Osservatorio delle libertà ed istituzioni religiose

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Osservatorio delle Libertà ed Istituzioni Religiose

Documenti • 2 Dicembre 2003

Sentenza 16 novembre 1999, n.12671

Cassazione. Prima Sezione Civile. Sentenza 16 novembre 1999, n. 12671.

(Rocchi; Salme)

Motivi della decisione

1) Con il primo motivo, deducendo la violazione della legge 25 marzo 1985, n. 121 in relazione all’art. 797 n. 6 c,p.c.., la ricorrente sostiene che, superata la riserva di giurisdizione ecclesiastica per le cause di nullità dei matrimoni concordatari con l’Accordo fra Stato e Chiesa dei 18 febbraio 1984, il Cittadino ha la possibilità di agire davanti al giudice italiano per fare accertare la validità o per far valere la nullità del matrimonio celebrato davanti al ministro di culto cattolico. Anzi, trattandosi di incidere solo sugli effetti civili, il giudice italiano sarebbe l’unico ad essere munito di giurisdizione in materia. Comunque il criterio della prevenzione, in base al quale deve essere risolto l’eventuale conflitto tra la giurisdizione ecclesiastica e quella statale, non dovrebbe essere inteso nel senso indicato dall’art. 39 c.p,c., che riguarda i rapporti tra cause aventi il medesimo oggetto pendenti davanti a giudici italiani, ma in quello previsto dall’art. 797 n. 6 c.p.c., espressamente richiamato dalla legge n. 121/85., con la conseguenza che non potrebbe essere attribuita efficacia in Italia alle sentenze ecclesiastiche passate in giudicato dopo l’instaurazione davanti al giudice italiano di un giudizio avente lo stesso oggetto. Nella specie la sentenza ecclesiastica era divenuta esecutiva il 20 maggio 1993, mentre il giudizio civile davanti al tribunale di Pisa era iniziato con atto di citazione notificato il 28 marzo 1992.

Con il secondo mezzo, deducendo l’omessa o, comunque, insufficiente motivazione su un punto decisivo della controversia, la ricorrente censura la sentenza impugnata per avere apoditticamente escluso la litispendenza tra il giudizio di delibazione della sentenza ecclesiastica e il giudizio pendente davanti al tribunale di Pisa per l’accertamento della validità dei matrimonio tra le parti, per la diversità di oggetto dei due giudizi, senza spiegare le ragioni in base alle quali è pervenuta a tali conclusioni. In realtà, afferma la ricorrente, avendo chiesto al giudice italiano di accertare la validità dei matrimonio in quanto il Banti non aveva commesso alcun orrore di persona ed essa aveva prestato un valido consenso e non aveva escluso la possibilità di avere figli, i motivi posti a base della domanda (nella sostanza di accertamento negativo) proposta davanti al tribunale di Pisa erano assolutamente identici, anche se speculari, rispetto ai motivi di impugnazione dei matrimonio fatti valere davanti al giudice ecclesiastico.

2) In esito all’esame congiunto di entrambi i motivi, che prospettano questioni connesse, la Corte ritiene che il ricorso sia fondato.

Come è noto, con sentenza 13 febbraio 1993, n. 1824 le Sezioni unite hanno affermato che, con l’Accordo di revisione dei concordato dei 1984 è stata superata la riserva di giurisdizione sulle cause di nullità dei matrimoni concordatari a favore dei tribunali ecclesiastici, prevista dall’art. 34 del Concordato del 1929, per la principale e assorbente ragione che l’art. 13 del predetto Accordo ha disposto l’abrogazione delle precedenti norme concordatarie non riprodotte nel nuovo testo e in tale testo non c’è più alcuna disposizione che sancisca il carattere esclusivo della giurisdizione ecclesiastica in materia matrimoniale.

L’affermazione delle Sezioni unite, relativa alla abrogazione della riserva di giurisdizione ecclesiastica, ribadita in successive decisioni di questa Sezione (v. sentenza n. 3345 dei 1997) e fondata su una pluralità di ragioni alle quali per economia espositiva si rinvia, deve essere condivisa. Tali ragioni, peraltro, non possono ritenersi superate dalla successiva sentenza della Corte costituzionale n. 421 del 1993, che ha dichiarato inammissibile, a seguito dell’Accordo dei 1984, la questione di legittimità costituzionale dell’art. 1 l. 27 maggio 1929, n. 8 10, nella parte in cui da esecuzione all’art. 34, 4° comma, del concordato tra la Santa Sede e lo stato italiano deill’11 febbraio 1929, in riferimento all’art. 7, 1° comma, cost.

La sentenza, proprio perché ha ad oggetto la dichiarazione d’inammissibilità della questione sollevata, ha evidentemente effetti vincolanti solo per il giudice remittente. Del resto, le argomentazioni esposte obiter in detta decisione si fondano su una ricostruzione degli elementi essenziali del sistema concordatario che ha il proprio “fondamento in considerazione di principio non ancorate a meri riferimenti testuali”, e, pertanto, non possono avere neppure una più limitata efficacia persuasiva nella soluzione della questione, fondamentale, ma pur sempre, specifica, del rapporto tra le due giurisdizioni sulle cause matrimoniali che deve essere risolta sulla base di una rigorosa interpretazione dei nuovo testo normativo, valutato dai giudice delle leggi solo nel suo impianto generale.

Non può essere condivisa, quindi, la tesi del controricorrente, secondo cui, anche dopo gli Accordi del 1984, la giurisdizione sulle domande di nullità dei matrimoni concordatari spetta in via esclusiva al giudice ecclesiastico, Come, del pari, non fondata appare l’affermazione della ricorrente, secondo cui la presente controversia avrebbe ad oggetto gli effetti civili dei matrimonio, con la conseguenza che la giurisdizione sulla stessa spetterebbe al giudice italiano, essendo palese che la questione della validità del matrimonio attiene al momento genetico dei rapporto matrimoniale, e cioè al matrimonio come atto, non al matrimonio come rapporto.

3) Dal venir meno della riserva di giurisdizione ecclesiastica sulle cause di nullità dei matrimoni concordatari consegue il sorgere del concorso della giurisdizione italiana e della giurisdizione ecclesiastica, che, come hanno atfermato le Sezioni unite, deve essere risolto “mediante il criterio della prevenzione, come queste Sezioni unite hanno già ritenuto … nel l’ipotesi… avente diverso oggetto, di controversia sulla quantificazione della remunerazione spettante ai sacerdoti che svolgono servizio nelle diocesi (sentenza n. 8870/90).”

La questione centrale, posta con il primo motivo di ricorso, verte proprio sulla individuazione dell’esatta portata della prevenzione, come criterio regolatore del concorso di giurisdizioni, Infatti, la sentenza impugnata ha ritenuto che la prevenzione debba essere intesa come rapporto tra il momento in cui si determina la pendenza dei giudizio ecclesiastico e quello in cui ha inizio il giudizio civile, nei termini cioè dell’art. 39 c.p.c., mentre la ricorrente sostiene che debba farsi riferimento alla regola dettata dall’art. 797 n. 6 c.p.c., richiamato dall’art. 8, n. 2 lettera c) dell’Accordo.

La questione sarebbe facilmente risolta se fosse da condividere quella dottrina che ha ritenuto di poter affermare che la sentenza delle Sezioni unite n. 1824 del 1993, osservando – al fine di confutare la tesi secondo la quale dall’art. 8, n. 2 lettera a) dell’Accordo, che impone al giudice della delibazione di controllare che il giudice ecclesiastico era il giudice competente, si dovrebbe trarre la conclusione che la competenza spetta sin dall’inizio a un solo giudice, – che la norma invocata è diretta a disciplinare i poteri del giudice della delibazione nei confronti di una sentenza già emanata dal tribunale ecclesiastico, il quale, per ciò, in base al criterio della prevenzione mediante il quale il concorso delle giurisdizioni va risolto, rimane, una volta preventivamente adito, il giudice esclusivamente competente… ” avrebbe. inteso attribuire rilievo non al momento dell’instaurazione del giudizio canonico, ma al passaggio in giudicato della sentenza ecclesiastica. In realtà è difficile negare che invece le Sezioni unite hanno inteso riferirsi alla nozione di prevenzione, come rapporto tra i momenti in cui si determina la pendenza della lite, sia perché la questione di giurisdizione, che formava lo specifico oggetto dei giudizio, come risulta dal dispositivo, è stata risolta a favore dei giudice preventivamente adito, sia perché anche nella formulazione sopra integralmente riportata si finisce per ribadire che la competenza esclusiva spetta al giudice preventivamente adito.

La tesi delle Sezioni unite, tuttavia, come ha rilevato tutta la dottrina che si è occupata dei tema, non è convincente.

Il principale argomento è costituito dalla constatazione che il criterio della prevenzione, nel senso di cui all’art. 39 c.p.c., è idoneo a risolvere il concorso tra giudici interni egualmente competenti, ma non anche il concorso tra giurisdizione interna e giurisdizione straniera (alla quale, per l’espressa affermazione contenuta nell’art. 8, n. 2 lettera c) dell’Accordo, deve essere equiparata la giurisdizione ecclesiastica), nel vigore dell’art. 3 del c.p.c. del 1942, a tenore del quale la giurisdizione italiana non è esclusa dalla pendenza davanti a un giudice straniero della medesima causa o di altra con questa connessa.

Vero è che, come osserva (non la sentenza n. 1824/93, ma) la Corte territoriale il criterio della prevenzione di cui all’art. 39 c.p.c., è adottato dall’art. 21 della convenzione di Bruxelles del 27settembre 1968 (legge 21 giugno 1971, n. 804) e, con limitazioni, anche dall’art. 7 della nuova disciplina di diritto internazionale privato di cui alla legge n. 218 del 1995, ma è pacifico che nessuna delle norme richiamate è applicabile nella specie, che ricade interamente nel vigore dell’art. 3 del c.p.c.

Del resto, come ha sottolineato la sentenza n. 3345 del 1997, nei rapporti tra giurisdizione ecclesiastica e giurisdizione civile, la prevenzione opera in un modo del tutto particolare, e cioè, per così dire, a senso unico, in favore della giurisdizione civile, in quanto la pendenza di un giudizio civile impedisce la delibazione ai sensi dell’art. 797, n. 6 c.p.c., mentre il giudice civile può essere paralizzato solo dall’avvenuta delibazione della sentenza ecclesiastica, restando il processo canonico un semplice fatto incapace di determinare una litispendenza nell’ordinamento dello Stato.

Né appare persuasivo neppure il richiamo alla precedente sentenza n. 8870 del 1990 operato dalla sentenza n. 1824 dei 1993. La precedente sentenza delle Sezioni unite del 1990, infatti, sul rilievo che la nuova disciplina relativa al sostentamento dei clero cattolico in Italia, introdotta con l’Accordo del 15 novembre 1984, ratificato e reso esecutivo con la legge n. 206 del 1985, e interamente trasfuso nella legge n. 222 dei 1985, non ha creato una riserva di giurisdizione in favore della Chiesa in materia, ma un sistema di giurisdizioni concorrenti, affermò che tale concorso deve essere risolto sulla base del principio electa una via non datur recursus ad alteram. Ma, anche a tralasciare le obiezioni avanzate da autorevole dottrina sulla applicazione di un principio regolatore del concorso di giurisdizioni a una fattispecie caratterizzata dalla circostanza che i sacerdoti interessati, prima di rivolgersi ai giudice del lavoro italiano, si erano rivolti (non alla giurisdizione ecclesiastica, ma) all’organo amministrativo ecclesiastico per la composizione delle controversie, previsto dall’art. 34 della legge n. 222 del 1985, resta il fatto che la sentenza n. 8870 non chiarisce a quale momento dei giudizio ci si debba riferire per considerare perfezionata la electio di una giurisdizione che preclude il ricorso all’altra, essendo in astratto ipotizzabile sia un sistema basato sul rilievo del momento della litis contestatio che un sistema basato sulla rilevanza del momento di formazione del giudicato.

Non resta che prendere atto che i rapporti tra giurisdizione civile e giurisdizione ecclesiastica debbono trovare la loro regola nel numeri 5 e 6 dell’art. 797 c.p.c., disposizioni richiamate dall’art. 8, n. 2 lettera c) dell’Accordo.

Alle stesse conclusioni questa Corte è in realtà già pervenuta, sul piano generale dei rapporti tra giudizio ordinario e giudizio di delibazione di sentenza con la sentenza n. 405 del 1992 (avente ad oggetto il riconoscimento e l’esecuzione di arbitrato estero, ai sensi della convenzione di New York del 10 giugno 1958) con la sentenza n. 6562/1997 (avente ad oggetto la delibazione di sentenza straniera di divorzio). Con la prima decisione, questa Corte rilevato che, a differenza dei c.p.c. del 1865 (art. 941 ), che risolveva il problema del concorso tra azione di delibazione e azione ordinaria (relativa al medesimo rapporto ira le stesse parli) in base allo stesso criterio della prevenzione utilizzato per regolare la litispendenza tra i giudici nazionali, l’art, 797 n. 6 del c.p.c. vigente ha attribuito rilievo al giudizio davanti al giudice italiano, anche se istituito dopo il giudizio straniero, purché prima del passaggio in giudicato della sentenza straniera da delibare, ha affermato che il rapporto tra giudizio di delibazione e giudizio ordinario sullo stesso rapporto, non può essere regolato contemporaneamente dall’art. 39 e dall’art. 797 n. 6 c.p.c., perché la seconda norma è più restrittiva e specifica per la materia della delibazione.

Premesso che l’applicazione del n. 6 dell’art, 797, che viene in considerazione nella fattispecie, presuppone l’accertamento dell’identità di oggetto e dei soggetti dei giudizi, accertamento nei confronti del quale è diretto il secondo motivo, che verrà successivamente esaminato, deve ritenersi erronea, quindi, l’affermazione della Corte territoriale che (a parte, si ripete, la questione dell’identità delle cause) non ha dato alcun rilievo alla circostanza che la pendenza del giudizio davanti al giudice nazionale era anteriore al passaggio in giudicato della sentenza ecclesiastica, in violazione della norma indicata, secondo cui, invece, tale pendenza impedisce la delibazione della sentenza stessa.

Esula dai limiti di questo giudizio l’individuazione delle regole che disciplinano i rapporti tra giurisdizione nazionale e giurisdizione ecclesiastica, in ipotesi diverse da quella sottoposta all’esame di questa Corte (giudizio nazionale instaurato dopo il passaggio in giudicato della sentenza ecclesiastica, ovvero dopo l’instaurazione del procedimento di delibazione ovvero, ancora, dopo il passaggio in giudicato della sentenza di delibazione), delle quali si è ampiamente occupata la dottrina, che, comunque, ha sempre escluso che, anche in tali fattispecie, possa trovare applicazione il criterio della prevenzione, nel senso specificato dall’art. 39 c.p.c.

4) Anche il secondo motivo è fondato.

Risulta infatti dalla sentenza impugnata che la Trinciavelli ha proposto davanti al tribunale di Pisa azione di accertamento negativo della esistenza di vizi del matrimonio. E’ pacifico tra le parti che i vizi la cui inesistenza deve accertare il giudice nazionale, sono gli stessi dedotti dal Banti davanti al giudice ecclesiastico (e da quel giudice accertati).

In questa situazione appare apodittica l’affermazione della Corte territoriale che l’oggetto del giudizio di delibazione è diverso dall’oggetto del giudizio pendente davanti al tribunale di Pisa, non essendo stata indicata alcuna ragione sulla quale si basa il predetto giudizio di diversità.

La necessità della indicazione degli argomenti a sostegno delle conclusioni raggiunte deriva dal rilievo che, al fini dell’identità oggettiva dei giudizio deve tenersi conto non tanto del cosiddetto petitum formale (o immediato), inteso come provvedimento giurisdizionale richiesto, quanto del cosiddetto petitum sostanziale (o mediato), come bene della vita di cui si chiede il riconoscimento. Utile strumento dell’indagine, che è riservata al giudice del merito, è l’identificazione dell’oggetto del giudicato che si andrebbe a formare, in caso di accoglimento della domanda (cass. n. 11785/91) e quindi, nella specie, la Corte territoriale avrebbe dovuto valutare se il giudicato che si sarebbe formato in un giudizio, era idoneo ad esplicare efficacia preclusiva nell’altro, e avrebbe dovuto indicare le ragioni sulle quali si basava il suo giudizio.

Ancora più delicata, e quindi abbisognevole di approfondita disamina e accurata argomentazione, doveva essere l’accertamento dell’identità della causa petendi, in relazione alla dibattuta questione se possa chiedersi al giudice nazionale l’accertamento della nullità (o, come nella specie, della validità) del matrimonio concordatario sulla base dei diritto nazionale ovvero se tale giudice debba applicare le norme canoniche ovvero, infine, una disciplina risultante dagli elementi comuni all’uno e all’altro ordinamento. Ciò perché, se è vero che in una precedente occasione (sent. n. 3314/95) è stata negata l’identità del giudizio di delibazione di sentenza ecclesiastica di nullità del matrimonio concordatario e del giudizio davanti al giudice italiano avente ad oggetto l’accertamento della validità dello stesso matrimonio, è vero altresì che in quella fattispecie era stato chiesto il riconoscimento di conformità dei matrimonio al diritto italiano, mentre, come è stato osservato in dottrina, quando la domanda di accertamento della validità o invalidità del matrimonio sia fondata sulle norme canonistiche, non v’è ragione di negare l’identità di tale giudizio rispetto a quello di delibazione. In concreto la corte territoriale doveva quindi accertare quale fosse la disciplina invocata davanti al tribunale di Pisa.

In conclusione, in accoglimento del ricorso, la sentenza deve essere cassata con rinvio ad altra sezione della Corte d’appello di Firenze che provvederà anche sulle spese di questo giudizio.

P.Q.M.

la Corte accoglie il ricorso; cassa la sentenza impugnata e rinvia, anche per le spese di questo giudizio, ad altra sezione della Corte d’appello di Firenze.

Così deciso in Roma il 14 luglio 1998, nella camera di consiglio della prima sezione civile.

(omissis)