Osservatorio delle libertà ed istituzioni religiose

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Osservatorio delle Libertà ed Istituzioni Religiose

Documenti • 1 Febbraio 2004

Sentenza 05 novembre 2003, n.16626

Cassazione – Sezione Lavoro
Sentenza 5 novembre 2003
16626/2003

SEZ. Lavoro SENT. n 16626 DEL 5 novembre 2003 – PRES. Ciciretti S. REL. Filadoro C. PM. Matera M (Diff.) – RIC. Spessi RES. Congregazione Suore di carità

Sentenza.
Presidente Presidente S. Ciciretti – Relatore C. Filadoro
Svolgimento del processo
Con ricorso al Pretore di Milano, L. S. chiedeva la condanna della Congregazione Suore di carità e V. G. al pagamento di un compenso aggiuntivo per ogni giornata di lavoro effettuata dopo sei giorni consecutivi di lavoro (anche se con successivo riposo compensativo), da liquidarsi in via equitativa, ma comunque in misura non inferiore ad 1/26mo della retribuzione globale mensile, da aggiungersi alla retribuzione già percepita.
La domanda del ricorrente non riguardava la maggiorazione per lavoro festivo, in effetti già percepita, ma il risarcimento del danno da usura psico-fisica per il mancato riposo nella settimana, recuperato dal lavoratore nella settimana successiva nonché la ulteriore richiesta, formulata questa in via subordinata, del riconoscimento di una maggiorazione del 15% o del 25% per lavoro straordinario prestato, rispettivamente, entro le 48 ore o dopo le 48 ore settimanali.
La domanda principale proposta dallo S. era accolta dal primo giudice.
La decisione del Pretore era riformata dalla Corte d’Appello di Milano, che rigettava tutte le domande proposte dal lavoratore.
I giudici di appello ricordavano che nel caso di specie non si discuteva affatto della retribuzione della giornata lavorata in più, né della maggiorazione per lavoro festivo (regolarmente pagate dalla datrice di lavoro), ma solo del risarcimento del danno derivante dall’usura psico-fisica subita dalla S. per effetto dello spostamento della giornata settimanale di riposo nell’ambito della settimana immediatamente successiva.
Tale usura – nonostante una certa giurisprudenza richiamata dalla Corte territoriale – non poteva mai dirsi presunta, dovendo invece essere dimostrata secondo le regole generali del risarcimento del danno e della prova.
L’usura psico-fisica, per poter costituire oggetto di danno risarcibile, deve innanzi tutto esistere e deve essere provata: ciò anche nel caso di lavoro prestato nel settimo giorno, non rinvenendosi alla disciplina generale della risarcibilità del danno e della prova.
Naturalmente, proseguivano i giudici di appello, in questa come in qualsiasi altra ipotesi, è possibile ricorrere a qualsiasi mezzo previsto dalla legge, comprese le presunzioni, relative ed il fatto notorio, come può farsi ricorso a qualsiasi altro mezzo di prova per dimostrare il contrario.
In questa prospettiva, assume certo significato che l’ordinamento, almeno in via di principio generale, preveda il riposo settimanale ogni sette giorni. Neppure può escludersi che posticipare abitualmente tale cadenza settimanale possa, a lungo andare – ma a volte anche nel medio e addirittura nel breve termine – usurare il corpo e la mente del lavoratore.
Tale situazione, tuttavia, non si verifica quando, come appunto nel caso di specie, il differimento avvenga solo per poche volte in un lungo arco di tempo e spesso su richiesta dello stesso lavoratore, per far fronte a proprie personali esigenze.
La tesi dell’usura presunta, in altre parole, non era idonea a far comprendere tutti i risvolti del problema nella sua complessità. Secondo la Corte d’Appello, nella soluzione di esso non poteva non tenersi conto di tutti gli aspetti del caso.
Lo S. lavorava presso la casa di cura della Congregazione, in qualità di addetto a lavori di semplice custodia, con mansioni che non richiedevano, per loro natura, un rilevante impegno psico-fisico, tanto da essere, in linea generale, escluse da limitazioni di orario giornaliero e settimanale nella disciplina della legge e della contrattazione interconfederale.
Tra l’altro, lo S. aveva sempre recuperato il lavoro svolto nel settimo giorno della settimana nella settimana successiva, o al massimo, e su sua richiesta, nell’arco del mese.
In questo caso, non poteva parlarsi di prestazione in usura e neppure di notorie
Da ultimo, i giudici di appello riferivano – come circostanza marginale – che lo S. aveva espressamente rifiutato l’estensione di un accordo aziendale del 2000, che, con riferimento ad altre categorie di lavoratori dipendenti, aveva regolato gli aspetti economici del lavoro prestato nel settimo giorno tino al 1999 (il ricorso introduttivo dello S. risaliva invece al novembre 1998).
Avverso tale decisione lo S. ha proposto ricorso per cassazione sorretto da tre motivi, illustrati da memoria.
La Congregazione resiste con controricorso.
Motivi della decisione
Con il primo motivo, il ricorrente denuncia violazione degli articoli 36, terzo comma, della Costituzione, 2109, primo comma, codice civile, insufficiente e contraddittoria motivazione circa un punto decisivo della controversia (in relazione all’art. 360 nn.3 e 5 codice di procedura civile).
I giudici di appello si sarebbero discostati senza motivazione dal consolidato insegnamento di questa Corte secondo il quale il lavoro prestato nel settimo giorno consecutivo dà diritto oltre che alla normale retribuzione (maggiorata se trattasi di lavoro domenicale) anche al risarcimento del danno derivante dall’usura psico-fisica che deve ritenersi presunto.
In tal modo, tuttavia, la Corte d’Appello avrebbe violato alcuni principi fondamentali, stabiliti dalla Carta Costituzionale e dal codice civile: prima di ogni altro, quello del diritto irrinunciabile del lavoratore al riposo settimanale.
Erroneamente i giudici di appello avrebbero ritenuto compensabile la maggiore gravosità della prestazione lavorativa effettuata nel settimo giorno con il riposo sostitutivo effettuato nella settimana successiva.
Anche le considerazioni svolte nella sentenza impugnata a proposito della presunzione de danno da usura si adatterebbero, secondo il ricorrente, piuttosto al danno biologico i o come lesione della integrità psicofisica e non potrebbero essere utilizzate per risolvere il caso di specie.
La Corte d’Appello non avrebbe neppure preso in considerazione quell’indirizzo giurisprudenziale che riconosce comunque il diritto del lavoratore ad un compenso ulteriore ed aggiuntivo a quello destinato a retribuire il lavoro prestato nella giornata di domenica, nel caso di differimento del riposo settimanale nell’ambito della settimana successiva.
In ogni caso, una volta deciso di discostarsi dal consolidato orientamento giurisprudenziale di questa Corte, i giudici di appello avrebbero dovuto – quanto meno -differenziare l’ipotesi del differimento lecito del riposo (perché consentito da norme di legge o contrattuali) e differimento illecito: posto che in questo caso, la presunzione in favore del lavoratore appare ancor più fondata ed insuperabile, non potendo il comportamento illecito in questione restare senza conseguenze di sorta. Il contratto collettivo nazionale di categoria, quelle delle case di cura private, applicabile al caso di specie, ribadisce il diritto di tutti i lavoratori al riposo settimanale e non contiene alcuna deroga alla regola del riposo settimanale dopo sei giorni consecutivi di lavoro.
Con il secondo motivo, il ricorrente formula analoghe censure di violazione di legge e di vizio di motivazione, richiamando le medesime disposizioni indicate nel primo mezzo.
In particolare, 1o S. denuncia l’errore di diritto consistito nell’aver ritenuto che l’inadempimento in questione possa produrre il pregiudizio di un diritto fondamentale della persona, ma che il pregiudizio sia risarcibile solo nel caso di sua dimostrazione da parte del lavoratore.
I giudici di appello avevano preteso di esaminare le prove in punto di usura psico-fisica, omettendo la considerazione di alcuni elementi essenziali, quali la contrattazione collettiva di settore. Di contro, gli stessi giudici avevano poi attinto ad elementi del tutto irrilevanti, quali la legge e la contrattazione interconfederale, giungendo così a conclusioni immotivate, che trasformavano il diritto del dipendente al riposo settimanale, salvo deroghe, nel diritto dei datore di lavoro alla deroga, salvo eccezioni.
La sentenza impugnata aveva apoditticamente affermato la natura discontinua delle mansioni e la conseguente insistenza di vincoli all’orario di lavoro, in considerazione dell’assenza di un impegno psico-fisico di un qualche rilievo nel lavoro affidato allo S., definito, contro il vero, di semplice attesa e custodia.
In tal modo, tuttavia, i giudici di appello avevano finito per trascurare completamente il dato risultante dalla contrattazione collettiva, che fissa per tutte le figure professionali -quindi anche per il lavoro del portiere (al quale, tra l’altro, non può essere comparata la nuova figura del centralinista receptionist) – le limitazioni dell’orario settimanale e l’indifferibilità del riposo settimanale.
La circostanza che il contratto collettivo non avesse ritenuto di dover prevedere deroghe al principio generale del riposo dopo sei giorni consecutivi di lavoro non era stata presa nella dovuta considerazione dalla Corte territoriale, che aveva finito in qualche modo per capovolgere il dettato normativo, trasformando in principio generale la differibilità del riposo, la quale poi troverebbe un limite solo in presenza di specifiche circostanze da provarsi da parte del lavoratore.
Con il terzo motivo, il ricorrente denuncia nuovamente omessa motivazione, sotto altro profilo, della sentenza impugnata, circa un punto decisivo della controversia, in relazione all’art. 360 n. 5 codice di procedura civile.
Una volta negato il risarcimento del danno, la sentenza impugnata aveva poi affermato che ogni altra questione doveva considerarsi assorbita.
Tale considerazione doveva considerarsi evidentemente erronea, perché il ricorrente aveva proposto, seppure in via subordinata, una domanda di pagamento per le ore di lavoro prestate nel settimo giorno consecutivo della maggiorazione per il lavoro supplementare e straordinario, indicata nel contratto, rispettivamente, nella misura del 15% e del 20%.
Poiché il ricorrente aveva di fatto lavorato tutti i giorni della settimana per sei ore consecutive, doveva considerarsi come lavoro supplementare solo quello prestato oltre le 36 settimanali, e straordinario invece quello svolto oltre le 48.
Le norme richiamate dalla Corte, ad avviso del ricorrente, sarebbero addirittura state abrogate dalla legge successiva (art. 2107 codice civile) e comunque dovrebbero ritenersi oramai illegittime, derivando il loro fondamento dall’art. 6 del regolamento 10 settembre 1923 n.1955 cioè da un atto non avente forza di legge, in contrasto con la riserva di legge in punto di durata massima della prestazione, stabilita dall’art. 36 della Costituzione.
Il carattere discontinuo della prestazione resa dallo S. avrebbe dovuto, pertanto, essere verificata concretamente in sede giudiziale, con onere probatorio a carico del datore di lavoro, che, viceversa, non aveva neppure offerto di assolverlo.
I tre motivi, da esaminare congiuntamente in quanto connessi tra di loro, non sono fondati. E’ bene premettere che le norme indicate nella rubrica del primo mezzo di gravame sanciscono il diritto del lavoratore al riposo settimanale, la cui applicazione non è stata messa in alcun modo in discussione dalla decisione impugnata.
La Corte territoriale ha affermato un principio di carattere generale, senza necessità di invocare o applicare l’indiscusso principio della irrinunciabilità del riposo settimanale, contenuto nella norma codicistica e nella Carta Costituzionale.
I giudici di appello hanno affrontato la questione sottoposta al loro esame dichiarando espressamente di non condividere l’orientamento che ritiene l’usura psico-fisica “in re ipsa” in ogni caso di lavoro prestato nel settimo giorno.
La sentenza d’appello dedica la sua motivazione alla dimostrazione della propria tesi, secondo la quale “l’usura psico-fisica, per costituire oggetto di danno risarcibile, deve esistere. Conseguentemente, essa va provata da chi la fa valere anche nel caso di lavoro effettuato nel settimo giorno, non essendovi, appunto, in materia deroghe alla disciplina generale della risarcibilità del danno e della prova”.
Le conclusioni cui è pervenuta la Corte d’Appello sono, ad avviso del Collegio, interamente da condividere, ed anticipano le linee tracciate dalla sentenza di questa Corte n. 9009 del 3 luglio 2001.
Del resto, nel caso, in tutto simile a quello esaminato in questa sede, del risarcimento del danno da demansionamento, questa Corte ha già avuto occasione di affermare il seguente principio: “il prestatore di lavoro che chieda la condanna del datore di lavoro al risarcimento del danno (anche nella sua eventuale componente di danno alla vita di relazione e di danno biologico) subito a causa della lesione del proprio diritto di eseguire la prestazione lavorativa in base alla qualifica professionale rivestita, lesione idonea a determinare una dequalificazione del dipendente stesso, deve fornire la prova dell’esistenza di tale danno, la quale costituisce presupposto indispensabile per una sua valutazione equitativa. Tale danno non si pone infatti quale conseguenza automatica di ogni comportamento illegittimo rientrante nella sopra indicata categoria, onde non è sufficiente dimostrare la mera potenzialità lesiva della condotta datoriale, facendo carico al lavoratore che denunzi il danno subito, fornirne la prova in base alla regola generale di cui all’art. 2697 codice civile” (Cass. 11 agosto 1998 n. 7905, cfr. anche Cass. n. 8835 del 1991 per un caso di dirigente lasciato per lungo tempo inattivo).
Sia per quanto il danno alla professionalità sia per quello biologico, il lavoratore ha l’onere di provare l’esistenza e l’entità del danno, nonché del nesso di causalità con l’inadempimento del datore di lavoro, dimostrazione senza la quale non è possibile procedere ad una valutazione equitativa, posto che la mera potenzialità lesiva della condotta del datore di lavoro non è sufficiente, richiedendosi invece sempre la prova del danno (Cass, 4 giugno 2003 n. 8904; cfr. Cass. n. 6992 del 2002, 1026 del 1997, 3686 del 1996).
La giurisprudenza di questa Corte, ora richiamata, pur riconoscendo la potenzialità dannosa della violazione dell’art. 2103 codice civile, richiede che l’eventuale danno venga opportunamente provato nei singoli casi concreti.
In altre parole, la violazione di un dovere non equivale a danno, che non può essere dedotto automaticamente dalla violazione del dovere.
Secondo i principi generali (art. 2697 e 1223 codice civile) occorre l’individuazione di un effetto della violazione su di un determinato bene perché poi possa procedersi alla liquidazione del danno (eventualmente anche in via equitativa). La stessa Corte Costituzionale ha del resto chiarito (Cass. n. 372 del 1994) che il danno biologico non è presunto, perché se è indiscutibile che la prova della lesione costituisce anche prova dell’esistenza del danno, occorre tuttavia la prova ulteriore dell’esistenza dell’entità del danno, ossia la dimostrazione che la lesione ha prodotto una perdita di tipo analogo a quello indicato dall’art. 1223 codice civile, costituita dalla diminuzione o privazione di un valore personale (non patrimoniale) alla quale il risarcimento deve essere commisurato.
Un analogo ragionamento – ampio e del tutto immune da vizi logici – ha svolto la sentenza impugnata, la quale, pur riconoscendo la potenzialità dannosa del lavoro svolto nel settimo giorno, richiede al lavoratore di provare, anche nell’ an, il danno da usura psicofisica, per violazione dell’art. 36, comma terzo, della Costituzione e 2109 codice civile.
Analoghe considerazioni, con riferimento al divieto di protrazione del lavoro per più di sei giorni consecutivi, sono contenute nella decisione di questa Corte già richiamata (3 luglio 2001 n. 9009), secondo la quale “il pregiudizio di un diritto inviolabile della personalità deve essere da colui che lo invoca allegato e provato (sia pure con ampio ricorso alle presunzioni, allorché non si versi nell’ambito del pregiudizio della salute in senso stretto, in relazione al quale l’alterazione fisica o psichica è oggettivamente accertabile), nei suoi caratteri naturalistici (incidenza su di una concreta attività, pur non reddituale, e non mero patema d’animo interiore) e nel nesso di causalità dalla violazione dei diritti patrimoniali di cui all’art. 36 Costituzione” (cfr. Cass. 2004 del 1996).
Solo una volta accertato, secondo le regole generali, il danno-evento, cioè il pregiudizio del diritto fondamentale (nel caso di specie, l’usura psico-fisica derivata dal lavoro nel settimo giorno) sarà poi possibile procedere alla valutazione del danno-conseguenza, cioè dell’entità del sacrificio sofferto, eventualmente con una liquidazione equitativa di esso.
In alcune decisioni riguardanti altri tipi di inadempimento del datore di lavoro, assunti come incidenti sulla salute del lavoratore, si è richiesto, in applicazione dell’art. 2697 codice civile, che il cosiddetto danno biologico, o comunque la lesione di altro diritto fondamentale della persona, venga provato nella sua esistenza e nel nesso di causalità con l’inadempimento, poiché esso non si pone come conseguenza automatica di ogni comportamento illegittimo del datore di lavoro (Cass. 143 del 2000 con riguardo a molestie sessuali sul luogo di lavoro, 1307 del 2000 con riguardo alla lesione dell’integrità psico-fisica derivante dalla mancata fruizione di ferie).
Sulla base delle considerazioni già svolte, i giudici di appello hanno sottolineato che sicuramente è circostanza di un notevole significato che, in via generale, l’ordinamento preveda il riposo settimanale ed hanno dato per scontato che il posticipare tale riposo possa anche a breve termine usurare il corpo e la mente del lavoratore.
Ciò tuttavia non deve darsi sempre per scontato. Perché può anche non esservi alcuna usura se la posticipazione avvenga per poche volte in un considerevole arco di tempo.
Cosi come può anche non esservi alcun pregiudizio se vi è recupero in tempi brevi, tanto più se si tratta di un lavoro che non dispiace, con impegno fisico non eccessivo, e se il differimento avviene non per imposizione unilaterale del datore di lavoro, ma con il proprio consenso (nel caso di specie la resistente ha precisato che molti dei rari differimenti del riposo furono attuati su specifica richiesta dello S. in occasione del “cambio turno” in modo da poter raggruppare i riposi compensativi con quelli settimanali).
Nello stesso senso la sentenza di questa Corte (n. 9009 del 2001) ha sottolineato che il consenso del lavoratore a rendere la prestazione nel giorno di riposo – seppur non rilevante per ridurre l’ambito dell’inadempimento del datore di lavoro (stante l’indisponibilità del diritto al riposo) – può nondimeno offrire elementi indiziari per la verifica della sussistenza in concreto della lesione, anche, di un diritto di natura non patrimoniale.
Sfugge a qualsiasi censura la conclusione cui sono pervenuti i giudici di appello, secondo i quali, nel quadro delle specifiche mansioni svolte dallo S. non si poteva porre alcuna presunzione di usura o di notorietà dell’usura.
Tali osservazioni appaiono del tutto logiche e ampiamente motivate.
La Corte d’Appello ha infatti ricordato che lo S. svolgeva un semplice lavoro di attesa, implicante impegno fisico assai modesto, tanto da essere – almeno in linea generale escluso dalle limitazioni d’orario giornaliero e settimanale nella regolamentazione data dalle leggi e dalla contrattazione collettiva anche a livello interconfederale –
La stessa Corte non ha mancato di sottolineare che il ricorrente aveva comunque e sempre recuperato nella settimana successiva il lavoro svolto nel settimo giorno, svolto con il suo consenso ed a volte proprio su sua specifica richiesta.
Con accertamento che sfugge a qualsiasi censura, perché esente da vizi logici ed errori giuridici, i giudici di appello hanno concluso che nel caso di specie le presunzioni – che devono essere gravi, precise e concordanti – ed il fatto notorio non potevano in alcun modo provare l’usura derivante dal lavoro del settimo giorno.
Il ricorso deve pertanto essere rigettato, ribadendosi il seguente principio: “nel caso di lavoro prestato oltre il sesto giorno consecutivo, con riposo compensativo ricadente nella settimana successiva, ove il lavoratore richieda, in relazione alle indicate modalità della prestazione (oltre al compenso per lavoro festivo nel caso di prestazione coincidente con la giornata di domenica) anche il risarcimento del danno non patrimoniale, per usura psicofisica, ovvero per la lesione del diritto alla salute o del diritto alla libera esplicazione delle attività realizzatrici della persona umana, è tenuto ad allegare e provare il pregiudizio del suo diritto fondamentale, nei suoi caratteri naturalistici e nella sua dipendenza causale, dalla violazione dei diritti patrimoniali di cui all’art. 36 Costituzione, potendo assumere adeguata rilevanza, nell’ambito specifico di detta prova (che può essere data in qualsiasi modo, quindi anche attraverso presunzioni relative ed il fatto notorio), il consenso dello stesso lavoratore a rendere la prestazione nel giorno di riposo ed anzi la sua richiesta di prestare attività lavorativa proprio in tale giorno”.
Per quanto riguarda le censure formulate nel terzo motivo di ricorso, è sufficiente rilevare che la contrattazione collettiva, segnalata dalla resistente, prevede espressamente la possibilità di compensare il lavoro straordinario con un riposo compensativo: quindi senza maggiorazioni o compensi economici aggiuntivi.
Nel caso di specie costituisce circostanza incontestata tra le parti che lo S. abbia sempre goduto di riposo compensativo nella settimana successiva a quella del mancato riposo settimanale.
Non è stato dimostrato, pertanto, il diritto del ricorrente ad un compenso (economico) ulteriore, sulla base della contrattazione collettiva applicabile.
Rimane assorbita l’ulteriore argomentazione, formulata dalla controricorrente, circa il mancato assolvimento, da parte dello S., dell’onere di provare l’effettivo superamento del limite settimanale di lavoro ordinario: ad avviso della Congregazione il concreto svolgimento di lavoro straordinario non potrebbe ritenersi solo per il fatto di aver prestato attività lavorativa per più di sei giorni, dovendo invece essere dimostrato concretamente, settimana per settimana, in funzione di una settimana di calendario ordinario.
Correttamente, pertanto, i giudici di appello hanno ritenuto assorbita ogni altra questione proposta dalle parti.
Conclusivamente il ricorso deve essere rigettato.
Sussistono giusti motivi per disporre la compensazione delle spese di questo giudizio.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso. Compensa le spese del giudizio.