Osservatorio delle libertà ed istituzioni religiose

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Osservatorio delle Libertà ed Istituzioni Religiose

Sentenza 18 aprile 2005, n.168

Venuto meno con la modifica del Concordato lateranense il principio
secondo cui la religione cattolica è la sola religione dello Stato,
il più grave trattamento sanzionatorio riservato alle offese alla
religione cattolica determina una «inammissibile discriminazione»
nei confronti delle altre confessioni religiose, in violazione degli
artt. 3, primo comma, e 8, primo comma, della Costituzione, che
sanciscono, rispettivamente, i principî dell’eguaglianza di tutti i
cittadini davanti alla legge senza distinzione di religione e
dell’eguale libertà di tutte le religioni davanti alla legge.

Sentenza 18 giugno 2002, n.154

Tribunale costituzionale. Sentenza n. 154 del 18 luglio 2002. El Pleno del Tribunal Constitucional, compuesto por don Manuel Jiménez de Parga y Cabrera, Presidente, don Tomás S. Vives Antón, don Pablo García Manzano, don Pablo Cachón Villar, don Vicente Conde Martín de Hijas, don Guillermo Jiménez Sánchez, doña María Emilia Casas Baamonde, don Javier Delgado […]

Sentenza 26 giugno 2002, n.282

La pratica terapeutica si pone all’incrocio fra due diritti
fondamentali della persona malata: quello ad essere curato
efficacemente, secondo i canoni della scienza e dell’arte medica, e
quello ad essere rispettato come persona, nella propria integrità
fisica e psichica; in particolare, tale diritto – secondo quanto
previsto dall’art. 32, comma 2, secondo periodo, Cost. – si pone
come limite invalicabile anche ai trattamenti sanitari che possono
essere imposti per legge – come obbligatori – a tutela della salute
pubblica. Inoltre, salvo che entrino in gioco altri diritti o doveri
costituzionali, non è – di norma – il legislatore a poter stabilire
direttamente quali siano i trattamenti terapeutici ammessi, con quali
limiti e a quali condizioni, posto che la pratica dell’arte medica
si fonda su acquisizioni scientifiche e sperimentali, che sono in
continua evoluzione; la regola di fondo in questa materia é pertanto
costituita dalla autonomia e dalla responsabilità del medico che –
sempre con il consenso del paziente – opera le scelte professionali
basandosi sullo stato delle conoscenze a disposizione. Ciò non
significa che al legislatore sia senz’altro preclusa ogni
possibilità di intervento; tuttavia, un eventuale provvedimento,
concernente il merito delle scelte terapeutiche, in relazione alla
loro appropriatezza, non può nascere da valutazioni di pura
discrezionalità politica dello stesso legislatore, ma deve bensì
originarsi dall’elaborazione di indirizzi fondati sulla verifica
dello stato delle conoscenze scientifiche e delle evidenze
sperimentali, acquisite tramite istituzioni e organismi, di norma
nazionali o sovranazionali, a ciò deputati. (Nel caso di specie,
l’intervento regionale contestato dal Governo non si fondava su
specifiche acquisizioni tecnico-scientifiche, verificate da parte
degli organismi competenti, ma si presentava come una scelta
legislativa autonoma, avente scopo cautelativo in attesa di futuri
accertamenti compiuti dall’autorità sanitaria nazionale).

Sentenza 16 dicembre 2004, n.427

E’ infondata la censura secondo cui la l’art. 80, comma 6, della
legge n. 289 del 2002 violerebbe la competenza delle Regioni nella
materia residuale delle politiche sociali, considerato che la
disposizione di legge in esame disciplina la gestione dei beni
immobili (demaniali o patrimoniali) non utilizzati o utilizzabili
dallo Stato, consentendone un utilizzo sociale, e che tale
disposizione costituisce una manifestazione del potere dominicale
dello Stato di disporre dei propri beni, non soggetta – come tale –
ai limiti della ripartizione delle competenze secondo le materie. La
competenza delle Regioni al riguardo non può pertanto incidere sulle
facoltà che spettano allo Stato in quanto proprietario; queste
infatti precedono logicamente la ripartizione delle competenze ed
ineriscono alla capacità giuridica dell’ente secondo i principi
dell’ordinamento civile. Parimenti infondato è l’assunto secondo cui
lo Stato, fino alla attuazione dell’art. 119, ultimo comma, della
Costituzione, come novellato dalla legge costituzionale 18 ottobre
2001, n. 3 (Modifiche al titolo V della parte seconda della
Costituzione), non potrebbe disporre dei propri beni demaniali o
patrimoniali, posto che sino alla previsione da parte del legislatore
statale dei principi per la attribuzione a Regioni ed enti locali di
beni demaniali o patrimoniali dello Stato, detti beni restano a tutti
gli effetti nella piena proprietà e disponibilità dello Stato (e per
esso dell’Agenzia del demanio), il quale incontrerà, nella gestione
degli stessi, il solo vincolo delle leggi di contabilità e delle
altre leggi disciplinanti il patrimonio mobiliare ed immobiliare
statale.

Sentenza 17 febbraio 1993, n.174

Le disposizioni del decreto del Ministero dell’educazione e cultura
n. 333 del 1986 non comportano innovazioni fondamentali nei riguardi
delle norme del decreto-lei n. 323 del 1983, già dichiarate non
contrarie alla costituzione con la pronunzia n. 423 del 1987, e
pertanto non possono essere dichiarate incostituzionali dal punto di
vista formale, non eccedendo i limiti della potestà regolamentare
attribuita al governo e non invadendo la sfera di competenza
legislativa riservata al parlamento in materia di principi
costituzionali di uguaglianza e di laicità. Le disposizioni del
medesimo decreto non sono in contrasto, neppure dal punto di vista
sostanziale, con i principi costituzionali di libertà religiosa, di
separazione tra chiesa e stato, di non confessionalità
dell’insegnamento pubblico e di uguaglianza, perché nell’epoca
contemporanea la libertà religiosa non è da intendere solo in senso
negativo, venendo ad assumere anche un significato positivo, e cioè
quello di un potere cui vanno garantiti i mezzi per realizzare in
concreto i fini che ne costituiscono l’oggetto. Tale prospettazione
consente di precisare che i principi costituzionali della separazione
tra chiesa e stato e di non confessionalità dell’insegnamento
pubblico non comportano una assoluta separatezza tra le due
istituzioni, così da ostacolare una loro collaborazione finalizzata a
soddisfare le esigenze positive della libertà religiosa. Il principio
di uguaglianza, a sua volta, non impedisce di corrispondere in modo
proporzionato alle esigenze delle varie confessioni, purché le
differenze di trattamento non siano arbitrarie e concretamente
infondate o manifestamente irragionevoli. Alla luce di tali
considerazioni, non è contrario al principio di separazione e a
quello di non confessionalità inserire un insegnamento facoltativo
della religione tra le materie curriculari della scuola primaria, o
prevedere azioni di formazione dei titolari del suddetto insegnamento
presso le istituzioni pubbliche di istruzione superiore, se tale
insegnamento e tali azioni, pur svolgendosi nelle strutture pubbliche
e con il sussidio dello stato, si configurano come iniziative promosse
e gestite sotto la responsabilità della confessione. Del resto lo
stato ha il dovere di offrire alla chiesa cattolica queste
possibilità e, soprattutto, di cooperare (art. 67, n. 2, linea C,
Cost.) con i genitori cattolici nella educazione dei loro figli. In
particolare, non è contrario ai principi di separazione e di non
confessionalità la previsione che nella stessa persona
dell’insegnante di classe della scuola primaria si cumuli la doppia
rappresentanza della chiesa cattolica, in quanto docente della
disciplina di religione e morale cattolica, e dello stato, in quanto
docente delle altre discipline, perché nella qualità di docente
della disciplina di religione e morale cattolica egli non opera come
emanazione dello stato ma come emanazione della chiesa; per altro, il
timore reverenziale che potrebbe essere provocato nei genitori dalla
circostanza dell’insegnante di classe investito di entrambe le
qualifiche, inducendoli a scegliere per i figli la disciplina di
religione e morale cattolica, non attinge al nucleo essenziale della
libertà religiosa, che comporta sempre, in questo come in altri casi,
la necessità di “rischiare” per affermare la sovranità della persona
sulla sovranità dello stato. Non è in contrasto con il principio di
libertà religiosa l’affidamento degli alunni non frequentanti la
disciplina di religione e morale cattolica impartita dall’insegnante
di classe ad altri insegnanti di classe o ad altri soggetti incaricati
della loro educazione; nel caso di specie non è possibile una
acritica trasposizione del principio accolto dalla Corte
costituzionale italiana, secondo cui gli alunni che decidono di non
frequentare l’insegnamento della religione cattolica debbono godere,
in tutta la sua estensione, di uno “stato di non obbligo”: gli alunni
della scuola primaria non hanno, per la loro tenera età, la maturità
sufficiente per potere usufruire di uno “stato di non obbligo” e
pertanto sono costituzionalmente legittime le norme che stabiliscono
forme alternative obbligatorie di impegno educativo per gli alunni di
tale ordine di scuole; può anzi aggiungersi che la previsione e
organizzazione di “attività alternative”, costituisce un requisito
indispensabile di garanzia della libertà religiosa, al fine di
evitare che la loro mancanza rappresenti un elemento capace di
influire sulla decisione dei genitori di avvalersi o no per i loro
figli ell’insegnamento di religione e morale cattolica. Le
disposizioni oggetto del presente giudizio non possono essere
sottoposte al vaglio della Corte riguardo ad un preteso contrasto con
il principio di uguaglianza, a motivo del fatto che esse disciplinano
soltanto l’insegnamento di religione e morale cattolica nelle scuole
primarie e non regolamentano anche l’insegnamento confessionale non
cattolico nelle stesse scuole, perché la censura
d’incostituzionalità per omissione deve proporsi con uno strumento
processuale, di tipo diverso da quello utilizzato in questo giudizio,
previsto autonomamente dall’art. 283 Cost. Le disposizioni del
decreto del Ministero dell’educazione e cultura n. 831 del 1987 non
sono incostituzionali dal punto di vista formale, in quanto si
limitano ad “attualizzare” le norme precedenti relative
all’insegnamento di religione e morale cattolica impartito nelle
scuole di magistero primario e in quelle destinate a preparare e
formare i docenti delle scuole primarie, dopo la elevazione di questi
istituti al livello dell’insegnamento superiore e pertanto non
innovano in materia costituzionalmente riservata alla competenza
legislativa dell’Assemblea repubblicana. Le medesime disposizioni
non presentano profili di incostituzionalità sostanziale sulla base
degli stessi motivi per cui tali profili sono stati esclusi
nell’esame delle disposizioni del decreto n. 333 del 1986, rispetto
alle quali presentano un carattere meramente strumentale.

Sentenza 26 settembre 1998, n.347

Corte Costituzionale. Sentenza 26 settembre 1998, n. 347: “L’azione di disconoscimento della paternità non è preclusa dal consenso prestato dal marito all’inseminazione eterologa della moglie”. REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO LA CORTE COSTITUZIONALE composta dai signori: – Dott. Renato GRANATA Presidente – Prof. Giuliano VASSALLI Giudice – Prof. Francesco GUIZZI ” – Prof. […]

Sentenza 17 luglio 1998, n.268

E’ illegittimo l’art. 8, della legge 10 marzo 1955, n. 96,
concernente “Provvidenze a favore dei perseguitati politici
antifascisti o razziali e dei loro familiari superstiti” – nel testo
sostituito prima dall’art. 4, della legge 8 novembre 1956, n. 1317 e
poi dall’art. 4, della legge 22 dicembre 1980, n. 932 – nella parte in
cui non prevede che, della commissione istituita per esaminare le
domande per conseguire i benefici che la stessa legge prevede, faccia
parte anche un rappresentante dell’Unione delle Comunità ebraiche
italiane; detta disposizione, infatti, contrasta con l’art. 3 della
Costituzione laddove non prevede, così determinando una
ingiustificata disparità di trattamento, che della commissione in
questione faccia parte anche un esponente della Comunità ebraica,
perché concorra ad esprimere per i perseguitati razziali –
analogamente a quanto avviene per i perseguitati politici con la
partecipazione di rappresentanti della loro Associazione – le
complesse valutazioni richieste dalla stessa legge per il
riconoscimento della condizione di perseguitato e per la concessione
dei relativi benefici.

Sentenza 26 gennaio 2005, n.33

Sono infondate le questioni di legittimità costituzionale sollevate
in relazione all’art. 1, commi 4, 9 e 10, della legge 10 marzo 2000,
n. 62, recante “Norme per la parità scolastica e disposizioni sul
diritto allo studio e all’istruzione”. Occorre premettere, al
riguardo, che il ricorso in esame è stato proposto nella vigenza del
vecchio Titolo V, sicché deve escludersi – sul punto – la
rilevanza, nel giudizio in questione, delle modifiche introdotte dalla
legge costituzionale n. 3 del 2001. In particolare, la legge n. 62 del
2000 non ha tra le sue finalità di intervenire sul sistema di riparto
di attribuzioni tra Stato e Regioni, ma unicamente quella di delineare
il sistema nazionale di istruzione; essa costituisce, quindi,
esercizio della potestà legislativa statale nella materia in esame.
In questa prospettiva, ed essendo all’epoca dei fatti de quibus solo
iniziato il processo di trasferimento alle Regioni di competenze in
materia di istruzione, non vi era alcuna necessità di concertare con
esse i requisiti per il riconoscimento della parità. Inoltre, come la
Suprema Corte ha più volte chiarito, non è individuabile un
fondamento costituzionale dell’obbligo di adottare procedure
legislative ispirate alla leale collaborazione tra Stato e Regioni.
Infondate sono, del pari, le questioni concernenti l’art. 1, commi 9
e 10, della legge n. 62 del 2000. La norma censurata, infatti, non
dispone direttamente la ripartizione del finanziamento straordinario,
ma demanda la concreta ripartizione ad un successivo decreto del
Presidente del Consiglio dei ministri. La mancata previsione di una
consultazione della Conferenza permanente non precludeva quindi, e non
ha impedito, nella specie, la possibilità che operassero le
disposizioni che, in via generale, prevedono i casi nei quali la
Conferenza deve essere consultata. Deve ritenersi inoltre infondato il
profilo secondo il quale l’art. 1, commi 9 e 10 sarebbe censurabile,
in quanto contenente disposizioni di dettaglio in materia di
assistenza scolastica. La legge n. 62 del 2000, infatti, nel prevedere
l’istituzione delle scuole paritarie – quali componenti del sistema
nazionale di istruzione – ha dettato un principio, valido per tutte le
scuole inserite in detto sistema, volto a rendere effettivo il diritto
allo studio anche per gli alunni iscritti alle scuole paritarie; nel
far ciò, tale legge ha previsto un finanziamento straordinario,
aggiuntivo rispetto agli ordinari stanziamenti, in favore delle
Regioni e delle Province autonome, finalizzato al sostegno della spesa
sostenuta e documentata dalle famiglie per l’istruzione. Le
modalità di detto finanziamento – straordinario e strettamente
indirizzato ad estendere il sostegno anche agli alunni iscritti alle
scuole paritarie – consentono dunque di escludere la denunciata
lesione delle attribuzioni regionali.

Ordinanza 13 dicembre 2004, n.389

Posto che gli artt. 159 e 190 del decreto legislativo 16 aprile 1994,
n. 297 si limitano a disporre l’obbligo a carico dei Comuni di fornire
gli arredi scolastici, non sussiste fra tali disposizioni legislative
e quelle regolamentari richiamate dal remittente quel rapporto di
integrazione e specificazione che avrebbe consentito, secondo il
remittente stesso, l’impugnazione delle disposizioni legislative
“come specificate” dalle norme regolamentari. L’impugnazione delle
disposizioni del testo unico si appalesa, dunque, come il frutto di un
improprio trasferimento su disposizioni di rango legislativo di una
questione di legittimità concernente norme regolamentari che, prive
di forza di legge, non possono costituire oggetto di un sindacato di
legittimità costituzionale.

Sentenza 06 dicembre 2004, n.378

Il ruolo delle Regioni di rappresentanza generale degli interessi
delle rispettive collettività, riconosciuto dalla giurisprudenza
costituzionale e dalla prevalente dottrina, è rilevante ai fini
dell’esistenza, accanto ai contenuti necessari degli statuti
regionali, di altri possibili contenuti, sia che risultino ricognitivi
delle funzioni e dei compiti della Regione, sia che indichino aree di
prioritario intervento politico o legislativo, i quali talora si
esprimono attraverso proclamazioni di finalità da perseguire. A tali
enunciazioni, anche se materialmente inserite in un atto-fonte, non
può essere riconosciuta alcuna efficacia giuridica, collocandosi esse
precipuamente sul piano dei convincimenti espressivi delle diverse
sensibilità politiche presenti nella comunità regionale al momento
dell’approvazione dello statuto. Nella fattispecie in esame, una
enunciazione siffatta si rinviene nell’art. 9, comma 2, ove si
afferma che la Regione “tutela altresì forme di convivenza”; tale
disposizione non comporta alcuna violazione, né alcuna rivendicazione
di competenze costituzionalmente attribuite allo Stato, né fonda
esercizio di poteri regionali. Deve pertanto dichiarasi inammissibile,
per inidoneità lesiva della disposizione impugnata, la censura
avverso la denunciata proposizione della deliberazione statutaria.
Sono invece fondate le censure di illegittimità costituzionale
relative all’ art. 66, commi 1, 2 e 3, considerato che, sebbene le
scelte in tema di incompatibilità fra incarico di componente della
Giunta regionale e di consigliere regionale possono essere originate
da opzioni statutarie in tema di forma di governo della Regione,
tuttavia – come la Corte ha già affermato in relazione ad altra
delibera statutaria regionale nella sentenza n. 2 del 2004 – occorre
rilevare che il riconoscimento, contenuto nell’articolo 123 della
Costituzione del potere statutario in tema di forma di governo
regionale, è accompagnato dalla previsione dell’articolo 122 della
Costituzione, e che quindi la disciplina dei particolari oggetti cui
si riferisce l’articolo 122 sfugge alle determinazioni lasciate
all’autonomia statutaria.