Tribunale di Roma Decreto 12 febbraio 1963: “Vilipendio della religione dello Stato e opere cinematografiche”
Il Giudice istruttore ecc…
Visti gli atti relativi al sequestro del film dal titolo Viridiana e presa visione della pellicola cinematografica.
Premesso:
– Che detto film, opera del regista spagnolo Luis Buňuel, vincitrice del festival di Cannes del 1961, dopo aver ottenuto il nulla osta da parte della Commissione di censura veniva proiettato per la prima volta in Roma il 17 gennaio 1963 e sette giorni dopo in Milano e in Palermo.
– Che, con provvedimento 25 gennaio 1963, il Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Milano disponeva il sequestro della pellicola cinematografica ritenendo che essa si appalesasse, nel suo complesso, come offensiva della religione dello Stato, attraverso la negazione di ogni precetto religioso e l'irrisione dei simboli della religione stessa e che “l'offesa attingesse manifestamente i limiti del vilipendio nelle sequenze mostranti, con intento evidentemente derisorio, un gruppo di storpi, di malati e di invalidi al cui centro è un cieco, disposti intorno ad una tavola imbandita in una composizione di figure e in atteggiamenti tali da richiamare alla mente dello spettatore la raffigurazione dell'Ultima Cena nel mentre di fronte al gruppo stesso una donna alzando le gonne mostra le parti intime”.
– Che gli atti venivano successivamente trasmessi al Procuratore della Repubblica presso questo Tribunale per competenza territoriale.
– Che il pubblico ministero richiedeva, in data 6 febbraio 1963, decreto di non doversi promuovere l'azione penale e la revoca del sequestro.
Premesso, ancora, che il film narra la storia di una novizia profondamente religiosa la quale, prima di pronunciare i voti, va a trascorrere qualche giorno nella villa dello zio don Jaime. Costui, che aveva perduto la moglie la notte delle nozze e che, affetto da feticismo, ne conserva gelosamente gli indumenti, si innamora della nipote che rassomiglia alla defunta la quale rifiuta di sposarlo. Lo zio induce allora Viridiana ad indossare gli abiti nuziali della moglie morta e con la complicità della governante Ramona, sua beneficata e sua succube, la droga, la stende sul letto, ma riesce a superare la tentazione di violentarla. Sennonché, allo scopo di ottenere che Viridiana si fermi nella sua casa, le fa credere di aver approfittato di lei nel sonno. La ragazza inorridita fugge, ma il viaggio di ritorno in convento è interrotto dalla tragica notizia del suicidio dello zio che l'aveva nominata erede unitamente a un di lui figlio naturale. Viridiana decide di rinunciare alla vita claustrale e si dedica a opere di carità, ospitando nella villa un gruppo di loschi mendicanti, storpi, malati, invalidi e di donne equivoche che ella nutre, assiste e fa pregare. La sua attività si contrappone a quella dell'altro erede, uomo della vita, spregiudicato, che si dedica al miglioramento della proprietà terriera. La generosità di Viridiana è ripagata con la più nera ingratitudine in quanto essi, durante l'assenza dalla villa di Jorge, figlio naturale di don Jaime, di Ramona e della stessa Viridiana organizzano un'orgia e uno di essi tenta di violentare quest'ultima allorché la medesima ritorna. Jorge, immobilizzato, riesce a convincere un altro mendicante ad uccidere il bruto. Viridiana è ormai cambiata e dalle ultime battute del film si intuisce che non respingerà più Jorge, ma finirà per inserirsi nei rapporti che legano Jorge stesso con Ramona, instaurando così un ménage a tre.
Ritenuto:
– che dalla trama del film traspare evidente la finalità polemica, conseguita dal regista, contro determinati aspetti della vita sociale relativi ad ambienti e luoghi a lui ben conosciuti, affermando la tesi che non basta sfamare i derelitti, farli vivere in modo confortevole, invitarli alla preghiera, occorre addirittura che non vi siano più derelitti, conferire loro la dignità perduta, inserirli nella vita sociale e non umiliarli con un'elemosina che non può emanciparli perché non può redimerli.
– che non meno palese è, nella concezione del regista, un motivo polemico contro quelle manifestazioni esteriori della pratica religiosa che in particolari ambienti si alternano con manifestazioni di vera e propria superstizione, rivelando così quasi una natura comune.
– che, pertanto, indubbio appare l'intento critico del regista nei confronti di alcune tradizioni e della pratica religiosa e che è evidente, altresì, l'interesse dello stesso alle deviazioni morali e sessuali.
– che però la critica, per quanto alimentata da un simbolismo di gusto discutibile, non integra nella fattispecie gli estremi del vilipendio della religione cattolica inteso, nel senso voluto dalla legge, di tenere cioè a vile, dileggiare, disprezzare con parole, gesti, scritti la religione stessa, giacché manca un attacco di tal genere contro quelle che sono le credenze fondamentali della religione quali l'idea di Dio, i dogmi della Chiesa, i suoi sacramenti, i suoi riti e i suoi simboli.
– che, all’uopo, giova rilevare che i rapporti dell'uomo con Dio non sono suscettibili di regolamentazione da parte del diritto, onde nell'ambito di detti rapporti l'offesa puramente diretta alla divinità è estranea al diritto e non può essere materia di reato: Deorum iniuriae Diis curae.
– che il diritto in generale e il diritto penale in particolare non possono regolare, anche relativamente ai sentimenti religiosi, se non rapporti umani.
– che il diritto umano riconosce che la religione è la più profonda radice del patrimonio morale di un popolo costituendo un bisogno della specie e proprio per questo è meritevoli di un'adeguata tutela penale particolarmente efficace per la religione cattolica che è la religione della grande maggioranza degli italiani.
– che nell'apprestare siffatta tutela il diritto non può prescindere dalla necessità di garantire la libertà di coscienza e quindi la libertà di critica, soprattutto per evitare i deprecabili eccessi di fanatismo e di bigottismo con conseguenti facili accuse di vilipendio a carico di chi non accetta i dettami della fede e non fa oggetto di venerazione tutto ciò che alla fede direttamente o di riflesso si riferisce; invece, la nozione di vilipendio va limitata nel senso sopra chiarito, con esclusione di quei fatti semplicemente riprovevoli per la religione o se si vuole per la buona educazione e per il buon gusto.
– che, in conclusione, il vilipendio integra gli estremi di un'offesa ignobile, quasi brutale, del comune sentimento religioso.
– che in relazione al premesso non sembra potersi sostenere che il regista abbia inteso negare ogni validità ai precetti religiosi attraverso l'irrisione dei simboli della religione stessa.
Ritenuto che non si ravvisano, in particolare, gli estremi del vilipendio nelle scene di cui appresso si dirà e che sono quelle che, in ipotesi, potrebbero integrare tali estremi:
1) scena nella quale Viridiana, appena arrivata nella villa dello zio, estrae dalla valigia una croce, una corona di spine, un martello e dei chiodi e scene nelle quali gli stessi simboli vengono più volte inquadrati.
Nulla di offensivo è dato ravvisare in tali scene, sebbene l'intento del regista sia quello di dimostrare che la perenne contemplazione dei mezzi e dei simboli che secondo la fede cristiana parlano del martirio di Gesù non è manifestazione di una religiosità profonda e completa; giudizio critico, come si ripete, discutibile, ma non offensivo.
2) scena nella quale Jorge, tra gli oggetti del padre, rinviene un crocefisso nel quale è inserita una lama di coltello.
Anche tale scena non incide sui valori religiosi fondamentali, giacché in essa manca qualsiasi elemento che valga a far sospettare, sia pure una internazionalità blasfema, specie ove si consideri che oggetti del genere venivano costruiti nel passato e sono rintracciabili presso musei e antiquari di determinati paesi, come la comune esperienza insegna. L'oggetto vuole sottolineare la contraddittoria personalità del defunto, innamorato e feticista, mistico e vizioso, generoso ed egoista.
3) scena nella quale i mendicanti, per compiacere la loro benefattrice, recitano l'Angelus, mentre ogni loro frase della preghiera è intercalata da inquadrature che mostrano gruppi di operai intenti silenziosamente al lavoro.
Si tratta di un motivo fondamentale del film: l'elemosina non migliora l'uomo derelitto, pur se lo induce, per fini gretti ed egoistici, a sussurrare una preghiera non sentita. È invece il lavoro che può compiutamente raggiungere questo scopo di redenzione. E a tale proposito è da rilevare come di certo il contrario non sostenga la religione cattolica, il cui fondatore non a caso trascorre la massima parte della sua vita terrena nel lavoro, assegnando alla vita pubblica e di predicazione uno spazio di tempo assai più breve.
4) scena della cena.
Senza dubbio la disposizione dei derelitti, uomini e donne, al momento di scattare la cosiddetta fotografia intorno alla tavola imbandita al cui centro è un cieco e i loro atteggiamenti richiamano alla mente dello spettatore la raffigurazione dell'Ultima Cena di Leonardo da Vinci. Può aggiungersi, altresì, che la scena costituisce una parodia di assai dubbio buon gusto di una eccelsa opera d'arte. Ma in essa non sono ravvisabili gli estremi del vilipendio alla religione cattolica nel senso proprio dell'espressione: manca infatti un qualsiasi riferimento al sacramento dell'Eucaristia che nell'occasione fu istituito; manca un riferimento diretto ai protagonisti di detta scena; manca in definitiva un attacco oltraggioso e infamante a quello che è il significato alto, profondo, sublime che la religione cattolica attribuisce a detta Cena. E al riguardo non è fuori luogo ripetere che la valutazione religiosa del fatto umano è ben diversa dalla valutazione giuridica, giacché sotto il primo profilo potrebbe essere ritenuta blasfema ogni azione non improntata ad assoluta reverente venerazione di tutto quello che concerne direttamente o indirettamente la religione, mentre sotto il secondo profilo il giudizio su di esso è più circoscritto, perché si riferisce agli uomini e ai rapporti tra uomini. L'episodio della cena e dell'orgia seguita dal tentativo di violenza carnale ai danni di Viridiana costituisce, nella concezione del film, la dimostrazione del fallimento dell'opera della giovane donna, la quale è riuscita a sfamare i suoi poveri, ma non a redimerli o a migliorarli, tanto che i loro spiriti, compressi da una forza esogena, si scatenano alla prima occasione in tutta la loro brutalità. E forse la scena della posa per la fotografia vuole preludere, in aderenza al solito simbolismo, al tradimento che stava per essere consumato ai danni della benefattrice, come l'ultima Cena di Gesù fu di poco precedente al tradimento di Giuda: e, forse ancora, vuole plasticamente illustrare il negativo risultato dell'azione di Viridiana, del quale la madre superiore era stata facile profeta allorché, alla novizia che lasciava il velo, aveva rimproverato di commettere un peccato di orgoglio.
Per questi motivi, visto l’art. 74 del codice di procedura penale, vista la richiesta del pubblico ministero in data 6 febbraio 1963 dichiara non doversi promuovere l’azione penale e ordina la trasmissione degli atti all’archivio.
Autorizza la restituzione agli aventi diritto delle copie del film Viridiana sequestrate a seguito del provvedimento 25 gennaio 1963 del Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Milano.