Sentenza 13 novembre 2000, n.508
Corte costituzionale. Sentenza 13 novembre 2000, n. 508.
(Mirabelli; Zagrebelsky)
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori:
– Cesare MIRABELLI Presidente
– Francesco GUIZZI Giudice
– Fernando SANTOSUOSSO ”
– Massimo VARI ”
– Cesare RUPERTO ”
– Riccardo CHIEPPA ”
– Gustavo ZAGREBELSKY ”
– Valerio ONIDA ”
– Carlo MEZZANOTTE ”
– Fernanda CONTRI ”
– Guido NEPPI MODONA ”
– Piero Alberto CAPOTOSTI ”
– Annibale MARINI ”
– Franco BILE ”
– Giovanni Maria FLICK ”
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 402 del codice penale, promosso con ordinanza emessa il 5 novembre 1998 dalla Corte di cassazione nel procedimento penale a carico di A. G., iscritta al n. 105 del registro ordinanze 1999 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 10, prima serie speciale, dell’anno 1999.
Udito nella camera di consiglio del 27 settembre 2000 il Giudice relatore Gustavo Zagrebelsky.
(omissis)
Considerato in diritto
1. – La Corte di cassazione solleva questione di legittimità costituzionale dell’art. 402 del codice penale (Vilipendio della religione dello Stato) che punisce con la reclusione fino a un anno “chiunque pubblicamente vilipende la religione dello Stato”. Il giudice rimettente dubita che la disposizione in esame, accordando una tutela privilegiata alla sola religione cattolica – già religione dello Stato (sentenze nn. 925 del 1988, 440 del 1995 e 329 del 1997) – violi gli artt. 3 e 8 della Costituzione, cioè l’eguaglianza di tutti i cittadini senza distinzione di religione e l’eguale libertà di tutte le confessioni religiose davanti alla legge.
2. – La questione è fondata.
3. – Posta dal legislatore penale del 1930, la norma impugnata, insieme a tutte le altre che prevedono una protezione particolare a favore della religione dello Stato-religione cattolica, si spiega per il rilievo che, nelle concezioni politiche dell’epoca, era riconosciuto al cattolicesimo quale fattore di unità morale della nazione. In questo senso, la religione cattolica era “religione dello Stato” – anzi necessariamente “la sola” religione dello Stato (formula risalente all’art. 1 dello Statuto albertino e riportata a novella vita dall’art. 1 del Trattato fra la Santa Sede e l’Italia del 1929): oltre che essere considerata oggetto di professione di fede, essa era assunta a elemento costitutivo della compagine statale e, come tale, formava oggetto di particolare protezione anche nell’interesse dello Stato.
Le ragioni che giustificavano questa norma nel suo contesto originario sono anche quelle che ne determinano l’incostituzionalità nell’attuale.
In forza dei principi fondamentali di uguaglianza di tutti i cittadini senza distinzione di religione (art. 3 della Costituzione) e di uguale libertà davanti alla legge di tutte le confessioni religiose (art. 8 della Costituzione), l’atteggiamento dello Stato non può che essere di equidistanza e imparzialità nei confronti di queste ultime, senza che assumano rilevanza alcuna il dato quantitativo dell’adesione più o meno diffusa a questa o a quella confessione religiosa (sentenze nn. 925 del 1988, 440 del 1995 e 329 del 1997) e la maggiore o minore ampiezza delle reazioni sociali che possono seguire alla violazione dei diritti di una o di un’altra di esse (ancora la sentenza n. 329 del 1997), imponendosi la pari protezione della coscienza di ciascuna persona che si riconosce in una fede quale che sia la confessione di appartenenza (così ancora la sentenza n. 440 del 1995), ferma naturalmente la possibilità di regolare bilateralmente e quindi in modo differenziato, nella loro specificità, i rapporti dello Stato con la Chiesa cattolica tramite lo strumento concordatario (art. 7 della Costituzione) e con le confessioni religiose diverse da quella cattolica tramite intese (art. 8).
Tale posizione di equidistanza e imparzialità è il riflesso del principio di laicità che la Corte costituzionale ha tratto dal sistema delle norme costituzionali, un principio che assurge al rango di “principio supremo” (sentenze nn. 203 del 1989, 259 del 1990, 195 del 1993 e 329 del 1997), caratterizzando in senso pluralistico la forma del nostro Stato, entro il quale hanno da convivere, in uguaglianza di libertà, fedi, culture e tradizioni diverse (sentenza n. 440 del 1995).
Queste conclusioni sono progressivamente maturate, pur partendo da proposizioni iniziali per diversi aspetti divergenti (sentenze nn. 79 del 1958; 39 del 1965; 14 del 1973), in concomitanza con significativi e convergenti svolgimenti dell’ordinamento. Il punto 1 del Protocollo addizionale all’Accordo che apporta modificazioni al Concordato lateranense, recepito con la legge 25 marzo 1985, n. 121, ha esplicitamente affermato il venire meno del principio della religione cattolica come sola religione dello Stato e, con le diverse intese poi raggiunte con confessioni religiose diverse da quella cattolica, si è messo in azione il sistema dei rapporti bilaterali previsto dalla Costituzione per le altre confessioni. In tale contesto, si è manifestata la generale richiesta allo Stato di una sua disciplina penale equiparatrice, o nel senso dell’assicurazione della parità di tutela penale (come è nel caso dell’art. 1, quarto comma, dell’intesa con l’Unione delle Comunità ebraiche italiane del 27 febbraio 1987), o nel senso che la fede non necessita di tutela penale diretta, dovendosi solamente apprestare invece una protezione dell’esercizio dei diritti di libertà riconosciuti e garantiti dalla Costituzione (art. 4 dell’intesa con la Tavola valdese del 21 febbraio 1984; preambolo all’intesa con le Assemblee di Dio in Italia del 29 dicembre 1986; preambolo all’intesa con l’Unione Cristiana Evangelica Battista d’Italia del 29 marzo 1993). A fronte di questi svolgimenti dell’ordinamento nel senso dell’uguaglianza di fronte alla legge penale, l’art. 402 del codice penale rappresenta un anacronismo al quale non ha in tanti anni posto rimedio il legislatore. Deve ora provvedere questa Corte nell’esercizio dei suoi poteri di garanzia costituzionale.
4. – Sebbene, in generale, il ripristino dell’uguaglianza violata possa avvenire non solo eliminando del tutto la norma che determina quella violazione ma anche estendendone la portata per ricomprendervi i casi discriminati, e sebbene il sopra evocato principio di laicità non implichi indifferenza e astensione dello Stato dinanzi alle religioni ma legittimi interventi legislativi a protezione della libertà di religione (sentenza n. 203 del 1989), in sede di controllo di costituzionalità di norme penali si dà solo la prima possibilità. Alla seconda, osta infatti comunque la particolare riserva di legge stabilita dalla Costituzione in materia di reati e pene (art. 25, secondo comma) a cui consegue l’esclusione delle sentenze d’incostituzionalità aventi valenze additive, secondo l’orientamento di questa Corte (v., in analoga materia, la sentenza n. 440 del 1995).
La dichiarazione di illegittimità costituzionale dell’art. 402 del codice penale si impone dunque nella forma semplice, esclusivamente ablativa.
Per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 402 del codice penale (Vilipendio della religione dello Stato).
(omissis)
Autore:
Corte Costituzionale
Dossier:
Tutela penale
Nazione:
Italia
Parole chiave:
Chiesa cattolica, Laicità, Eguaglianza, Religione dello Stato, Tutela privilegiata, Equidistanza, Imparzialità, Reazione sociale
Natura:
Sentenza