Osservatorio delle libertà ed istituzioni religiose

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Osservatorio delle Libertà ed Istituzioni Religiose

Sentenza 04 marzo 2005, n.4795

La sentenza di cessazione degli effetti civili del matrimonio passata
in giudicato non impedisce la successiva delibazione della sentenza
ecclesiastica di nullità del matrimonio, purchè le parti nel
giudizio di divorzio non abbiano introdotto esplicitamente questioni
concernenti l’esistenza e la validità del vincolo. La dichiarazione
di efficacia nell’ordinamento italiano della sentenza ecclesiastica
non travolge, in ogn caso, il capo della sentenza relativo
all’assegno di mantenimento.

Sentenza 10 marzo 2006, n.5220

Nei casi di mancata espulsione di immigrati, in cui venga in rilievo
lo stato coniugale dell’extracomunitario, deve escludersi che possa
darsi efficacia alle unioni non celebrate come matrimonio negli
ordinamenti di appartenenza; occorre, infatti che il divieto di
espulsione si applichi ad un rapporto che di fatto e di diritto possa
qualificarsi come coniugio. In particolare, tal rapporto, coinvolgendo
un cittadino extracomunitario, deve dunque trovare il suo
riconoscimento nell’ordinamento giuridico dello Stato di
appartenenza, così da poter esplicare i suoi effetti in coerenza con
le disposizioni della legge 218/1995 (Nel caso di specie, veniva
annullato il decreto di espulsione di un cittadino rumeno, coniugato
con il rito tradizionale Rom, senza verificare se nello stato estero
di appartenenza tale matrimonio avesse capacità di esplicare effetti
giuridici).

Sentenza 23 maggio 2006, n.12143

Ogni persona fisica può scegliere liberamente le modalità ed il
luogo della propria sepoltura, la legge consentendo espressamente che
tra le disposizioni testamentarie rientrino anche quelle a carattere
non patrimoniale (art. 587, secondo comma c.c.). La mancanza di una
simile disposizione, peraltro, non preclude l’accertamento circa
l’intervenuta manifestazione di volontà in ordine alle modalità e al
luogo della sepoltura, che può anche essere espressa senza rigore di
forme attraverso il conferimento di un mandato ai prossimi congiunti,
essendo rimesso al giudice del merito l’apprezzamento sulla esistenza
e sul contenuto di un simile mandato.

Sentenza 26 maggio 2006, n.12641

Nell’applicazione dell’art. 262 c.c. (Cognome del figlio),
l’organo giurisdizionale è chiamato a emettere un provvedimento
contrassegnato da ampio margine di discrezionalità e frutto di libero
(e prudente) apprezzamento, nell’ambito del quale rileva non tanto
l’interesse dei genitori quanto il modo più conveniente di
individuazione del minore, con riguardo allo sviluppo della sua
personalità, nel contesto delle relazioni sociali in cui si trovi a
essere inserito. Pertanto, il giudice chiamato a valutare
l’interesse del minore preventivamente riconosciuto dalla madre a
vedersi attribuito il patronimico a seguito del successivo
riconoscimento paterno, dovrà impedire il mutamento di cognome non
solo nei casi in cui la cattiva reputazione del genitore possa
comportare un pregiudizio al minore, ma anche nel caso in cui il
matronimico sia assurto ad autonomo segno distintivo della di lui
identità personale. Del resto, lo stesso co. 2 dell’art. 262 c.c.,
rimettendo al figlio maggiorenne la scelta di sostituire o aggiungere
al cognome materno quello del padre, dimostra di tenere in
considerazione l’interesse del figlio a conservare la propria
identità fino a quel momento consolidatasi.

Sentenza 12 luglio 2006, n.15760

Il danno da morte dei congiunti (c.d. danno parentale) come danno
morale interessa la lesione di due beni della vita inscindibilmente
collegati, cioè il bene della integrità familiare, con riferimento
alla vita quotidiana della vittima con i suoi familiari, in relazione
agli art. 2, 3, 29, 30, 31, 36 Cost.; ed il bene della solidarietà
familiare, sia in relazione alla vita matrimoniale che in relazione al
rapporto parentale tra genitori e figli e tra parenti prossimi
conviventi, in relazione agli art. 2, 3, 29 e 30 Cost. L’attuale
movimento per la estensione della tutela civile ai PACS (patti civili
di solidarietà ovvero stabili convivenze di fatto) conduce appunto
alla estensione della solidarietà umana a situazioni di vita in
comune, e dunque – prima o poi – anche i “nuovi parenti” vittime
di rimbalzo lamenteranno la perdita del proprio caro (Nel caso di
specie, il danno parentale interessava invece una societas
stabilizzata con vincolo matrimoniale e discendenza legittima).

Sentenza 31 gennaio 2006, n.6078

La Convenzione di Strasburgo non esclude la possibilità da parte dei
single di ottenere l’adozione internazionale di minori nell’interesse
di quest’ultimi posto che lascia liberi gli Stati sottoscrittori, tra
i quali l’Italia, di regolamentare come credono le domande di adozione
in tal senso. Il legislatore nazionale ben potrebbe, dunque,
provvedere ad ampliare l’ambito di ammissibilità dell’adozione di un
minore da parte di una singola persona, sempre che tale soluzione “sia
giudicata più conveniente all’interesse del minore” e fatta “salva la
previsione di un criterio di preferenza per l’adozione da parte della
coppia di coniugi, determinata dall’esigenza di assicurare al minore
stesso la presenza di entrambe le figure genitoriali e di inserirlo in
una famiglia che dia sufficienti garanzie di stabilità”.

Sentenza 18 marzo 2006, n.6078

La legislazione nazionale conosce l’adozione da parte del single:
trattasi dell’adozione “in casi particolari”, di cui all’art. 44 della
l. 184/1983 – che ha effetti limitati rispetto all’adozione
legittimante – o nelle speciali circostanze di cui all’art. 25, commi
4 e 5, della stessa legge. Solo in questi casi il legislatore
nazionale si è avvalso infatti della facoltà, rimessa agli stati
dall’art. 6 della Convenzione europea in materia di adozioni di
minori, firmata a Strasburgo il 24 aprile 1962 e ratificata
dall’Italia con la l. 357/1974, di prevedere l’adozione da parte di
persone singole. Al di fuori delle predette ipotesi, la citata norma
pattizia non consente ai giudici italiani di concedere l’adozione di
minori a persone singole. Al contrario, il principio fondamentale è
quello, scaturente dall’art. 6 della l. 184/1983, secondo il quale
l’adozione è permessa solo alla coppia di coniugi (uniti in
matrimonio da almeno tre anni) e non ai singoli componenti di questa:
principio applicabile – per effetto dell’art. 29-bis della stessa
legge introdotto dall’art. 3 della l. 476/1998 – anche alle adozioni
internazionali. Tuttavia, tali adozioni internazionali devono essere
ritenute ammissibili negli stessi casi in cui è ammessa l’adozione
nazionale legittimante o quella in casi particolari. Questa esegesi,
se induce alla conclusione della possibilità per il single di
procedere all’adozione internazionale nei casi particolari di cui
all’art. 44 cit., non può comunque certamente fondare il
riconoscimento di una generalizzata ammissibilità di tale adozione da
parte di persona singola: ammissibilità, esclusa in via generale,
come si è già precisato, nell’adozione nazionale, alla stregua del
diritto vigente. In ogni caso resta fermo che il legislatore
nazionale, tanto più in presenza della disposizione convenzionale
sopra menzionata (art. 6 della Convenzione di Strasburgo del 1967),
che a ciò lo facoltizza, ben potrebbe provvedere – nel concorso di
particolari circostanze, tipizzate dalla legge o rimesse di volta in
volta al prudente apprezzamento del giudice – ad un ampliamento
dell’ambito di ammissibilità dell’adozione di minore da parte di una
singola legittimante, ove tale soluzione sia giudicata più
conveniente all’interesse del minore, salva la previsione di un
criterio di preferenza per l’adozione da parte della coppia di
coniugi, determinata dalla esigenza di assicurare al minore stesso la
presenza di entrambe le figure genitoriali, e di inserirlo in una
famiglia che dia sufficienti garanzie di stabilità.

Sentenza 31 gennaio 2006, n.2166

La promozione di attività ricreative e sportive, essenzialmente
finalizzate a favorire l’aggregazione dei giovani presso le strutture
parrocchiali, costituisce un mezzo solo indiretto per la realizzazione
delle finalità pastorali, educative e caritative proprie della Chiesa
cattolica, svolgendosi in concreto con modalità non dissimili da
quelle connotanti le analoghe attività di altri soggetti, pubblici e
privati, operanti nel mondo dello sport e della ricreazione. Le
limitazioni, derivanti dal diritto comune, allo svolgimento di
siffatte attività ricreative devono pertanto ritenersi
intrinsecamente inidonee a dar luogo a quelle compressioni della
libertà religiosa e delle connesse alte finalità, che la norma
concordataria di cui all’art. 2 della Legge n. 121/85, in ottemperanza
al dettato costituzionale, ha inteso garantire, pur senza comportare
la rinuncia da parte dello Stato italiano alla tutela di beni
giuridici primari, anche garantiti dalla Costituzione (artt. 42 e 32),
quali il diritto di proprietà privata e quello alla salute (la cui
tutela anche rientra tra le esigenze perseguite dalla disciplina
dettata dall’art. 844 c.c.). Dalle suesposte considerazioni discende
che anche la Chiesa cattolica e le sue istituzioni locali, quando iure
privatorum utuntur, in quanto non diversamente disposto dalle leggi
speciali che li riguardano, sono tenuti, al pari degli altri soggetti
giuridici, all’osservanza delle norme di relazione e, dunque, alle
comuni limitazioni all’esercizio del diritto di proprietà, tra le
quali rientrano quelle di cui all’art. 844 c.c. (nel caso di specie è
stata ritenuta applicabile la disciplina dettata dall’art. 844 c.c.
alle immissioni sonore provocate dalle attività sportive praticate
nel campo giochi di una parrocchia).

Sentenza 07 dicembre 2005, n.27078

Non può essere ravvisato alcun ostacolo alla delibazione allorchè il
coniuge – che ignorava, o non poteva conoscere, il vizio del consenso
dell’altro – chieda la declaratoria di esecutività della sentenza
ecclesiastica, da parte della Corte d’Appello, ovvero non si opponga
alla stessa. Tale fattispecie, tuttavia, non ricorre laddove detto
coniuge si rimetta alla decisione della Corte in ordine alla
delibazione, deducendo tuttavia nel contempo di avere contratto
matrimonio ignorando la volontà dell’altro di escludere
l’indissolubilità del vincolo. In questa ipotesi, infatti, risulta
assunto un comportamento processuale incompatibile con la volontà di
rinunciare alla tutela dell’affidamento incolpevole prestata
dall’ordinamento giuridico italiano. Pertanto, pur non formulano
espressamente conclusioni contrarie alla delibazione, può
considerarsi sufficiente – ai fini dell’opposizione alla stessa –
l’avere eccepito nella comparsa di risposta il difetto delle
condizioni che avrebbero consentito di fare valere nel nostro
ordinamento il vizio connesso alla riserva mentale.

Sentenza 20 ottobre 2005, n.20320

In tema di responsabilità, del medico per omessa diagnosi di
malformazioni del feto e conseguente nascita indesiderata, il
risarcimento dei danni che costituiscono conseguenza immediata e
diretta dell’inadempimento del ginecologo alla obbligazione di natura
contrattuale gravante su di lui, spetta non solo alla madre, ma anche
al padre. Ciò deriva infatti dal complesso di diritti e doveri che,
secondo l’ordinamento, si incentrano sul fatto della procreazione, non
rilevando, in contrario, che sia consentito solo alla madre – e non al
padre – la scelta in ordine all’interruzione della gravidanza,
poichè, sottratta alla madre la possibilità di scegliere a causa
dell’inesatta prestazione del medico, gli effetti negativi del
comportamento di quest’ultimo si riflettono anche sul padre del
concepito. Oltre alla madre, dunque, anche il padre deve perciò
ritenersi tra i soggetti “protetti” dal contratto medico e, quindi,
tra coloro rispetto ai quali la prestazione mancata o inesatta può
qualificarsi come inadempimento, con tutte le relative conseguenze sul
piano risarcitorio.