazioni:
a) la trascrizione dei matrimoni celebrati all’estero, a norma dell’art. 17 d.P.R. 396/2000, ha carattere meramente certificativo e dichiarativo ed è atto dovuto ove venga data la prova della sua celebrazione all’estero secondo la lex loci;
b) posto che nell’ordinamento italiano opera il riconoscimento automatico del provvedimento straniero ai sensi degli artt. 65 e 66 l. 218/1995 e 63, n. 2, d.P.R. 396/2000, gli atti dello stato civile provenienti dai paesi della UE, o legittimamente formati secondo le norme vigenti nel paese di provenienza, debbono essere trascritti senza preventivo controllo di conformità all’ordine pubblico nazionale, in quanto conformi all’ordine pubblico della comunità internazionale al quale sia lo Stato di provenienza che lo Stato richiesto appartengono;
c) l’applicazione della legge straniera secondo le norme di diritto internazionale privato incontra quale unico limite la contrarietà all’ordine pubblico internazionale, cioè ad un complesso di principi e valori più ampio di quello che informa l’ordinamento interno dello Stato richiamante, nonché suscettibile di più rapida e profonda trasformazione, perché teso ad attribuire pari dignità ai principi e valori che informano gli ordinamenti di tutti gli Stati;
d) il matrimonio appartiene alle forme “convenzionali” e non a quelle naturali dell’organizzazione sociale e dunque l’art. 29 Cost. non può essere interpretato nel senso che la tutela costituzionale è riconosciuta alla sola famiglia eterosessuale solo perché è questa l’unica a poter accedere all’istituto matrimonio secondo le norme di diritto interno.
La Corte ritiene il reclamo infondato, dovendo condividersi sia l’approccio sistematico alla questione prospettato in via principale nella decisione impugnata, sia la conclusione di merito cui è pervenuto il giudice di prima istanza.
Correttamente, infatti, il Tribunale ha ritenuto preliminare ed assorbente la questione della presenza nell’atto di cui si chiede la trascrizione ai sensi dell’art. 63 comma lett. c), d.P.R. 396/2000 delle connotazioni proprie, nel nostro ordinamento, degli atti di matrimonio assoggettati a trascrizione negli archivi di cui all’art. 10 del medesimo decreto, indagine che sia l’Ufficiale dello stato civile, sia il giudice adito a norma dell’art. 95 d.P.R. cit. sono tenuti a compiere con riferimento ad ogni atto di cui si chiede la trascrizione, sia esso formato in Italia o all’estero.
La trascrizione di quest’ultimo, in particolare, non può essere considerata atto dovuto. Infatti, pur condividendo questa Corte, in conformità alla giurisprudenza di legittimità richiamata dagli stessi ricorrenti, quanto si afferma nella decisione impugnata in merito alla natura meramente dichiarativa e non costitutiva della trascrizione, non si vede come da questa possa farsi discendere quale logica conseguenza anche il suo automatismo, posto che nelle sentenze richiamate dai ricorrenti (v. anche Cass. nn. 1304/1990, 9578/1993, 10351/1998 e 7877/2000) è affermato il diverso principio della ininfluenza della trascrizione ai fini della validità ed efficacia nel nostro ordinamento dell’atto di matrimonio celebrato all’estero tra cittadini italiani, validità ed efficacia per le quali si richiede, secondo le vigenti norme di diritto internazionale privato, la sussistenza dei requisiti di validità previsti dalla lex loci quanto alle forme di celebrazione e di quelli previsti dalla legge italiana quanto allo stato ad alla capacità delle persone (artt. 27 e 28 l. 218/1995).
Egualmente non si vede come possa trarsi argomento a favore dell’automaticità della trascrizione dell’atto di matrimonio celebrato all’estero dal disposto degli artt. 65 e 66 l. n. 218/1995, dal momento che queste norme garantiscono immediata efficacia in Italia, peraltro anche in questo caso ricorrendo le condizioni dalle stesse espressamente stabilite, ai «provvedimenti stranieri relativi alla capacità delle persone e all’esistenza dei rapporti di famiglia» e ai «provvedimenti stranieri di volontaria giurisdizione».
Esse, dunque, sono a torto richiamate dai reclamanti a sostegno della tesi della obbligatorietà della trascrizione nei registri dello stato civile dell’atto di matrimonio celebrato all’estero, dal momento che questo, sebbene soggetto a determinate forme solenni che prevedono la “ricezione” della volontà dei nubendi da soggetti investiti di un pubblico ufficio, non è certo assimilabile ad un “provvedimento” proveniente dall’autorità amministrativa o giurisdizionale, ma resta un atto negoziale e come tale deve essere considerato ai fini della individuazione delle norme che ne disciplinano gli effetti nell’ordinamento interno.
Ciò premesso, occorre peraltro ricordare che certamente esula dal limitato ambito di cognizione di questo procedimento, esclusivamente finalizzato a verificare la legittimità del rifiuto opposto dall’Ufficiale dello stato civile del Comune di Latina, valutare tutte le conseguenze possibili nel nostro ordinamento dell’atto negoziale in questione, dovendo il giudice adito a norma dell’art. 95 d.P.R. 396/2000 limitarsi ad accertare se sussistono o meno le condizioni per procedere alla trascrizione richiesta dalle parti.
A questo limitato fine ritiene questa Corte che sia non solo legittima, ma necessaria ed imprescindibile, la preliminare verifica se l’atto di cui si chiede la trascrizione possa o meno essere considerato atto di matrimonio, verifica che, proprio avuto riguardo alla funzione ed agli effetti di natura pubblicistica connessi alla trascrizione nei registri dello stato civile, non può che essere condotta con rigore alla stregua del diritto vigente e applicabile alla specie.
Al riguardo devesi convenire con i reclamanti che il fatto che il matrimonio, sebbene ricopra un ruolo centrale nel sistema normativo che disciplina i rapporti di famiglia, non sia “definito” nella Costituzione, né nel codice civile e neppure nelle leggi speciali che nel tempo hanno regolamentato l’istituto, deve indurre l’interprete chiamato ad individuarne il contenuto essenziale ad un’attenta considerazione della evoluzione che l’istituto possa avere avuto nel costume sociale oltre che nella sua disciplina positiva e a doverosamente utilizzare tutti i criteri di interpretazione di cui all’art. 12 delle disposizioni sulla legge in generale, fra i quali il criterio evolutivo.
Egualmente deve convenirsi con i reclamanti sul fatto che, facendo lo Stato italiano parte di una comunità internazionale che si è data regole e principi comuni, che ha proprie istituzioni e che con i suoi organi di giustizia si pone come autonomo referente per la tutela dei diritti dei singoli appartenenti alle varie comunità nazionali, deve essere considerato ai fini menzionati anche il contesto sovranazionale entro il quale l’ordinamento italiano si inserisce.
L’ambito del sindacato richiesto è tuttavia pur sempre delimitato per l’interprete nella sede giurisdizionale dal rispetto degli ambiti di competenza di altri poteri dello Stato. Ed invero, compete al legislatore dare attuazione, nelle forme che risulteranno conformi alla volontà parlamentare, quale espressione delle istanze provenienti dalla società, all’interno della quale è già da tempo presente il dibattito sull’argomento, alle raccomandazioni che sul tema il Parlamento Europeo ha rivolto agli Stati membri sin dalla risoluzione dell’8 febbraio 1994, seguita dalle Risoluzioni del 16 marzo 2000, del 14 luglio 2001 e del 4 settembre 2003, raccomandazioni a contenuto meramente programmatico alle quali non può essere riconosciuto alcun effetto vincolante per l’interprete chiamato ad applicare la normativa nazionale che si assume con esse confliggente.
Egualmente priva di “obbligatorietà” negli ordinamenti interni dei Paesi della UE è anche la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, solennemente siglata a Nizza, nel dicembre del 2000, da tre istituzioni comunitarie, il Parlamento, la Commissione ed il Consiglio Europeo, la quale garantisce all’art. 9 il diritto a sposarsi e a costituire una famiglia, ma «secondo le leggi nazionali che ne disciplinano l’esercizio».
Nella Carta, cui certamente deve essere riconosciuto il valore, non meramente simbolico, di una solenne ricognizione delle prerogative comuni ai cittadini dell’Unione, è tuttavia rinvenibile il riscontro più evidente e significativo per l’interprete della evoluzione che il diritto di sposarsi e di fondare una famiglia ha avuto nel contesto europeo rispetto all’identico diritto garantito dall’art. 12 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo.
Nel testo delle spiegazioni che accompagna la Carta si legge, infatti, con riferimento all’art. 9: «Questo articolo si basa sull’art. 12 della CEDU, che recita: “a partire dall’età minima per contrarre matrimonio, l’uomo e la donna hanno il diritto di sposarsi e di fondare una famiglia secondo le leggi nazionali che regolano l’esercizio di tale diritto”. La formulazione di questo diritto è stata aggiornata al fine di disciplinare i casi in cui le legislazioni nazionali riconoscono modi diversi dal matrimonio per costituire una famiglia. L’articolo non vieta né impone la concessione dello status matrimoniale a unioni tra persone dello stesso sesso. Questo diritto è pertanto simile a quello previsto dalla CEDU, ma la sua portata può essere più estesa qualora la legislazione nazionale lo preveda». Al riguardo osserva la Corte che, se è vero che una larga parte degli Stati europei ha già recepito l’invito di cui alle raccomandazioni provenienti dalle istituzioni comunitarie di cui si è detto, dando ingresso nei rispettivi ordinamenti a forme di riconoscimento delle unioni tra persone dello stesso sesso che manifestino il consenso ad un progetto di vita comune, ciò è avvenuto in forme diversificate nei vari paesi, soltanto alcuni dei quali hanno sancito il diritto al “matrimonio” indipendentemente dal sesso dei nubendi ed anche in questo caso talvolta disciplinandone diversamente gli effetti, ad esempio con riguardo alla filiazione, rispetto al matrimonio tra persone di sesso diverso.
In tutti questi paesi – ed anche in Olanda, dove i reclamanti si sono uniti in matrimonio – ciò è avvenuto all’esito di un lungo ed elaborato processo, nell’ambito del quale ogni comunità nazionale ha dovuto affrontare un’approfondita ricognizione delle libertà individuali meritevoli di tutela istituzionale in ambito familiare ed individuare i modelli normativi più rispondenti alla evoluzione delle realtà di questo tipo presenti nelle rispettive società.
Detto processo in Italia, dove il dibattito non è neppure utilmente approdato alla sede parlamentare, è ancora in corso e presenta aspetti di tale delicatezza e complessità da non consentire alcuna anticipazione dell’interprete sulla base di una evoluzione della normativa esistente verso un nuovo assetto degli istituti interessati, evoluzione che non è allo stato rinvenibile nell’ordinamento nazionale, né perseguibile in via di interpretazione sistematica, analogica o estensiva delle norme di diritto interno, peraltro le uniche applicabili nella specie ai sensi dell’art. 27 della l. n. 218/1995 e dell’art. 115 c.c., essendo i reclamanti entrambi cittadini italiani.
È dunque corretto ritenere, come ha fatto il Tribunale di primo grado, che, mancando a livello europeo ed extraeuropeo una disciplina sostanziale comune e cogente delle unioni di tipo coniugale tra persone dello stesso sesso, non si possa prescindere dall’esaminare la corrispondenza dei modelli normativi liberamente scelti nei vari Stati agli istituti dell’ordinamento nazionale, non potendo attuarsi con lo strumento invocato dai reclamanti e attraverso la forzosa esportazione delle scelte operate da altre comunità nazionali il riconoscimento di nuove realtà di tipo familiare che deve trovare ingresso nella sede e nelle forme istituzionali proprie.
Premesse tali considerazioni, rileva la Corte che nel caso di specie i reclamanti hanno adeguatamente provato con la produzione documentale in atti di aver contratto matrimonio in Olanda secondo la normativa vigente in quel paese, che dal 1° aprile 2001 (legge 21 dicembre 2000 Staatsblad 2001, 9 promulgata con decreto reale del 29 marzo 2001, Staatsblad 2001, 145) stabilisce che «il matrimonio può essere contratto da due persone dello stesso sesso o di sesso diverso».
Il loro matrimonio, tuttavia, non può essere trascritto nei registri dello stato civile dello Stato italiano perché non presenta uno dei requisiti essenziali per la sua configurabilità come matrimonio nell’ordinamento interno: la diversità di sesso tra i coniugi.
Infatti, posto che dottrina e giurisprudenza tradizionalmente distinguono i requisiti per la valida costituzione del vincolo matrimoniale dai requisiti indispensabili per la sua stessa esistenza, questi ultimi vengono pacificamente individuati nella diversità di sesso, nel consenso delle parti e nella celebrazione. Tali requisiti sono invero direttamente ricavabili dall’art. 107 c.c., che configura il matrimonio come un negozio giuridico bilaterale tra due persone di sesso diverso, le quali dichiarano, in un determinato contesto formale, di volersi prendere rispettivamente in “marito” ed in “moglie” (v. Cass. n. 1808/1976, n. 1304/1990, n. 7877/2000).
La medesima distinzione di sesso tra i coniugi si rinviene in numerosissime altre disposizioni (108, 143, 143-bis, 143-ter, 156-bis etc.) e precipuamente in quelle che disciplinano il concreto atteggiarsi dei diritti e doveri dei coniugi tra loro e verso i figli, nonché nello stesso ordinamento sullo stato civile emanato con il d.P.R. più volte citato, laddove prevede, nell’art. 64, lett. e), che l’atto di matrimonio deve specificamente indicare «la dichiarazione degli sposi di volersi prendere rispettivamente in marito e in moglie».
Nessuna argomentazione in senso contrario può, d’altro canto, essere desunta dal mancato riferimento alla identità di sesso dei nubendi tra gli impedimenti a contrarre matrimonio di cui agli art. 84 e ss. c.c., dovendo condividersi l’osservazione fatta propria dalla decisione impugnata, fondata appunto sulla già menzionata distinzione, tradizionalmente presente in dottrina e giurisprudenza, tra requisiti di esistenza e requisiti di validità dell’atto, laddove i primi vengono ad essere presupposti dalle norme che disciplinano, con elencazione ritenuta tassativa, le cause di invalidità del matrimonio.
Al riguardo appare, invero, decisivo il rilievo che per il legislatore del 1942, così come per il legislatore costituzionale, non sussisteva l’esigenza di alcuna specificazione in merito alla diversità di sesso dei coniugi, essendo questa insita nella comune accezione e nella tradizione sociale e giuridica dell’istituto matrimoniale e non essendosi all’epoca neppure profilata l’ipotesi di un’estensione dell’istituto all’unione affettiva tra persone dello stesso sesso.
Egualmente nessun argomento in senso favorevole alla tesi prospettata dai ricorrenti può essere tratto dalla rinuncia del legislatore della riforma del 1975 ad inserire tra le norme del codice l’art. 83-bis, recante un definizione dell’istituto matrimoniale che espressamente fa riferimento alla diversità di sesso dei coniugi, dal momento che anche all’epoca non si prospettava alcuna necessità di esplicitare un dato sociale e normativo considerato pacifico.
Venendo infine alla tutela costituzionale invocata dai reclamanti, osserva la Corte che il riferimento contenuto nell’art. 29 Cost. alla «famiglia come società naturale fondata sul matrimonio» consolida il convincimento fin qui espresso in merito alla impossibilità di dare in questa sede ingresso al riconoscimento dell’unione di tipo familiare tra persone dello stesso sesso. Il criterio di rapporto tra il legislatore e la realtà sociale indicato dalla Costituzione, infatti, mentre non costituisce di per sé ostacolo alla ricezione in ambito giuridico di nuove figure alle quali sia la società ad attribuire il senso ed il valore della esperienza “famiglia”, induce invece a ritenere illegittimo perseguire detto fine attraverso una forzatura in via interpretativa dell’istituto matrimoniale, essendo le connotazioni essenziali di questo saldamente ancorate al diritto positivo e alla concezione sociale di cui questo costituisce tuttora univoca espressione.
Per tutte le considerazioni che precedono, devesi ritenere legittimo il rifiuto alla trascrizione opposto dall’Ufficiale dello Stato civile del Comune di Latina, restando assorbita o irrilevante ogni altra questione prospettata dai reclamanti.
Il reclamo proposto deve essere di conseguenza rigettato.
Considerata la natura delle questioni trattate, ricorrono giusti motivi per la integrale compensazione tra le parti anche delle spese di questo grado del procedimento.
P.Q.M.
Rigetta il reclamo proposto da G.A. e O.M. avverso il decreto 31 maggio-10 giugno 2000 [recte: 2005 – n.d.r.] del Tribunale di Latina e conferma integralmente il decreto impugnato.
Autore:
Corte d'Appello - Civile
Nazione:
Italia
Parole chiave:
Trascrizione, Diritti umani, Libertà fondamentali, Famiglia, Matrimonio tra persone dello stesso sesso
Natura:
Decreto