Osservatorio delle libertà ed istituzioni religiose

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Osservatorio delle Libertà ed Istituzioni Religiose

Sentenza 18 marzo 2014

La direttiva 2006/54/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 5
luglio 2006, riguardante l’attuazione del principio delle pari
opportunità e della parità di trattamento fra uomini e
donne in materia di occupazione e impiego, in particolare agli
articoli 4 e 14, deve essere interpretata nel senso che non
costituisce una discriminazione fondata sul sesso il fatto di negare
la concessione di un congedo retribuito equivalente a un congedo di
maternità a una lavoratrice che abbia avuto un figlio mediante
un contratto di maternità surrogata, in qualità di madre
committente. Analogamente, la direttiva
2000/78/CE
del Consiglio, del 27 novembre 2000, che stabilisce un
quadro generale per la parità di trattamento in materia di
occupazione e di condizioni di lavoro, deve essere interpretata nel
senso che non costituisce una discriminazione fondata
sull’handicap il fatto di negare la concessione di un congedo
retribuito equivalente a un congedo di maternità o a un congedo
di adozione a una lavoratrice che sia incapace di sostenere una
gravidanza e si sia avvalsa di un contratto di maternità
surrogata.

Sentenza 05 settembre 2012

Per individuare in concreto quali siano gli atti che possono essere
considerati una persecuzione nell’accezione dell’articolo 9,
paragrafo 1, lettera a), della direttiva 2004/83/CE del Consiglio, del
29 aprile 2004 (recante norme minime sull’attribuzione, a cittadini
di paesi terzi o apolidi, della qualifica di rifugiato o di persona
altrimenti bisognosa di protezione internazionale, nonché norme
minime sul contenuto della protezione riconosciuta; di qui in poi
“direttiva”), non è pertinente distinguere tra gli atti che ledono un
«nucleo essenziale» («forum internum») del diritto fondamentale
alla libertà di religione, che non comprenderebbe le pratiche
religiose in pubblico («forum externum»), e quelli che non incidono
su tale presunto «nucleo essenziale».
Questa distinzione non è compatibile con la definizione estensiva
della nozione di «religione» che la direttiva fornisce
all’articolo 10, paragrafo 1, lettera b), integrandovi il complesso
delle sue componenti, siano esse pubbliche o private, collettive o
individuali. Gli atti che possono costituire una «violazione grave»
ai sensi dell’articolo 9, paragrafo 1, lettera a), della direttiva
comprendono atti gravi che colpiscono la libertà del richiedente non
solo di praticare il proprio credo privatamente, ma anche di viverlo
pubblicamente.
Questa interpretazione è idonea ad attribuire all’articolo 9,
paragrafo 1, della direttiva una sfera di applicazione entro la quale
le autorità competenti possono valutare qualsiasi tipo di atto lesivo
del diritto fondamentale alla libertà di religione onde determinare
se, alla luce della sua natura o reiterazione, esso risulti
sufficientemente grave da essere considerato una persecuzione.
Se ne evince che gli atti i quali, a causa della loro intrinseca
gravità unitamente alla gravità della loro conseguenza per la
persona interessata, possono essere considerati persecuzione devono
essere individuati non in funzione dell’elemento della libertà di
religione che viene leso, bensì della natura della repressione
esercitata sull’interessato e delle conseguenze di quest’ultima.
Pertanto, è la gravità delle misure e delle sanzioni adottate, o che
potrebbero essere adottate, nei confronti dell’interessato che
determinerà se una violazione del diritto garantito dall’articolo
10, paragrafo 1, della Carta costituisca una persecuzione ai sensi
dell’articolo 9, paragrafo 1, della direttiva.
Di conseguenza, una violazione del diritto alla libertà di religione
può costituire una persecuzione a norma dell’articolo 9, paragrafo
1, lettera a), della direttiva quando il richiedente asilo, a causa
dell’esercizio di tale libertà nel paese d’origine, corre un
rischio effettivo, in particolare, di essere perseguitato, o di essere
sottoposto a trattamenti o a pene disumani o degradanti ad opera di
uno dei soggetti indicati all’articolo 6 della direttiva (nel caso
di specie, due cittadini pachistani, appartenenti alla comunità
Ahmadiyya, movimento riformatore dell’Islam, erano stati oggetto nel
loro Paese di atti di violenza durante lo svolgimento delle pratiche
religiose e denunciati alle autorità per avere insultato il nome di
Maometto. In particolare, il codice penale pakistano dispone che i
membri della comunità Ahmadiyya sono passibili di una pena fino a tre
anni di reclusione o di una pena pecuniaria se affermano di essere
musulmani, qualificano come Islam la loro fede, pregano o propagano la
loro religione o se cercano proseliti. A norma dell’articolo 295 C
di detto codice penale, chiunque oltraggia il nome del profeta
Maometto può essere punito con la pena di morte o l’ergastolo oltre
a una pena pecuniaria).

Sentenza 10 maggio 2011

Il combinato disposto degli artt. 1, 2 e 3, n. 1, lett. c), della
direttiva 2000/78 osta ad una norma nazionale, come quella di cui
all’art. 10, n. 6, della legge 30 maggio 1995 del Land di Amburgo,
ai sensi della quale un beneficiario partner di un’unione civile
percepisca una pensione complementare di vecchiaia di importo
inferiore rispetto a quella concessa ad un beneficiario coniugato non
stabilmente separato, qualora nello Stato membro interessato, il
matrimonio sia riservato a persone di sesso diverso e coesista con
un’unione civile quale quella prevista dalla legge 16 febbraio 2001,
sulle unioni civili registrate (Gesetz über die Eingetragene
Lebenspartnerschaft), che è riservata a persone dello stesso sesso, e
sussista una discriminazione diretta fondata sulle tendenze sessuali,
per il motivo che, nell’ordinamento nazionale, il suddetto partner
di un’unione civile si trova in una situazione di diritto e di fatto
paragonabile a quella di una persona coniugata per quanto riguarda la
pensione summenzionata.