Osservatorio delle libertà ed istituzioni religiose

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Osservatorio delle Libertà ed Istituzioni Religiose

Sentenza 18 giugno 2018, n.16031/18

La Corte di Cassazione ha chiarito che l’essere
un’organizzazione non lucrativa di utilità sociale
(Onlus) non dimostra necessariamente la natura non imprenditoriale
dell’organizzazione; infatti, laddove l’organizzazione di
tendenza eserciti un’attività strutturata a modo di
impresa, alla stregua dei parametri fissati dall'art. 2082 c.c.,
essa finisce per non essere dissimile da qualunque altro datore di
lavoro, così che un trattamento privilegiato, di esclusione
dell’operatività della tutela reale per i lavoratori in
caso di licenziamento, non sarebbe giustificabile. 

Sentenza 22 febbraio 2016, n.3416

Secondo la giurisprudenza della Corte adita la proporzionalità
della sanzione disciplinare è nozione che, al pari di altre
rinvenibili nell'ordinamento positivo, la legge – allo scopo di
adeguare le norme alla realtà da disciplinare, articolata e
mutevole nel tempo – configura con disposizioni, ascrivibili alla
tipologia delle cosiddette clausole generali, di limitato contenuto e
delineanti un modulo generico che richiede di essere specificato in
sede interpretativa, mediante la valorizzazione sia di fattori esterni
relativi alla coscienza generale, sia di principi che la stessa
disposizione tacitamente richiama. Nel caso in esame, è
certamente conforme a diritto (art. 2106 c.c.) la considerazione,
operata dal giudice di merito, dell'elemento psicologico del
lavoratore, poichè nella valutazione complessiva della
proporzionalità tra l'infrazione (assenza nella giornata di
turno domenicale) e la sanzione irrogata (mancata retribuzione,
sospensione dal lavoro e multa) rientra non solo
l'illiceità in senso oggettivo della condotta, non
più in discussione, ma anche l'intensità o – come
nella specie – la tenuità dell'elemento psicologico del
lavoratore. In questo senso, nel caso di specie, la Corte di merito ha
valorizzato un certo grado di affidamento indotto dal comportamento
aziendale, che aveva portato il lavoratore a ritenere che sarebbe
stato mantenuto un atteggiamento di tolleranza riguardo alla mancata
prestazione del lavoro domenicale. Ha altresì valorizzato
l'offerta della prestazione lavorativa nel giorno di riposo
settimanale, condotta che, seppure priva di valore scriminante,
esprime un atteggiamento collaborativo manifestato dall'impiegato
per compensare l'assenza. Infine, è stato valorizzato dai
giudici di appello, seppure con sintetica motivazione, il contesto
complessivo della vicenda in cui l'infrazione si collocava:
esisteva una iniziativa sindacale in corso e una richiesta individuale
di non assegnazione a turni domenicali per motivi religiosi (esercizio
del diritto di culto), circostanze di cui la società/datrice di
lavoro era a piena conoscenza e che portarono nel periodo
immediatamente successivo alla soppressione del turno domenicale.

Sentenza 19 agosto 2011, n.17399

Una comunità religiosa può svolgere, accanto all’attività
principale di religione o di culto, anche altra attività, meramente
accessoria, ma non sporadica od occasionale di tipo alberghiero,
richiedente pertanto l’impiego di personale per esigenze e necessità
organizzative tipiche di tale tipologie di strutture. 
Questa ipotesi si verifica in particolare laddove essa, oltre ad
offrire – in via principale – stabile permanenza ai soggetti
appartenenti alla comunità, consenta anche – in via accessoria –
temporaneo soggiorno ad ospiti laici e religiosi estranei alla
comunità tenuti per l’accoglienza al pagamento di un corrispettivo.
Il fine spirituale o comunque altruistico perseguito dall’ente
religioso non pregiudica, infatti, l’attribuzione del carattere
dell’imprenditorialità dei servizi resi, ove la prestazione sia
oggettivamente organizzata in modo che essa sia resa previo compenso
adeguato al costo del servizio, dato che il requisito dello scopo di
lucro assume rilievo meramente oggettivo ed è quindi collegato alle
modalità dello svolgimento dell’attività (Cass. 31 marzo 2009, n.
7770; Cass. 12 ottobre 1995, n. 10636; Cass. 19 dicembre 1990, n.
12390).
Pertanto, deve essere qualificata come commerciale un’attività di
gestione di una struttura alberghiera da parte di ente assistenziale,
sia pure svolta in modo da non eccedere i costì relativi alla
produzione del servizio, dal momento che, ai fini della valutazione
del carattere imprenditoriale di un’attività economica, organizzata
per la produzione o lo scambio di beni o servizi, rimangono
giuridicamente irrilevanti sia il perseguimento di uno scopo di lucro
– che riguarda il movente soggettivo che induce l’imprenditore ad
esercitare la sua attività (Cass. 29 febbraio 2008; Cass. 34 giugno
1994, n. 5766; Cass. 23 aprile 2004, n. 7725) – sia il fatto che i
proventi della attività siano poi destinati alle iniziative connesse
con gli scopi istituzionali dell’ente (Cass. 17 febbraio 2010, n.
3733). Nelle suddette ipotesi, infatti, il carattere imprenditoriale
dell’attività “collaterale” va escluso soltanto nel caso in cui essa
sia svolta in modo del tutto gratuito, dato che non può essere
considerata imprenditoriale l’erogazione gratuita dei beni o servizi
prodotti (Cass. 14 giugno 1994, n. 5766; Cass. 23 aprile 2004, n.
7725).Di qui, nel caso di specie, posto che le mansioni svolte dal
ricorrente riguardavano precipuamente esigenze proprie della suddetta
attività accessoria (attività di portierato), l’inapplicabilità del
c.c.n.l. per i lavoratori domestici, e la conseguente parametrazione
della retribuzione secondo il c.c.n.l. per i dipendenti delle aziende
alberghiere.

Sentenza 04 novembre 1995, n.11515

Il quadro complessivo dell’ordinamento giuridico non consente di
ritenere che l’autonomia privata nei rapporti di massa sia soggetta al
vincolo della parità di trattamento.

Nell’ordinamento giuridico non sussiste un principio inderogabile di
parità di trattamento dei lavoratori dalla cui violazione discenda la
nullità del trattamento differenziato a parità di lavoro, sostituito
di diritto dal trattamento migliore, nè dagli art. 1175 e 1375 c.c.
può desumersi un obbligo contrattuale di praticare il trattamento
più vantaggioso a tutti i lavoratori che si trovino in una situazione
omologa a quella di coloro che fruiscono di una condizione di maggior
favore, semprechè la disparità di trattamento non scaturisca da una
delle ragioni di discriminazione specificamente vietate dalla legge.
Pertanto dall’insieme dei suddetti divieti specifici di
discriminazione emerge un principio generale secondo il quale non è
consentito riservare a taluni lavoratori trattamenti
ingiustificatamente non conformi ai complessivi assetti organizzativi
adottati dall’imprenditore per la gestione dei rapporti di lavoro
nell’azienda, sicchè, riflettendosi tali scelte gestionali in senso
modificativo sul contenuto del singolo contratto individuale di
lavoro, non può escludersi che quest’ultimo, interpretato secondo il
canone di buona fede alla stregua delle modifiche conseguenti alle
scelte gestionali anzidette, attribuisca al singolo lavoratore il
diritto di pretendere il trattamento più vantaggioso.

Non è possibile, nell’attuale ordinamento, configurare nei confronti
dei contratti collettivi un principio di parità di trattamento o di
ragionevolezza. (Nel caso di specie è stata giudicata legittima la
clausola del contratto collettivo per i dipendenti delle Ferrovie
dello Stato che riconosce come festiva soltanto per i lavoratori del
comune di Roma la giornata del 29 giugno).

Sentenza 21 settembre 2006, n.20442

Fermo restando che caposaldo fondamentale dell’attività economica
è l’organizzazione, da parte di taluno – con rischio proprio – dei
fattori della produzione, nel caso delle organizzazioni di tendenza,
dove l’assenza della finalità di lucro ha un significato
evidentemente rafforzativo dell’esclusione d’imprenditorialità,
essendo quest’ultimo elemento di per sé connaturale alla “area di
non applicazione” dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori,
il dato dirimente per l’ammissione al beneficio di legge consiste
nel fatto che, dal punto di vista lavorativo, l’attività – per come
prestata ed, a vario titolo, respinta dal datore di lavoro che intenda
avvalersi del beneficio d’esclusione – deve innestarsi e realizzare
direttamente le finalità politiche, sindacali, culturali,
d’istruzione, di religione o culto; in tali casi, infatti,
l’attività del lavoratore si compenetra ed attua immediatamente i
fini dell’ente, senza il diaframma operativo neutrale costituito
dall’intrinseca valenza meramente aziendalistica della prestazione.
Si può in ogni caso riconoscere l’esistenza di un’attività
imprenditoriale, estranea all’area di attuazione dell’articolo 4,
della legge n. 108/1990, in base al solo criterio della mera
economicità di gestione, funzionalmente diretta all’equilibrio tra
costi e ricavi, senza la necessità di includere il fine di lucro, che
giustifica l’esclusione dell’applicazione dell’articolo 18, nel
momento in cui non si evidenzia una consistenza imprenditoriale
all’attività esercitata (Nel caso di specie, una società editrice
eccepiva la violazione e l’errata applicazione dell’articolo 4 della
legge 108/1990, negando di poter essere considerata, ai fini della
procedura di reintegrazione prevista dall’articolo 18 dello Statuto
dei lavoratori, imprenditore, ma ente senza fini di lucro con “unica
e primaria finalità di affermare la dottrina e il credo
cattolici”).

Sentenza 08 febbraio 2006, n.2757

Sussiste il diritto al ricongiunzione presso un’unica gestione di
tutti i periodi di contribuzione obbligatoria versata al Fondo di
previdenza per il clero dai sacerdoti secolari ed all’INPS dai
sacerdoti successivamente ridotti allo stato laicale, attesa la
riconducibilita’ dei sacerdoti e dei ministri di culto nell’ampia
categoria dei lavoratori dipendenti e autonomi esercenti libere
professioni, indipendentemente dallo svolgimento, o meno, delle
relative modalita’ lavorative all’interno dell’ordinamento canonico,
alla stregua del carattere obbligatorio dell’iscrizione al Fondo di
previdenza per il clero (art. 5, primo comma, legge n. 903 del 1973) e
di un’interpretazione adeguatrice dell’art. 2 della legge n. 29 del
1979. Tale disposizione, in mancanza di un’espressa esclusione del
sistema previdenzia le di cui alla legge n. 903 del 1973, non e’
interpretabile in senso restrittivo, in modo da ritenere che i
sacerdoti secolari e i ministri di culto non cattolici non siano
ricompresi tra i destinatari del beneficio della ricongiunzione dei
periodi relativi al versamento di contributi al fondo di previdenza
per il clero, atteso che una diversa opzione interpretativa
comporterebbe dubbi di lgittimita’ costituzionale in relazione
all’art. 3 Cost. (Principio affermato dalla S.C. con riferimento a
dipendente della Camera dei Deputati gia’ iscritto, quale sacerdote
secolare, allo speciale fondo di previdenza per il clero).

Sentenza 29 gennaio 2002, n.6799

Poiché l’indennizzo ai soggetti danneggiati da vaccinazioni
obbligatorie, trasfusioni ed emoderivati, di cui alla legge n. 210 del
1992, ha natura non risarcitoria, ma assistenziale in senso lato, la
quale può essere ricondotta agli art. 2 e 32 Cost. e alle prestazioni
poste a carico dello Stato in ragione del dovere di solidarietà
sociale, le controversie che hanno ad oggetto la spettanza di tale
indennità (e dei suoi accessori, quali gli interessi), rientrano in
quelle previste dall’art. 442 c.p.c. Inoltre risulta essere
manifestamente infondata, in riferimento all’art. 3 cost., la
questione di legittimità dell’art. 2 della legge n. 210 del 1992,
nella parte in cui, a differenza di quanto stabilito per i soggetti
danneggiati da vaccinazioni obbligatorie, non prevede il diritto del
soggetto danneggiato a seguito di trasfusione a percepire l’indennizzo
sin dal momento di entrata in vigore della legge medesima, in quanto
la situazione di coloro che hanno riportato lesioni o infermità a
causa di vaccinazioni obbligatorie è diversa da quella di chi abbia
riportato danni a causa della somministrazione di sangue o di suoi
derivati e la diversità dell’evento dannoso può ben giustificare la
diversità dell’indennizzo accordato.

Sentenza 22 ottobre 2002, n.18218

In materia di licenziamento del lavoratore subordinato,
l’applicabilità della disciplina prevista per le cc.dd.
“organizzazioni di tendenza” dall’art. 4 legge 11 maggio 1990 n. 108,
che esclude l’operatività della tutela reale stabilita dall’art. 18
l. 20 maggio 1970 n. 300, richiede l’accertamento, in via preliminare,
da parte del giudice, che il datore di lavoro non sia un imprenditore,
in base all’art. 2082 c.c., e, quindi, che non sussista una struttura
imprenditoriale e, soltanto qualora detto accertamento abbia esito
negativo, occorre verificare la ricorrenza degli ulteriori requisiti
tipici di siffatte organizzazioni. (Nella specie, la S.C. ha
confermato la sentenza di merito, che aveva escluso la qualificazione
come organizzazione di tendenza dell’Istituto di addestramento
lavoratori – coordinamento regionale del Piemonte, per l’assorbente
rilievo che esso operava avvalendosi di una organizzazione e di una
struttura di carattere imprenditoriale). Quindi, al fine di
configurare un’organizzazione di tendenza, che, ai sensi dell’art. 4
l. 108/90, è esclusa dall’ambito di operatività della tutela reale
prevista – in caso di licenziamenti illegittimi – dall’art. 18 l.
300/70 (come modificato dall’art. 1 l. 108/90), è necessario che si
tratti di datore di lavoro non imprenditore, privo dei requisiti
previsti dall’art. 2082 c.c. (e cioè professionalità,
organizzazione, natura economica dell’attività).

Sentenza 24 febbraio 2003, n.2803

L’insegnamento della religione cattolica nelle scuole statali è
consentito esclusivamente agli insegnanti riconosciuti idonei
dall’autorità ecclesiastica, nominati dall’autorità scolastica
d’intesa con essa (art. 9, comma 2, dell’Accordo di revisione del
Concordato lateranense, ratificato con legge n. 121 del 1985, e punto
5 del protocollo addizionale), con incarico annuale, che si intende
confermato qualora permangano le condizioni ed i requisiti prescritti;
nel regime contrattuale, di diritto privato, del relativo rapporto di
lavoro (d.lg. n. 165 del 2001), la sopravvenuta revoca dell’idoneità
all’insegnamento comporta l’impossibilità giuridica della prestazione
e la conseguente risoluzione del rapporto di lavoro ex art. 1463 c.c.,
in quanto, in considerazione del particolare “status” di questi
insegnanti – reclutati secondo un sistema sottratto alla disciplina
dell’art. 35, d.lg. n. 165 del 2001 – ad essi non possono essere
attribuiti compiti diversi da quello dell’insegnamento della
religione. Pertanto, la risoluzione del rapporto di lavoro determinata
dalla revoca da parte dell’autorità ecclesiastica dell’idoneità
all’insegnamento della religione non configura un caso di
licenziamento, neppure se tale revoca sia stata disposta in quanto
l’insegnante è nubile ed in stato di gravidanza, e, conseguentemente,
a detta fattispecie non è applicabile l’art. 2, legge n. 1204 del
1971, in tema di tutela delle lavoratrici madri.
Risulta, inoltre, manifestamente infondata la questione di
legittimità costituzionale – sollevata in riferimento agli art. 3, 4,
7, 35 e 97 cost. – degli art. 5, comma 1, e 6, legge n. 824 del 1930,
della legge n. 121 del 1985, laddove dà esecuzione all’art. 9, numero
2, dell’Accordo di revisione del Concordato lateranense, e dell’art.
309, comma 2, d.lg. n. 297 del 1994, nella parte in cui, prevedendo
che la nomina degli insegnanti di religione deve essere effettuata in
favore di coloro che siano riconosciuti idonei dall’autorità
ecclesiastica, designati d’intesa con essa dall’autorità scolastica,
con incarico annuale, che si intende confermato qualora permangano le
condizioni ed i requisiti prescritti, fanno sì che la sopravvenuta
revoca dell’idoneità all’insegnamento determini l’impossibilità
giuridica della prestazione e la risoluzione del rapporto di lavoro ex
art. 1463 c.c., integrando in tal modo una fattispecie non
riconducibile al licenziamento, neppure qualora detta revoca sia
disposta per essere l’insegnante nubile ed in stato di gravidanza, con
conseguente inapplicabilità dell’art. 2, legge n. 1204 del 1971, in
tema di tutela delle lavoratrici madri.