Osservatorio delle libertà ed istituzioni religiose

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Osservatorio delle Libertà ed Istituzioni Religiose

Documenti • 9 Ottobre 2003

Sentenza 11 aprile 1994, n.3353

Cassazione. Sezioni Unite Civili. Sentenza 11 aprile 1994, n. 3353.

(Brancaccio; Nuovo)

(omissis)

Motivi della decisione

Con il primo motivo, denunciando la violazione degli artt. 2195 c.c., 18 e 35 L. 20 maggio 1970 n. 300, 11 L. 15 luglio 1966 n. 604 nonché vizi di motivazione, sostiene il ricorrente che la suddivisione per tipi di imprese, contemplata nell’art. 2195 c.c., serve a individuare i presupposti per l’applicazione delle discipline codicistiche (iscrizione nel registro delle imprese, tenuta delle scritture contabili, soggezione al fallimento), non a definire una nozione generale di impresa. In ogni caso non è possibile comprendere in tale classificazione le attività scolastiche ed educative in genere, specie quelle gestite da istituti religiosi.
L’Istituto Mater Dei della Congregazione delle Figlie della Carità di San Vincenzo de’ Paoli è una casa religiosa canonicamente riconosciuta dalla Sacra Congregazione per i Religiosi e gli Istituti Secolari con decreto dell’11 giugno 1975 e ha personalità giuridica in forza del d.p.r. in data 7 febbraio 1976.
Tra i fini perseguiti da tale Congregazione vi è l’assistenza, l’educazione e l’istruzione dei bambini bisognosi, per cui le attività formative e didattiche della gioventú costituiscono attuazione delle finalità religiose dell’Istituto. In tali attività, svolte a favore di soggetti bisognosi sul piano economico, è assente lo scopo di lucro, che è tipico dell’impresa commerciale. Inoltre l’attività didattica non è suscettibile di valutazione economica né da un punto di vista generale, in quanto non entra in relazione o in concorrenza professionale con alcun’altra categoria di imprenditori, né da un punto di vista particolare, perché si ricollega a finalità di assistenza e beneficenza ispirate ai principi religiosi e all’educazione cristiana.
L’Istituto Mater Dei sotto questo profilo va ricompreso nelle c.d. “organizzazioni di tendenza” nelle quali l’attività è tutelata per una specifica finalità, seppure differente da quelle religiose e di culto, ma dove il profilo confessionale costituisce pur sempre la motivazione prevalente, che caratterizza e determina l’iniziativa. E a tal proposito lamenta l’Istituto ricorrente che il tribunale non abbia tenuto conto delle sovvenzioni pubbliche che nell’anno 1986 ammontarono a ben 355 milioni, considerandole erroneamente fra le entrate per profitto. D’altronde, l’utile netto di lire 21.750.000, denunciato nell’anno suddetto, costituisce un margine così esiguo (rispetto ad entrate di oltre 743 milioni) da costituire una conferma della finalità non lucrativa dell’attività svolta.
Inoltre la natura di organizzazione confessionale o di tendenza non è esclusa dal fatto che un Istituto religioso svolga, collateralmente alle proprie attività istituzionali, attività gestite in modo autonomo secondo criteri di economicità e in rapporto di strumentalità con i propri fini istituzionali, tanto più che nella specie il pagamento delle rette a carico degli alunni è finalizzato non a perseguire un fine di lucro, ma a mantenere il necessario equilibrio dei conti economici e la mera sopravvivenza dell’attività.
Si deve quindi escludere che l’attività scolastica, svolta dall’Istituto Mater Dei, fosse una vera e propria attività di impresa, ai sensi dell’art. 2195 c.c., e che essa comunque potesse essere ricompresa fra le imprese di cui parla l’art. 35 L. 20 maggio 1970 n. 300, ai fini dell’applicabilità della tutela reale garantita dall’art. 18 della stessa legge. L’Istituto andava compreso invece fra i non imprenditori, per cui, avendo avuto alle sue dipendenze 33 lavoratori, non era soggetto né alla reintegrazione nel posto di lavoro dei dipendenti illegittimamente licenziati, né all’obbligo di riassunzione, a norma dell’art. 11 L. 15 luglio 1966 n. 604.
Il motivo non è fondato. E’ vero che le censure mosse dal ricorrente alla sentenza impugnata trovano sostegno in alcune pronunce di questa Corte, secondo le quali “fra le imprese industriali e commerciali, alle quali (oltre che alle imprese agricole) l’art. 35 L. n. 300 del 1970, adoperando detta espressione nel suo preciso significato tecnico-giuridico, limita l’applicabilità dell’art. 18 della stessa legge, non possono essere inclusi i datori di lavoro titolari di istituti scolastici (ai quali – nella sussistenza del prescritto requisito dimensionale ex art. 11 L. n. 604 del 1966, che deve essere provato dal lavoratore – è invece applicabile la disciplina sui licenziamenti individuali) atteso che l’attività di insegnamento, anche se implicante l’uso di beni strumentali ed esercitata a fronte di contribuzioni pubbliche o di rette private, non è riconducibile ad alcuna delle attività indicate nell’art. 2195 c.c., le quali – come reso manifesto dall’interpretazione di tale norma alla luce anche dei lavori preparatori e dei principi dello ius gentium, quale riconosciuto dall’art. 10 Cost. – si caratterizzano tutte per la loro attitudine a soddisfare bisogni concreti, intrinsecamente diversi da quello dell’istruzione, cui sono rivolte attività essenzialmente razionali o cognitive)” (vedi Cass. 19 gennaio 1989, n. 253).
Il nocciolo della argomentazione contenuto nella predetta decisione è:
a) che l’art. 35 L. 300/70, quando limita l’applicabilità dello statuto dei lavoratori alle imprese commerciali e industriali, si riferisce alle imprese individuate nell’art. 2195 c.c., e quindi presuppone l’appartenenza del datore di lavoro a una delle categorie merceologiche ivi elencate (vedi in questo senso anche Cass. 9 marzo 1989, n. 1246 con riferimento agli sgravi contributivi previsti per le aziende che operano nel Mezzogiorno);
b) che in tali categorie non può essere ricompresa l’attività didattica, perché costituisce una delle espressioni più tradizionali delle opere dell’uomo di carattere squisitamente intellettuale, tanto da essere ritenuta una “missione”;
c) che detta attività non entra in relazione o in concorrenza economicistica a carattere professionale con alcuna controparte o categoria di imprenditori, né il compenso, che da essa può essere tratto, deve essere ritenuto come un punto di incontro di maggiore o minor livello tra un’ipotetica offerta di istruzione e una domanda correlativa, che prefigurerebbe la formazione di un prezzo stabilito da un mercato, sì da assumere carattere o connotato di profitto imprenditoriale;
d) che, secondo lo ius gentium (costituente fonte comprimaria di interpretazione) il commercio concerne le res quae tangi possunt quale espressione emblematica dei beni della vita, per cui da esso rimangono escluse tutte quelle opere dell’uomo, che si risolvono in acquisizione dei principi di civiltà sociale giuridica ed etica, che vengono svolte e conseguite con attività essenzialmente razionali e cognitive, quali sono le attività di insegnamento e di istruzione;
e) che pertanto ai gestori di scuole private, che non possono essere considerati imprenditori commerciali o industriali, può applicarsi, sempre che sussista il requisito dimensionale, solamente la disciplina sui licenziamenti individuali di cui alla L. 15 luglio 1966 n. 604.
Tali argomentazioni sono state brevemente richiamate anche in un’altra decisione di questa Corte ad opera dello stesso estensore, decisione che però verteva sul diverso problema della legittimità di alcune cause di risoluzione del rapporto di lavoro nelle scuole confessionali, quali organizzazioni di tendenza (vedi Cass. 21 novembre 1991, n. 12530).
Quest’ultima problematica è del tutto estranea alla presente controversia, nella quale si discute di un licenziamento intimato non perché l’insegnante laica avesse tenuto un comportamento non conforme ai canoni e ai valori di una scuola confessionale, ma perché la Congregazione ha ritenuto che la suora (a cui sarebbe stato affidato l’insegnamento di materie letterarie prima affidato all’Alterio) avrebbe meglio perseguito i compiti assistenziali e confessionali propri della Congregazione e avrebbe nello stesso tempo consentito un risparmio nei costi di gestione.
Per stabilire quale fosse il regime giuridico applicabile a tale licenziamento occorre risalire alla situazione normativa esistente a quel momento (1987), essendo tale regolamentazione profondamente mutata dopo l’entrata in vigore della L. 11 maggio 1990 n. 108.
Con la L. 20 maggio 1970 n. 300 si posero dei problemi di coordinamento fra la nuova disciplina sui licenziamenti individuali, introdotta da tale legge, e il preesistente regime, dettato dalla L. 15 luglio 1966 n. 604 e dall’art. 2118 c.c., ancora in vigore.
Dopo le sentenze di queste Sezioni Unite (Cass. 7 novembre 1978, n. 5058; 15 ottobre 1985, n. 5050; 16 gennaio 1986, n. 222) e le pronunce della Corte costituzionale 6 marzo 1974, n. 55, 19 giugno 1975, n. 152, 8 luglio 1975, n. 189 e 14 gennaio 1986, n. 2, il collegamento fra le tre discipline fu operato nel senso che a norma dell’art. 35 L. 300/70 la tutela cosiddetta reale contro i licenziamenti illegittimi di cui all’art. 18 della stessa legge (reintegrazione nel posto di lavoro e risarcimento del danno) si applicava alle imprese industriali e commerciali che in ciascuna sede, stabilimento, filiale, ufficio o reparto autonomo (ovvero nell’ambito dello stesso comune) occupassero più di quindici dipendenti e alle imprese agricole che occupassero più di cinque dipendenti.
In difetto di tali requisiti, come pure nel caso di datore di lavoro non imprenditore, era invece applicabile la tutela cosiddetta obbligatoria, prevista dall’art. 8 L. 15 luglio 1966 n. 604 (obbligo di riassunzione o, in alternativa, risarcimento del danno), purché sussistesse il requisito numerico dell’art. 11 della stessa legge (occupazione complessiva di almeno trentasei dipendenti).
Infine, quando difettava anche quest’ultimo requisito, il licenziamento era disciplinato dall’art. 2118 c.c. (licenziamento ad nutum).
É in relazione a questa disciplina che appare rilevante la questione se l’Istituto Mater Dei debba o no considerarsi un imprenditore.
Tale problema va affrontato esclusivamente sulla base del nostro diritto positivo, senza che si possa far riferimento (come ha fatto Cass. 19 gennaio 1989, n. 253) ad un principio di ius gentium (inteso evidentemente, come lo definisce Gaio, quod vero naturalis ratio inter omnes homines constituit) principio affermato duemila anni fa, secondo il quale il commercio può riguardare esclusivamente le res quae tangi possunt. A venti secoli di distanza non vi è alcun popolo civile, che escluda dal novero dei beni commerciali quelli cosiddetti immateriali, beni che nella società attuale piú evoluta, anzi, non solo vengono fatti oggetti di sfruttamento commerciale, ma hanno raggiunto valori e importanza ben maggiore dei cosiddetti beni materiali (bestiame, terreni, case, ecc.): si pensi alle cessioni (o alla concessione di sfruttamento) di brevetti, marchi, diritti di autore, software, know how, ecc. Nell’attuale società postindustriale occupa sempre maggiore spazio il settore dei servizi e, nell’ambito di essi, quelli che apportano conoscenza o forniscono istruzioni adeguatamente programmate per la soluzione di particolari problemi tecnici. Se pertanto fosse possibile ancora oggi immaginare uno ius gentium, bisognerebbe concludere che il commercio odierno riguarda non solo le res corporales, ma anche quelle quae intelliguntur, come le definisce Cicerone.
D’altronde, lo stesso art. 2195, n. 1, c.c., nel definire le attività industriali, comprende non solo quelle che producono beni ma anche quelle che producono servizi.
Le prime sono quelle che hanno per oggetto la produzione di cose materiali e tangibili, ottenute attraverso la manipolazione o la trasformazione di elementi preesistenti, mentre le seconde (quelle che producono servizi) si sostanziano nella prestazione di un facere come elemento primario della fattispecie, capace di soddisfare particolari bisogni degli utenti e suscettibile di autonoma organizzazione e valutazione economica. Il servizio, ottenuto mediante l’organizzazione e l’impiego dei fattori produttivi (non necessariamente fisici ma anche di natura intellettuale, professionale e cognitiva) predisposti dall’imprenditore, consiste, quindi, in un risultato economico nuovo e originale, dotato di un’entità propria, che non si esaurisce nella sommatoria delle utilità fornite dai beni preesistenti o nel mero accrescimento di utilità derivanti dalla circolazione di tali beni attraverso un’attività di scambio e di intermediazione nello scambio.
In applicazione di tali princìpi, la giurisprudenza di questa corte ha definito imprese industriali produttrici di servizi le case di cura (Cass. 23 febbraio 1988, n. 1932; 15 gennaio 1987, n. 281), gli istituti di vigilanza (Cass. 11 marzo 1993 n. 2929; 22 aprile 1992, n. 4844; 14 luglio 1988, n. 4622), l’attività consistente nella trasposizione di dati contabili, forniti dai committenti, su schede meccanografiche, destinate ad essere inserite negli elaboratori elettronici dei committenti medesimi (Cass. 17 aprile 1990, n. 3176), l’attività di memorizzazione in computer e di formazione delle schede meccanizzate (Cass. 4 aprile 1991, n. 3525), l’attività di consulenza finanziaria o industriale (Cass. 9 dicembre 1992, n. 12989; 17 febbraio 1992, n. 1921 e 10 gennaio 1992, n. 197), l’attività di studio, analisi, raccolta e aggregazione di dati aziendali (Cass. 10 febbraio 1992, n. 1456), l’attività di revisione contabile e di certificazione (Cass. 16 giugno 1990, n. 6069).
Né ad escludere, nella specie, la natura di attività industriale può valere la considerazione, svolta nella sentenza Cass. 19 gennaio 1989, n. 253, secondo la quale “l’istruzione dei giovani… è una delle espressioni più tradizionali delle opere dell’uomo di carattere squisitamente intellettuale”, per cui l’impresa commerciale non può riguardare “attività intellettuali, che costituiscono… il sostrato cognitivo e culturale dell’uomo, quale, per l’appunto, l’attività didattica”.
Quella così descritta, infatti, è l’attività dell’insegnante, attività sicuramente personale, che non appartiene o compete né alla persona giuridica, al cui servizio il docente eventualmente si trovi, né alla scuola, nella cui organizzazione l’insegnante stesso risulti inquadrato.
Il gestore della scuola non esplica attività didattica, ma organizza gli elementi personali (insegnanti, impiegati amministrativi e bidelli) e quelli materiali (aule, banchi, supporti didattici, biblioteche, ecc.) che sono necessari per l’istituzione e il funzionamento del complesso servizio scolastico: servizio, che consiste non in una semplice sommatoria dell’attività didattica, svolta dai vari insegnanti, ma in un piú articolato coordinamento di tale attività, che assicuri lo svolgimento dei programmi ministeriali e il perseguimento del fine pubblico dell’istruzione e dell’educazione degli allievi.
Allo stesso modo la cura dei pazienti è un’attività esclusiva e personale del medico, mentre il gestore di una clinica mette a disposizione degli ammalati l’intero servizio sanitario, costituito da tutte le strutture personali e materiali necessarie perché possa svolgersi l’attività medica.
Né ai fini della sussistenza di un’impresa è essenziale che l’attività esercitata abbia la finalità di produrre entrate superiori ai costi di produzione, perché, come è stato rilevato dalla piú avveduta dottrina, è sufficiente, ai fini dell’economicità dell’attività, l’idoneità almeno tendenziale a ricavare dalla cessione dei beni o dei servizi prodotti quanto occorra per compensare i fattori produttivi impiegati e cioè a perseguire tendenzialmente il pareggio del bilancio (ed è questo in concreto lo scopo perseguito dalle imprese pubbliche, che sempre imprese sono: vedi Cass. 3 aprile 1989, n. 1602). Tale problematica è pero nella specie superflua, essendo risultato in causa che nell’anno 1986 la Congregazione ha ricavato dalla gestione della scuola un profitto tassabile di lire 21.750.000, certamente modesto in relazione al costo globale del servizio, ma tale da escludere che esso venisse erogato con intento di liberalità e per adempiere ad una funzione assistenziale.
Infondata è poi l’obiezione sollevata dal ricorrente, secondo la quale le rette pagate dagli allievi non erano sufficienti a coprire il costo di produzione del servizio, per cui il pareggio di bilancio e il modesto profitto è stato raggiunto solo grazie alle sovvenzioni pubbliche di lire 355.000.000. Tali sovvenzioni, infatti, rappresentano per l’Istituto un ricavo (al pari delle rette degli alunni) e vanno conteggiate in attivo. Se non fosse così e se il pareggio di bilancio dovesse essere necessariamente raggiunto con il prezzo del servizio, pagato dagli utenti, nessuna azienda di trasporto di persone (pubblica o privata) dovrebbe considerarsi impresa, in quanto dette aziende sono largamente sovvenzionate dallo Stato o da altri enti pubblici.
Al contrario, è certo che l’imprenditore, nel valutare l’economicità e la redditività del servizio da produrre, fa affidamento su tali sovvenzioni, come costanti ricavi dell’esercizio.
Dovendosi, quindi, considerare la scuola, gestita dal ricorrente, come un’impresa produttrice di servizi, essa rientra fra le imprese industriali e commerciali, cui l’art. 35 L. 20 maggio 1970 n. 300 estende la disciplina dello statuto dei lavoratori (ivi compresa la tutela reale del posto di lavoro per i dipendenti illegittimamente licenziati), quando raggiungono il livello occupazionale di quindici dipendenti in ciascuna sede o stabilimento ecc., livello questo ampiamente superato nella specie, nella quale (con un accertamento di fatto non censurato) risulta che i lavoratori occupati nella scuola e retribuiti erano in numero di trentatré, di cui ventiquattro insegnanti e nove operai.
Solo per completezza vi è da aggiungere che la soluzione non sarebbe mutata se il licenziamento fosse avvenuto dopo l’entrata in vigore della L. 11 maggio 1990 n. 108, che ha escluso l’applicabilità dell’art. 18 L. 300/70 (ma non quella della L. 15 luglio 1966 n. 604) “nei confronti dei datori di lavoro non imprenditori che svolgono senza fini di lucro attività di natura politica, sindacale, culturale, di istruzione ovvero di religione o di culto”. Innanzi tutto, va rilevato che nemmeno questa legge (che per la prima volta nel nostro ordinamento ha fatto indirettamente emergere almeno in parte la figura giuridica delle cosiddette organizzazioni di tendenza) ha accolto il principio, sostenuto dall’Istituto ricorrente, secondo il quale le organizzazioni di tendenza sarebbero legibus solutae in materia di licenziamento. Essa al contrario ha ribadito che tali soggetti, anche quando operano senza organizzazione imprenditoriale (e senza scopo di lucro) per il raggiungimento diretto dei propri fini istituzionali, rimangono soggetti (come lo erano prima e in deroga alle norme della legge del 1990, che ha esteso anche ai non imprenditori la tutela reale) alla disciplina dei licenziamenti, contenuta nella L. 604/66.
Va poi aggiunto che tale norma non sarebbe applicabile all’Istituto Mater Dei, che qui viene in considerazione non quale Congregazione che svolge un’attività di religione e di culto, ma quale ente, che gestisce con organizzazione di impresa (e con scopo di lucro) una scuola privata.
Sull’applicabilità nella specie dell’art. 18 L. 300/70 la sentenza del tribunale non merita quindi censura alcuna.
Con il secondo motivo, denunciando la violazione degli artt. 1 e 2 L. 604/66 anche in relazione agli artt. 113 e 115 c.p.c. nonché vizi di motivazione, sostiene il ricorrente che la finalità di economizzare sulla gestione della scuola, affidando l’incarico di insegnamento ad una suora non retribuita, e quella di ottenere una prestazione dal punto di vista religioso particolarmente qualificata, costituiscono giustificato motivo oggettivo di licenziamento.
Anche questa censura è infondata. La dottrina e la giurisprudenza sono unanimi nel ritenere che il licenziamento per giustificato motivo oggettivo si verifica ogni volta che si presenta la necessità di sopprimere determinati posti di lavoro a causa di scelte attinenti all’attività produttiva, all’organizzazione del lavoro e al regolare funzionamento di essa e nel conseguente e inevitabile licenziamento dei lavoratori che ricoprano detti posti e che non possano essere impiegati altrimenti (vedi in questo senso Cass. 19 gennaio 1988, n. 368; 9 marzo 1987, n. 2456; 26 marzo 1982, n. 1894).
É stato altresì ritenuto che rientra nella previsione dell’art. 3, 2″ parte, L. 15 luglio 1966 n. 604 l’ipotesi di un riassetto organizzativo dell’azienda, attuato al fine di una piú economica gestione di essa, e deciso dall’imprenditore, non pretestuosamente e non semplicemente per un incremento del profitto, bensì per far fronte a favorevoli situazioni – non meramente contingenti – influenti in modo decisivo sulla normale attività produttiva (Cass. 18 aprile 1991, n. 4164; 10 maggio 1986, n. 3127; 2 febbraio 1983, n. 903).
Ma nella specie nessuna ristrutturazione dell’impresa vi è stata e nessuna soppressione di posto si è verificata, ma si è operata puramente e semplicemente la sostituzione dell’Alterio con una suora, che, appartenendo alla stessa Congregazione che gestisce la scuola, non viene retribuita.
Non si tratta, quindi, di una diversa organizzazione aziendale, imposta dalle necessità finanziarie dell’impresa o anche più semplicemente dall’esigenza di produrre a costi piú competitivi, ma si tratta di un risparmio sulle retribuzioni dovute al personale dipendente. Se fosse ammissibile una motivazione siffatta per far cessare un rapporto di lavoro, verrebbe del tutto vanificato lo scopo della disciplina sui licenziamenti individuali, scopo che consiste nella tutela della stabilità del posto di lavoro per i dipendenti a tempo indeterminato. Se diventano rilevanti le economie sulle retribuzioni dei dipendenti, ogni datore di lavoro potrebbe licenziare i suoi lavoratori più anziani per sostituirli con quelli piú giovani, che, per ragioni di età e di carriera, hanno diritto a retribuzioni inferiori.
Altrettanto inconferente è l’altra ragione, addotta in corso di causa dall’Istituto ricorrente per giustificare il licenziamento dell’Alterio, e cioè che la suora, chiamata in sua sostituzione, dovesse considerarsi “più idonea… a svolgere i compiti assistenziali e confessionali tipici della Congregazione di appartenenza”. Nella presente controversia non vengono in discussione i compiti assistenziali e confessionali che la Congregazione svolge nella sua attività istituzionale, ma si discute solo dell’insegnamento delle materie letterarie nella scuola magistrale, e in proposito nemmeno l’Istituto ricorrente ha mai dedotto che la suora avesse titoli maggiori per ricoprire piú adeguatamente la cattedra suddetta.
D’altronde, il possesso da parte di una persona di titoli poziori può essere valutato solo al momento della costituzione del rapporto, ma non certo costituire motivo di licenziamento del dipendente con titoli inferiori.
Il ricorso va dunque respinto.