Osservatorio delle libertà ed istituzioni religiose

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Osservatorio delle Libertà ed Istituzioni Religiose

Sentenza 29 gennaio 1997, n.901

Le fabbricerie esistenti nelle chiese cattedrali dichiarate monumento
nazionale, le quali provvedono all’amministrazione del patrimonio e
dei redditi delle chiese stesse, nonché alla manutenzione degli
edifici, senza ingerenza alcuna nei servizi di culto, devono essere
inquadrate tra le associazioni non riconosciute. Esse, pertanto, pur
essendo prive di personalità giuridica, possono – ai sensi dell’art.
37 c.c. – gestire gli immobili di proprietà della chiesa, dare
attuazione a rapporti di locazione che li riguardano, disporre la
cessazione di quelli esistenti, e possono stare in giudizio a mezzo di
coloro che, secondo l’ordinamento interno dell’ente, ne hanno la
rappresentanza.

Sentenza 11 novembre 2005, n.21865

La presunta lesione del diritto di difesa nelle procedure
ecclesiastiche non è rilevabile d’ufficio dalla Corte d’Appello in
sede di delibazione delle sentenze dichiarative di nullità
matrimoniali, in quanto attinente alle modalità di giudizi svoltisi
davanti a tribunali diversi da quelli dello Stato, i cui eventuali
vizi processuali debbono essere dedotti e provati ai sensi dei nn. 2 e
3, del 1° comma dell’articolo 797 c.p.c. (norma, quest’ultima, ormai
abrogata ex articolo 73, legge 31 maggio 1995, n. 218, ma connotata da
ultrattività in subiecta materia perché espressamente richiamata
dall’articolo 4, lett. b) del Protocollo addizionale all’Accordo 18
febbraio 1984 fra la Repubblica Italiana e la Santa Sede). Si
aggiunga, inoltre, che nel caso di riserva mentale unilaterale, la
“non opposizione” dei coniuge incolpevole – secondo costante
giurisprudenza – è sufficiente a consentire la delibazione della
relativa sentenza ecclesiastica di nullità per esclusione unilaterale
di uno dei “bona matrimonii”. Tuttavia, detta non opposizione da parte
dell’incolpevole, nei confronti della richiesta di delibazione
avanzata dall’altro coniuge, deve in ogni caso risultare da un
comportamento processuale inequivoco e non può ritenersi sufficiente
allo scopo il semplice silenzio dell’interessato o, ancor meno, la sua
contumacia nel corso del giudizio di merito.

Sentenza 04 febbraio 2005, n.2243

Nell’ambito del procedimento volto al conferimento dell’incarico di
insegnante di religione cattolica da parte dell’autorità scolatica,
l’autorità ecclesiastica conserva, pur dopo l’avvenuto iniziale
riconoscimento dell’idoneità, poteri autonomi di valutazione, in sede
di conferimento dell’incarico annuale, sulle specifiche modalità
attraverso le quali l’insegnamento della religione cattolica è
destinato a spiegarsi, posto che queste ultime possono nella realtà
fattuale risultare oggettivamente incompatibili con le istituzionali
finalità dell’insegnamento religioso. Nella ripartizione delle
competenze che voglia rispondere alla logica di fondo riscontrabile
nell’intero articolato normativo sull’insegnamento della religione
cattolica non può infatti che attribuirsi – pur in un contesto volto
ad evitare qualsiasi riflesso negativo sull’organizzazione didattica
della scuola pubblica nel perseguimento delle sue finalità –
all’ordinario diocesano autonomia di poteri, non limitati al
riconoscimento dell'”idoneità” all’atto della nomina degli
insegnanti, ma estesi anche alle specifiche modalità attraverso le
quali annualmente (ed ora a seguito di contratti a tempo determinato,
stipulati ex art. 3, comma 10, della l. n. 186 del 2003) detto
insegnamento deve essere spiegato. In questa ottica possono pertanto
reputarsi ammissibili condotte dell’autorità scolastica che si
concretizzino in una piena adesione alle indicazioni dell’ordinario
diocesano, volte a privilegiare – come è avvenuto nel caso di specie
– esigenze di “continuità didattica”, ovvero ad impedire che
specifiche modalità risultino ostative alla funzionalità
dell’insegnamento o ancora ad agevolare una opportuna mobilità del
personale in relazione ad una “flessibilità degli organici” in
connessione con la particolarità di un insegnamento caratterizzato da
un regime di “facoltatività soggettiva”.

Sentenza 07 aprile 2005, n.7207

In base alle modifiche apportate dalla legge 11 maggio 1990 n. 108
alla disciplina dei licenziamenti, il carattere imprenditoriale
dell’attività è una condizione sufficiente a prescindere dai
requisiti dimensionali, ma non necessaria ai fini dell’applicazione
dell’art. 18 dello Statuto dei Lavoratori. Correlativamente, ai sensi
di dette disposizioni, l’esclusione di tale carattere non giustifica
la non applicazione del suddetto art. 18 laddove contemporaneamente
non risulti allegato e provato che l’attività svolta dal datore di
lavoro senza fine di lucro rientri in una delle previsioni stabilite
dall’art. 4, comma 1, della citata legge n. 108/1990; quest’ultima
pone in particolare un’eccezione a tale applicabilità “nei confronti
dei datori di lavoro non imprenditori che svolgano senza fine di lucro
attività di natura politica, sindacale, culturale, di istruzione
ovvero di religione o di culto” (Nel caso di specie, si è escluso che
risultasse provato che l’attività svolta dalla Casa Internazionale
del Clero, destinata a fornire un alloggio ad ecclesiastici, residenti
o transitanti per Roma, potesse essere qualificata come “attività di
religione” oppure “attività di culto”)

Sentenza 02 settembre 2005, n.17710

Costituisce violazione del dovere di assistenza morale e materiale
sancito dall’art. 143, comma 2, c.c., oltre che del dovere di
collaborazione nell’interesse della famiglia, tale da giustificare la
pronuncia di addebito della separazione, la condotta del coniuge che
si traduca in fatti di violenza nei confronti dell’altro coniuge ed in
forme di persecuzione morale. In particolare, al fine
dell’addebitabilità della separazione, il comportamento di un
coniuge, rivolto ad imporre i propri particolari principi e la propria
particolare mentalità, può assumere rilevanza solo se si traduca in
violazione dei doveri discendenti dal matrimonio, o comunque sia
inconciliabile con i doveri medesimi, atteso che, in caso contrario, e
per quanto detti principi o mentalità siano criticabili, si resta
nell’ambito delle peculiarità caratteriali, le quali valgono a
spiegare le difficoltà del rapporto, ed eventualmente l’errore
originariamente commesso nella reciproca scelta, ma non integrano
situazioni d’imputabilità della crisi, nel senso previsto dall’art.
151, secondo comma, c.c. Ciò premesso, occorre sottolineare che il
dovere che entrambi i coniugi hanno di mantenere, istruire ed educare
la prole, sancito dall’art. 147 c.c., non impone obblighi soltanto nei
confronti dei figli, ancorché costoro siano ovviamente i primi
beneficiari del dovere stabilito dal legislatore a carico dei coniugi.
L’art. 144 stabilisce, infatti, l’obbligo per i coniugi di concordare
tra di loro l’indirizzo della vita familiare, sì che le scelte
educative e gli interventi diretti a risolvere i problemi dei figli
non possono che essere adottati d’intesa tra i coniugi. Un
atteggiamento unilaterale, sordo alle valutazioni ad alle richieste
dell’altro coniuge, a tratti violento ed eccessivamente rigido, può
tradursi, oltre che in una violazione degli obblighi del genitore nei
confronti dei figli, anche nella violazione dell’obbligo nei confronti
dell’altro coniuge di concordare l’indirizzo della vita familiare e,
in quanto fonte di angoscia e dolore per l’altro coniuge, nella
violazione del dovere di assistenza morale e materiale sancito
dall’art. 143 c.c. Ove tale condotta si protragga e persista nel
tempo, aprendo una frattura tra un coniuge e i figli ed obbligando
l’altro coniuge a schierarsi a difesa di costoro, essa può divenire
fonte d’intollerabilità della convivenza e rappresentare, in quanto
contraria ai doveri che derivano dal matrimonio sia nei confronti del
coniuge che dei figli in quanto tali, causa di addebito della
separazione ai sensi dell’art. 151, comma 2, c.c.

Sentenza 09 giugno 2005, n.12169

Il concetto di “carico”, di cui al testo unico sull’immigrazione,
sia nel diritto interno che in quello internazionale, integra il
collegamento esistente tra due soggetti, per il quale uno ha l’onere
del sostentamento dell’altro, che non sia in grado di provvedere al
proprio mantenimento. Conseguentemente, nessun riferimento specifico
ad altri concetti, come quello di potestà sui minori dei genitori,
esclusiva o concorrente, può avere rilievo per negare il diritto
dello straniero extracomunitario alla riunione ai figli minori, quando
al loro sostentamento provveda in via esclusiva, non contribuendovi
l’altro genitore (nel caso si specie, una cittadina marocchina,
dotata di regolare permesso di soggiorno, chiedeva il ricongiugimento
con i figli minori, nati da un precedente matrimonio in Marocco,
impugnando il provvedimento di diniego del visto di ingresso da parte
dell’Ambasciata Italiana, motivato in forza dell’avvenuto atto di
ripudio dell’istante da parte del primo marito).

Sentenza 07 giugno 2005, n.11793

La sentenza di divorzio, in relazione alle statuizioni di carattere
patrimoniale in essa contenute, passa in cosa giudicata “rebus sic
stantibus”; tuttavia, la sopravvenienza di fatti nuovi, successivi
alla sentenza di divorzio, non è di per sé idonea ad incidere
direttamente ed immediatamente sulle statuizioni di ordine economico
da essa recate e a determinarne automaticamente la modifica, essendo
al contrario necessario che i “giustificati motivi” sopravvenuti siano
esaminati, ai sensi dell’art. 9 della legge 1 dicembre 1970, n. 898, e
succ. modif., dal giudice da tale norma previsto, e che questi,
valutati detti fatti, rimodelli, in relazione alla nuova situazione,
ricorrendone le condizioni di legge, le precedenti statuizioni. Da
tanto consegue che l'”ex” coniuge tenuto, in forza della sentenza di
divorzio, alla somministrazione periodica dell’assegno divorzile, il
quale abbia ricevuto la notifica di atto di precetto con l’intimazione
di adempiere l’obbligo risultante dalla predetta sentenza, non può –
in assenza di revisione, ai sensi del citato art. 9 della legge n. 898
del 1970, delle disposizioni concernenti la misura dell’assegno di
divorzio da corrispondere all'”ex” coniuge – dedurre la sopravvenienza
del fatto nuovo, in ipotesi suscettibile di determinare la modifica
dell’originaria statuizione contenuta nella sentenza di divorzio, nel
giudizio di opposizione a precetto, essendo del pari da escludere che
il giudice di questa opposizione debba rimettere la causa al giudice
competente “ex” art. 9 della legge n. 898 del 1970.(Nella specie
l’obbligato, proponendo opposizione a precetto, aveva contestato il
diritto dell’ex coniuge a procedere ad esecuzione forzata sostenendo
che il diritto alla corresponsione periodica dell’assegno, al cui
pagamento egli era stato condannato con la sentenza di divorzio, era
venuto meno a seguito del passaggio in giudicato della sentenza della
corte d’appello che aveva dichiarato efficace in Italia la pronuncia
ecclesiastica di nullità del matrimonio concordatario celebrato tra i
coniugi)

Sentenza 05 dicembre 2001, n.3793

Nell’ipotesi di nascita per fecondazione naturale, la paternità viene
attribuita come conseguenza giuridica del concepimento; risulta
pertanto decisivo esclusivamente l’elemento biologico, senza che
nessuna rilevanza possa essere attribuita alla non volontà del
presunto padre. Una diversa interpretazione si porrebbe, infatti, in
contrasto con l’art. 30 della Costituzione, il quale risulta fondato
sul principio della responsabilità, che necessariamente accompagna
ogni comportamento potenzialmente procreativo. Inoltre, in relazione
all’art. 269 c.c., che attribuisce la paternità naturale in base al
mero dato biologico, senza alcun riguardo alla volontà contraria alla
procreazione del presunto padre, è manifestamente infondata la
questione di legittimità costituzionale, sollevata in riferimento
all’art. 3 Cost., in ragione della disparità di trattamento che ne
risulterebbe in danno dell’uomo rispetto alla donna (alla quale la
legge 22 maggio 1978 n. 194 attribuisce la responsabilità esclusiva
di interrompere la gravidanza ove ne ricorrano le condizioni
giustificative). Ciò in quanto le situazioni poste a confronto non
sono comparabili: l’interesse della donna alla interruzione della
gravidanza non può infatti essere assimilato all’interesse di chi,
rispetto alla avvenuta nascita del figlio fuori del matrimonio,
pretenda di sottrarsi, negando la propria volontà diretta alla
procreazione, alla responsabilità di genitore, in contrasto con la
tutela che la Costituzione, all’art. 30, riconosce alla filiazione
naturale.

Sentenza 26 febbraio 2002, n.9378

Le modifiche apportate al concordato tra lo Stato Italiano e la Santa
Sede (mediante l’accordo firmato il 18 febbraio 1984 e per effetto
della Legge 121/1985 di ratifica ed esecuzione) hanno soppresso ogni
ingerenza dello Stato nell’amministrazione dei beni appartenenti agli
enti ecclesiastici, per cui è venuta meno con effetto immediato la
disciplina del controllo dello Stato sugli atti eccedenti l’ordinaria
amministrazione dei patrimoni dei benefici (ora soppressi), ex
articolo 30 del concordato del 1929 ed ex articoli 12 e 13 14 legge 27
maggio 1929, n. 848 e 23 del Regio decreto 2 dicembre 1929, n. 2262.
La conseguenza di questa soppressione fa sì che anche la validità
dei contratti in corso deve essere accertata secondo le nuove
disposizioni. (Nella specie, la Suprema Corte, sulla base
dell’enunciato principio, ha ritenuto sussistente la piena efficacia
di un contratto preliminare di vendita immobiliare intercorso tra un
beneficio parrocchiale ed una società a seguito del venir meno della
necessità dell’autorizzazione dell’autorità tutoria “ex lege” n. 848
del 1929).

Sentenza 06 dicembre 2002, n.5458

La partecipazione al contratto di una Chiesa e di una Casa religiosa
(nella specie, Chiesa di Santa Maria Loreto e Casa religiosa di
Castellammare di Stabia), attraverso i relativi parroci, non è
premessa sufficiente a giustificare l’attribuzione degli effetti del
contratto alla corrispondente Provincia italiana di Istituto religioso
(nella specie, la Provincia napoletana dei Frati minori), considerato
non solo (facendo applicazione delle norme vigenti in materia di
soggettività giuridica degli enti ecclesiastici, dettate dalla legge
20 maggio 1985, n. 222) la mancanza della personalità giuridica nei
soggetti apparentemente stipulanti – la Chiesa e la Casa religiosa –
che costituiscono soltanto dei beni compresi nel patrimonio della
Provincia italiana di Istituto religioso, ma anche il potere, nella
persona fisica intervenuta alla stipulazione del contratto, di
impegnare la responsabilità di quest’ultimo ente spendendone il nome.