Osservatorio delle libertà ed istituzioni religiose

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Osservatorio delle Libertà ed Istituzioni Religiose

Documenti • 2 Dicembre 2003

Sentenza 16 febbraio 1995, n.1701

Cassazione. Prima Sezione Civile. Sentenza 16 febbraio 1995, n. 1701.

(Corda; Graziadei)

Motivi della decisione

Con il primo motivo del ricorso, insistendosi nell’opporre la contrarietà della pronuncia ecclesiastica all’ordine pubblico italiano, si muove alla Corte di Napoli una duplice critica: l’aver ritenuto che la condizione opposta dal Mauro al matrimonio fosse stata portata a conoscenza della Rossi, benché la relativa circostanza, riferita dall’interessato, mancava di conforto probatorio ed era comunque smentita dalla stessa decisione delibanda, nella parte in cui rilevava che non era stata dimostrata la pretesa adesione della moglie ad un accordo di tipo simulatorio; l’aver circoscritto l’indagine alla sola fase genetica del vicolo coniugale, trascurando che la concreta instaurazione e protrazione del rapporto per sei anni, con la nascita di due figli, di per sé ostava al recepimento della dichiarazione di nullità, anche alla luce delle disposizioni dell’art. 29 Cost. (in tema di diritti della famiglia quale “società naturale”).

Il motivo è infondato in entrambe le censure.

Con riguardo all’una, va osservato che la stessa ricorrente richiama e condivide il consolidato orientamento giurisprudenziale, secondo cui la manifestazione all’altro coniuge dell’esclusione unilaterale del “bonum sacramenti” (come in generale dei “bona matrimonii”), quale situazione preclusiva alla configurabilità del suddetto conflitto con l’ordine pubblico, è da riscontrarsi sulla scorta dei fatti acclarati nel procedimento canonico, non in esito ad un’autonoma istruttoria (v., da ultimo, Cass. n. 188 del 10 gennaio 1991).

A tale principio si è attenuta la Corte d’appello di Napoli, ed il convincimento da essa espresso, circa l’evincibilità dalla sentenza ecclesiastica dell’intervenuta partecipazione alla moglie dei propositi del marito, non può essere contrastato né sollecitando una diretta esegesi delle risultanze di quel procedimento, non consentita in questa sede, né facendo riferimento ad accertamenti del Giudice ecclesiastico che non ineriscono al problema in discorso (la simulazione del matrimonio, sotto il profilo dell’adesione di un coniuge alle condizioni invalidanti apposte dall’altro coniuge alla convenzione matrimoniale, integra un “quid pluris” rispetto alla semplice conoscenza delle condizioni stesse, di modo che il diniego del perfezionarsi della prima non interferisce sull’affermazione della sussistenza della seconda).

In ordine poi alla questione della rilevanza, per la legge italiana, del matrimonio-rapporto, nonché della sua idoneità a superare ragioni di nullità del matrimonio-atto (art. 123 c.c.), si deve considerare, in adesione all’indirizzo segnato dalle Sezioni Unite in questa Corte con la sentenza n. 4700 del 20 luglio 1988 e poi univocamente seguito (v., fra le altre, Cass. n. 1018 del 12 febbraio 1990), che le difformi previsioni della legge canonica, disconoscitive di ogni possibilità di emendare i vizi che coinvolgono il momento costitutivo del vincolo coniugale, rimangono nell’ambito di quelle specificità dell’ordinamento della Chiesa, la cui applicazione da parte del giudice ecclesiastico non tocca regole essenziali ed irrinunciabili dell’ordinamento interno, né quindi si traduce in impedimento alla delibazione (art. 8 dell’Accordo di Roma del 18 febbraio 1984, ratificato con legge 25 marzo 1985, n. 121).

Con il secondo motivo del ricorso, la Rossi, adducendo la violazione dell’art. 797 nn. 2, 3 e 7 c.p.c, rinnova l’assunto secondo cui era situazione preclusiva dell’accoglimento della domanda del Mauro la menomazione delle proprie facoltà difensive davanti al Tribunale ecclesiastico, per effetto della notificazione dei sopra indicati atti processuali a mani di persone (la madre ed il gestore di un vicino esercizio commerciale) non conviventi e non abilitate a rendersi consegnatarie dei plichi postali.

Il motivo è infondato.

La ricorrente, con le riportate doglianze, non mette in discussione quanto acclarato dalla Corte d’appello, circa la sua rituale evocazione nel giudizio “a quo”, con svolgimento di attività assertiva e probatoria sui fatti nei posti dal Tribunale ecclesiastico a sostegno della decisione, ma tende esclusivamente, in dipendenza di una pretesa irregolarità della notificazione di atti successivi, una compromissione dei diritti di difesa nella fase finale del procedimento.

Senza che occorra prendere posizione sulla influenza o meno in sede delibativa dei vizi in questione, quando sia pacifico che la parte convenuta abbia conosciuto la pretesa avversaria ed abbia interloquito su di essa, va osservato, in via assorbente, che la Corte d’appello ha vagliato la suddetta deduzione, negandole consistenza sul rilievo della rituale consegna delle copie di quegli atti a persone incaricate e legittimate, e che la relativa affermazione, ove esprime un accertamento sulla qualità dei consegnatari, non può essere efficacemente contrastata con una mera enunciazione di segno opposto, senza la debita specificazione di quali elementi avrebbero dovuto confortarla.

Il terzo motivo del ricorso è diretto a sostenere che la Corte di Napoli avrebbe dovuto disporre d’ufficio l’acquisizione dei verbali e degli atti del processo canonico, rilevanti per riscontrare le condizioni della delibazione, o comunque avrebbe dovuto far carico al Mauro della loro produzione, alla stregua dell’onere della parte istante di dare dimostrazione dei requisiti della propria pretesa.

Il motivo è infondato.

In carenza di espresse disposizioni, le quali impongano al giudice della delibazione od alla parte attrice le acquisizioni o le allegazioni reclamate dalla ricorrente, trovano applicazione le comuni regole in tema di prove, di modo che, se il controllo sui presupposti della delibazione possa essere esaustivamente basato sugli elementi raccolti, come verificatosi nella concreta vicenda, rimane sterile la denuncia di mancata integrazione delle risultanze di causa senza l’indicazione di quali dati decisivi gli ulteriori documenti avrebbero potuto fornire.

Con il quarto motivo si assume che la decisione della Corte d’appello è affetta da insufficiente od omessa motivazione, per aver negato la mera riserva mentale e per aver escluso la contrarietà all’ordine pubblico italiano senza un adeguato corredo argomentativo.

Il motivo è infondato.

La Corte di Napoli, alla luce di quanto sopra osservato nell’esame delle altre censure, ha dato contezza delle ragioni delle suddette affermazioni, e la sinteticità del relativo “iter” logico, con riferimento globale agli elementi emergenti dalla pronuncia ecclesiastica, non può in sé integrare i dedotti vizi motivazionali, non risultando, come si è visto, il mancato esame di risultanze potenzialmente decisive.

In conclusione il ricorso deve essere respinto.